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giovedì, 7 agosto 2008

LA MOSSA DEL MATTO AFFOGATO di Roberto Alajmo

Avevamo avuto modi di accennare all’uscita del nuovo romanzo di Roberto Alajmo in questo post (dedicato al volume “1982″, edito da Laterza).
Ne parliamo, adesso, in maniera più approfondita ripartendo dal titolo del libro: La mossa del matto affogato (Mondadori, 2008, pagg. 241, euro 17).

Per chi conosce bene il gioco degli scacchi la mossa del matto affogato non è una novità. Si tratta di uno scacco matto speciale, il più umiliante: il re, bloccato dai propri stessi pezzi, non può più muoversi.
“…Attraverso una serie di sacrifici, l’avversario ti ha chiuso in gabbia. Uno dopo l’altro sono i tuoi stessi pezzi ad averti circondato e messo in un angolo da cui non puoi più scappare. Nel giro di poche mosse sei passato dall’illusione di poter vincere sfruttando i suicidi in serie dell’avversario, alla frustrazione di doverti suicidare tu, senza possibilità di scelta, e di fronte alla minaccia di un unico cavallo superstite. Per quanto l’avversario sia ormai dissanguato, l’ultima mossa servirà solo a stringerti il cappio attorno al collo…”
Il brano tra virgolette è estrapolato dal romanzo.
Un romanzo come una partita a scacchi, dove il titolo di ciascun capitolo è il codice di una mossa (dalla prima fino allo scacco finale). Un romanzo di ventisei capitoli, una partita in ventisei mosse.
Il protagonista (e il giocatore) si chiama Giovanni Alagna: un impresario teatrale che opera in una città siciliana (Palermo?) e che ha improntato attività e vita avvalendosi, all’occorrenza, di imbrogli più o meno gravi. Un personaggio algido e determinato, ma che finirà con il rivelarsi uno sconfitto. Un “vinto” che si aggiunge alla schiera di quelli già tratteggiati da Roberto Alajmo nei precedenti romanzi (Cuore di madre e È stato il figlio). Con la differenza che, stavolta, il perdente è un uomo di cultura, un uomo alquanto noto.
Alagna ottiene successo, beneficia delle luci della ribalta, conduce una vita persino al di sopra delle proprie possibilità. Poco importa se, per farlo, deve ricorrere al bluff, alle bugie, alle omissioni. Poco importa se – di fatto – si ritrova a usare gli altri con noncuranza e semplicità strabilianti, basandosi sul motto: “meglio rimorsi, che rimpianti!”
Meglio rimorsi, sì; ma quando i rimorsi crescono all’eccesso e hanno la faccia di tua moglie Elvira (che decide di cacciarti fuori di casa dopo l’ennesimo tradimento), o il viso duro e quasi ostile delle tue due figlie che non si fidano più di te; quando il rimpianto assume le dimensioni catastrofiche di atti di violenza compiuti ai tuoi danni da delinquenti senza scrupoli, mandati a riscuotere soldi che non sei in grado di restituire; allora, Giovanni Alagna, cominci a capire che la partita sta prendendo una piega che non avevi preso in considerazione. Cominci a capire che stai perdendo.
Alla fine non ti rimane che inscenare un’uscita di scena melodrammatica, da par tuo. Un’uscita di scena con i riflettori puntati addosso. Tu attore, e gli altri – chi ti ha amato e chi ti ha odiato – intorno a te, a farti da pubblico (o almeno, così ti pare) mentre ti ritrovi paralizzato da una serie di scelte sbagliate. Fine della partita, Alagna. Scacco matto. Non ti resta che affogare.
L’utilizzo della “seconda persona” nelle frasi precedenti non è casuale, ma riflette una coraggiosa e originalissima scelta narrativa dell’autore. Quella di scrivere un romanzo tutto in “seconda persona”, dalla prima all’ultima parola. Un romanzo, però, che scorre lieve, veloce (come la scrittura del suo autore: pulita, scevra da orpelli stilistici, frasi retoriche, pesanti aggettivazioni) e che riesce a colpire duro. Come usa dire lo stesso Alajmo: “I miei libri sono facili da mangiare, difficili da digerire”.

Ora, vi invito a interagire con l’autore del libro – che parteciperà al dibattito -, magari ponendogli domande.

Intanto mi chiedo, e vi chiedo: vi è mai capitato di riconoscere in voi stessi comportamenti autolesionisti al punto da sentirvi… affogare?
E poi, a vostro avviso, cosa significa esser perdenti nel nuovo millennio?
Il perdente dei nostri tempi equivale al perdente del secolo scorso, dei secoli scorsi?
È cambiato qualcosa, o – dopotutto – l’uomo è sempre uguale a se stesso di fronte ai propri fallimenti?
Prima di chiudere vi segnalo questa bella intervista della “nostra” Simona Lo Iacono pubblicata su LibMagazine.
Massimo Maugeri

AGGIORNAMENTO del 10 agosto 2008
Roberto Alajmo mi ha messo a disposizione le prime pagine del libro. Potrete leggerle di seguito
(Massimo Maugeri)

La mossa del matto affogato – Cap. I

Ora concentrati, non ti distrarre. Bisogna assolutamente che riesca a pensare qualcosa da gettare in faccia alle persone venute fin qui. Loro se l’aspettano, e anche a te conviene approfittarne. Sono i momenti in cui basta una parola, una frase, per rovesciare l’opinione che il mondo si è fatto su una determinata persona. O per rafforzarla, a seconda dei casi. Tu devi puntare decisamente a rovesciarla. Hanno tutti dei preconcetti, su di te: se li sono fatti nel tempo e sarà difficile convincerli a cambiare idea proprio ora. Però è sicuro che non ci saranno altre occasioni: adesso o mai più. L’hai capito, no? Tutta questa gente è venuta perché ha delle aspettative. Detto in sintesi: sperano di vederti morire. Te la senti di deluderli?
Non scherzare, il momento è serio. È uno di quei frangenti da affrontare con un minimo di consapevolezza perché è come un riflettore che si accende sulla tua vita. Bisogna farsi trovare pronti. Niente di peggio che lasciarsi sorprendere con un dito nel naso o con la biancheria sporca: rischi di restare cristallizzato in quella condizione nei secoli dei secoli. Devi aver cura della tua igiene fisica e morale, svuotare i cassetti da tutta la roba compromettente. Buttare tutto. Nella spazzatura, proprio. E proprio tutto: ogni singola cassetta, rivista, oggetto, lettera, diario, qualsiasi cosa.
Bisognerebbe. Eppure non lo si fa mai, si rimanda. Per cui, quando poi succede il disastro, è sempre troppo tardi. L’ideale sarebbe pensarci per tempo, fare pulizia di frequente, cancellare la posta elettronica e i messaggi dal telefonino. Mai lasciarsi prendere dalla pigrizia, perché da un momento all’altro il grande riflettore della cronaca potrebbe illuminare la tua vita e svergognarti per sempre.
In casi del genere, lo sputtanamento assume le forme più impensate. Una perquisizione postuma da parte della polizia, per esempio: basterebbe una soffiata, una falsa segnalazione, un errore di notifica, e la tua esistenza verrebbe rivoltata come un calzino. C’è sempre qualche buco che speravi di nascondere all’interno della scarpa. Non puoi sapere quanta gente frugherà nella tua stanza, ma prova a immaginarli mentre guardano ovunque, pure dietro ai libri, sullo scaffale della saggistica.
Se anche la polizia non venisse a perquisire la casa, rimarrebbe sempre la penosa ricognizione degli eredi. Nel cassetto, in mezzo a lettere e souvenir dei momenti felici, è sempre pronto a spuntare l’oggetto indicibile, quello che mai e poi mai un estraneo avrebbe potuto immaginare. Diranno: pareva una persona così perbene, così gentile, e invece anche lui aveva le sue debolezze. Tutto il resto sarà dimenticato: da quel momento in poi, fino all’eternità, la tua memoria rimarrà associata alla vergogna, fosse anche l’unica vergogna che ti eri concesso nell’arco della vita.
Oltre al fatto in sé, morire comporta una serie di effetti collaterali. Quindi, prudenza. Meglio evitare, per esempio, di sparare cazzate in punto di morte. Conviene tenere da parte qualche bel pensiero per quando servirà; sperando di avere il tempo per rifletterci. Ma anche preparandosi prima, non è detto che poi si riesca a trovare modo di pronunciare le ultime parole famose, e di pronunciarle come si deve. In ogni caso, niente di preordinato. L’eccesso di preparazione rischia di far perdere quel minimo di spontaneità che è fondamentale per un finale di partita senza troppa retorica.
A proposito di finali e di partite: una volta ti hanno raccontato di un tizio che era un maniaco del poker. Dalla mattina alla sera non faceva altro che sbirciare cinque carte una dopo l’altra. Ma sempre, proprio in continuazione, anche quando era solo: aveva inventato il poker con tre morti, una variante in cui a giocare e a vincere era solamente lui. Insomma, quando viene il suo momento questo tizio cade in coma, e ci rimane per un mese. Poi un giorno, improvvisamente, apre gli occhi e guarda i parenti al capezzale come se fosse sorpreso di vederli lì. Li fissa, muove le labbra per dire qualcosa, e i parenti si fanno ancora più sotto per ascoltare quale ultimo messaggio ha da regalare trovandosi sulla soglia dell’aldilà, resuscitando apposta da un coma che pareva irreversibile. E lui, distillando le ultime energie, apre la bocca e dice una sola singola parola:
- Cip.
Ti rendi conto? Cip, e muore. Un’occasione del genere buttata via, l’attesa di tutto quel pubblico di parenti e amici andata delusa. O forse no, perché se adesso tu ti trovi nella situazione in cui ti trovi e perdi tempo a raccontare una storiella del genere vuol dire che quell’unica parola, cip, meritava di essere detta, meritava di essere ricordata e meritava di essere raccontata. Ancora oggi, almeno tu sei qui a riflettere su quel cip, su quello che voleva significare nel contesto dell’esistenza di quel tizio. O a quello che non voleva significare. Perché esiste anche la possibilità che mentre muori stai facendo o pensando qualcosa di assolutamente irrilevante, nell’economia complessiva della Storia dell’Umanità. Viene la morte e ti trova impreparato.
Impreparato: sarebbe bello poter pronunciare questa parola impunemente, come si faceva a scuola. Arriva la morte, tu rispondi:
- Impreparato.
E lei:
- Va bene, ma ti voglio risentire prima che finisca il quadrimestre.
Al massimo, certe volte, ti mettevano una piccola i sul registro, e ogni discussione era aperta su come interpretarla. Faceva media o no, quella i di impreparato? Mistero. Dipendeva dall’umore degli insegnanti, dalla disposizione d’animo che ciascuno di loro aveva nei tuoi confronti.
Se anche in un momento come quello che stai vivendo l’impreparazione fosse motivo di rinvio, potresti almeno guadagnare tempo. Prima della fine del quadrimestre c’è un sacco di tempo, o almeno così ti sembra quando devi scampare all’interrogazione su un argomento di cui non sai niente. Purtroppo invece no: la fine del quadrimestre e gli scrutini arrivano sempre prima di quanto tu possa immaginare.
Ecco, vedi? Se morissi in questo preciso istante, nel Registro Universale dei Pensieri Formulati in Punto di Morte, rimarrebbe scolpita in maniera indelebile questa cazzatina della i sul registro di classe. Che figura, se qualcuno andasse a controllare. Che occasione sprecata. Ma chi se ne frega? Gliene frega qualcosa, a Dio? Adesso, nella situazione in cui ti trovi, non è il momento di aprire una digressione sulla effettiva esistenza di Dio; ma sulla Sua sfera di interessi magari sì. Che ne sai? Lo possono incuriosire gli ultimi pensieri di un singolo morituro? Tutte le cose che stai pensando adesso vanno a finire registrate da qualche parte? No, perché se funziona così allora è il caso di fermarsi un attimo a pensare sul serio. Evitiamo di fare altre figure di merda. Anche perché il tuo interlocutore in questo momento non è solo l’eventuale Dio. Ci sono un sacco di persone che si aspettano da te un’uscita all’altezza di tutto il resto. Si tratta di non deluderle: arrivati a questo punto sarebbe un peccato.
Intanto però i minuti passano, e continui a divagare. Nell’ambito dell’inaccettabile spreco della tua morte, stai per sprecare anche quest’ultimo istante di fama cristallizzata che ti è concesso. Almeno potresti fare come dicono che succeda: che nell’ultimo istante ti ripassa in mente tutta la vita trascorsa. In questa evenienza qualcuno aveva individuato un’ipotesi di vita eterna. Perché nella vita che ti ripassa davanti agli occhi c’è anche quell’ultimo istante che tutti li contiene. Proprio tutti: compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante, eccetera, eccetera. Se non ti sbagli, dev’essere stato Borges. Ecco: nella circostanza potresti sfoderare una citazione di Borges, che fa sempre un certo effetto. Ma le persone che hai davanti non sanno nemmeno chi è, Borges. Nel contesto, sarebbe uno spreco. Ancora uno spreco.
È triste che tutte le persone attorno a te in un momento del genere siano tanto ignoranti. Non sono all’altezza di assistere allo spettacolo che stai per offrire loro. Purtroppo ognuno ha il pubblico che si ritrova, e nemmeno tu te lo sei potuto scegliere. Ce l’hai e te lo devi tenere. Però ammettilo: nel bene e nel male, te lo sei meritato, un pubblico così. Sono le persone che hanno seguito l’ultima parabola della tua esistenza così come l’hai voluta costruire tu, secondo i tuoi criteri. Alcuni ti hanno seguito fedelmente per ore, giorni, settimane, mesi; per anni, addirittura. Chi più chi meno, sono gli stessi che hanno creduto in te. Solo che ora ti si sono rivoltati contro. Tu non sei cambiato, ma loro sì. Molte di queste persone hanno scoperto che le avevi ingannate, e hanno gettato la maschera dell’amicizia, della stima, del rispetto che ti avevano tributato fino a ieri. Questo ti pare veramente assurdo, perché invece fra ieri e oggi tu non sei cambiato. Assolutamente no. Per l’intero arco della tua vita sei rimasto sempre fedele allo stesso personaggio.
In fondo, però, puoi ancora sfruttare la loro ignoranza. Non è necessario che stia lì a spiegare chi era e chi non era Borges, sempre ammesso che la citazione gli appartenga davvero. Non ne avresti nemmeno la possibilità, del resto. Fregatene, come te ne sei sempre fregato. Fai pure finta che sia roba tua, questa storia di tutta la vita che ritorna a scorrere nell’ultimo istante, e così all’infinito. Ti hanno creduto sempre, vuoi che non ti credano proprio adesso? È solo un piccolo sforzo. Chi avrebbe il coraggio di mentire, nelle condizioni in cui ti trovi?
E prima ancora, scusa tanto: chi l’ha detto che tu debba morire sul serio?

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   138 commenti »

giovedì, 27 marzo 2008

1982 di Roberto Alajmo

Ogni anno ha il suo fascino. Ogni anno ha le sue luci e le sue zone d’ombra. Eppure ci sono anni che riescono a infilarsi meglio di altri nelle pieghe dell’esistenza. Per Roberto Alajmo il 1982 rientra nella suddetta categoria.
1982” (pagg. 167, euro 10) è il titolo di un volume edito di recente da Laterza e che fa parte dell’ottima collana “Contromano” dove Alajmo, peraltro, è già presente con “Palermo è una cipolla”.
In queste “Memorie di un giovane vecchio”, questo il sottotitolo, l’autore siciliano passa in rassegna il suo personale 1982 per spaziare, poi, dalla politica al cinema, dallo sport alla televisione, dalla musica alla letteratura, disegnando abilmente una fitta rete di incroci tra le esperienze del singolo e fatti e avvenimenti di interesse collettivo.
Non v’è dubbio che in Italia, quando si parla di 1982, il pensiero corre al Mundial spagnolo vinto dalla mitica nazionale di Bearzot. E agli azzurri campioni del mondo è dedicato un importante capitolo, sebbene l’autore del volume – come racconta egli stesso – fu costretto a seguire alcune delle partite più importanti attraverso una misera radiolina “su una torretta a fare la guardia al nulla”. Sì, perché il 1982 è anche l’anno in cui Alajmo presta il servizio di leva; quello in cui i capelli cominciano a incanutirsi e la ragazza gli volta le spalle.
Anno importante, si diceva. Passano a miglior vita gente del calibro di Philip K. Dick, Gilles Villeneuve, Ingrid Bergman, Grace Kelly. Nascono i calciatori Adriano, Kakà, Gilardino, Cassano, la valletta Eleonora Pedron e il motociclista Marco Meandri. Vanno in onda i canali televisivi Italia 1 e Rete 4. Debutta Radio Deejay. Viene al mondo il primo bambino in provetta, va sul mercato il compact disc, mentre la rivista “Time” assegna il titolo di uomo dell’anno – con tanto di foto – a un personaggio particolare: il computer.
Alajmo dimostra ancora una volta che è possibile scrivere ottimi libri affidandosi a una scrittura leggera, frizzante e ironica (persino autoironica). Una scrittura che sa essere lieve anche quando si misura con il racconto di storie dure e traumatiche: dalla guerra delle Falkland a quella del Libano, dall’omicidio di Pio La Torre a quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, dallo scandalo del Banco ambrosiano al suicidio di Roberto Calvi.
Notizie, quelle citate, che sfiorano l’autore senza riuscire a coinvolgerlo fino in fondo. Effetto dei risvolti alienanti del servizio militare; almeno fin quando un esaurimento nervoso “salvifico” (“Se mi date un’altra volta un fucile in mano, io mi ci sparo”) non riesce a sottrarlo dalle grinfie della caserma.
“Che poi”, scrive in chiusura Alajmo, “a pensarci col senno di poi, non è stato affatto così tremendo. Malgrado tutto il resto, la mia vita è risultata tutto sommato felice, a partire da quell’anno e per tutti gli anni che sono venuti di seguito, discendendo, per quanto mi riguarda, proprio dal 1982. Ecco, in sintesi, come è andata a finire. O era del mondo, che vi interessava sapere?”
Massimo Maugeri
—-
1982 di Roberto Alajmo
Laterza, Contromano, 2007
pagg. 167, euro 10
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Cari amici,
vi invito a intervenire in questo post:
- dialogando con Roberto Alajmo, in merito al suo libro;
- provando a raccontare il “vostro” 1982 nello spazio di un commento
(cos’è stato quell’anno per voi? avete ricordi particolari? aneddoti o esperienze da raccontare?).


Di seguito avrete la possibilità di leggere il primo capitolo del libro che presentiamo.

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E poi un’anticipazione sul nuovo romanzo di Alajmo che uscirà a breve per Mondadori. Il titolo è: “La mossa del matto affogato”. Un romanzo dove, con implacabile leggerezza e ironia, si racconta la disfatta di un avventuriero, mostrando l’estraneità improvvisa che talvolta possono riservare i rapporti affettivi.
Ho letto qualche brano del libro e vi assicuro che è davvero molto particolare, anche per via della scelta tecnica di improntare la narrazione con l’uso della seconda persona.

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(PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE LATERZA, PUBBLICHIAMO IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO “1982 – MEMORIE DI UN GIOVANE VECCHIO”, DI ROBERTO ALAJMO)

PROLOGO

NON È UN CAPELLO

In questi casi, il classico dei classici è svegliarti una mattina, andare in bagno, sciacquarti la faccia e scrutare nello specchio. Dopodiché accorgerti di qualcosa e avvicinarti ancora un po’ alla tua immagine riflessa per accertarti di aver visto bene. Non può essere. Sì che può essere.
Sì, effettivamente.
C’è.
Il capello bianco. C’è. Il capello bianco c’è.
Dev’essere spuntato durante la notte. Non c’è altra spiegazione possibile, perché ieri non c’era e oggi invece sì. Cerchi di consolarti pensando che prima o poi doveva succedere. Minimizzi, ti sforzi di prenderla con ironia. Certe volte funziona. Dipende. Rimane comunque da stabilire come regolarsi ora che è successo. Poi verrà il tempo delle eventuali tinture, ma lì per lì l’istinto porterebbe a prenderlo con due dita e cercare di estirparlo, prima che la sua presenza possa contagiarsi agli altri capelli, rinviando così almeno di qualche giorno la svolta psicologica che si prospetta nella tua vita, una soglia paragonabile al compimento dei venti, trenta, quarant’anni. Quando scopri che ti è spuntato il primo capello bianco sei portato a fare riflessioni di un certo spessore, stilare bilanci, formulare propositi. Se non ti viene in mente nulla di significativo da tramandare almeno a te stesso vuol dire che sei davvero povero di spirito. Strano: dai capelli bianchi ci si aspetta che siano forieri di saggezza, oltre che di depressione.
Oppure, se riesci a resistere al primo istinto distruttivo, dopo avere individuato e preso fra due dita quell’unico capello bianco, ti fermi a indugiare sulla sorte che deciderai di destinargli. E alla fine lo lasci vivere, nel ricordo di quella scaramanzia che intima: sette capelli bianchi ricresciuti per ognuno strappato via. La rappresaglia tricologia funge da deterrente, ma i sette capelli bianchi dopo una settimana probabilmente ti spunteranno lo stesso, crudeli come certi nazisti da film, che malgrado il sacrificio dell’eroe, davano ordine di procedere lo stesso con la fucilazione degli ostaggi.
Così succede, di solito. Comunque si voglia reagire, il giorno della scoperta del primo capello bianco è di quelli cruciali, da segnare nel calendario della tua vita a caratteri maiuscoli. Neri e maiuscoli.
Nel mio caso, però, la dinamica è diversa. Niente risveglio, niente specchio, niente soprassalto alla scoperta del singolo capello bianco, né tentazione di strapparlo via. Tutto è successo in un periodo in cui non mi guardavo mai allo specchio. Diciamo quasi mai. Mi trascuravo un po’, o forse la cura dell’aspetto fisico era diventata meno importante. Da qualche mese la mattina avevo ridotto al minimo le abluzioni e persino le funzioni corporali per cercare di guadagnare tempo e presentarmi puntuale all’adunata del mattino. Perché sì: era il periodo del servizio militare. Non che mi piacesse indugiare a letto dopo la sveglia. Tutt’altro. Anzi, quando mi capitava di svegliarmi anzitempo, correvo in bagno e mi lavavo prima degli altri. Questo perché dieci minuti dopo il suono della tromba, nei bagni si creava un ingorgo umano cui cercavo sempre di sfuggire, provando a scansare la pesantezza dei primi scherzi da caserma della giornata.
Il mio sistema consisteva nell’indossare la divisa prima ancora di lavarmi. E solo poi, quando la maggior parte degli altri era intenta alla vestizione, quando l’ingorgo si scioglieva, andavo in bagno e mi immischiavo ai ritardatari ancora in mutande, io che già indossavo persino il basco d’ordinanza, per non lasciarlo in camerata col rischio che me lo fregassero. Si fregavano tutto, pure i baschi. Per non bagnare i vestiti mi lavavo alla meno peggio, limitando al massimo il contatto con l’acqua gelata, oltre che coi commilitoni. Non mi piacevano i commilitoni. Per niente. Né loro, né la situazione in cui mi trovavo. E per la verità, sospetto, nemmeno io piacevo a loro.
Insomma, in quel periodo allo specchio mi guardavo poco, e malgrado l’ora di punta ai bagni fosse passata, mi restava poca voglia di indugiare nella cura del dettaglio estetico personale. Inoltre, per il motivo che ho detto, quando mi capitava di guardarmi allo specchio, il più delle volte indossavo il berretto. Quindi, il giorno in cui il famoso Primo Capello Bianco ha deciso di spuntarmi sulla testa, io me lo sono perso in pieno. Non ho dovuto mai affrontare il dubbio strappo-non strappo, per il semplice motivo che quando me ne sono accorto, i capelli bianchi erano diventati già troppi per essere affrontati in termini di sterminio collettivo.
Non è neppure escluso che possano essere diventati bianchi tutti assieme, magari in un momento di particolare stress. Dicono che succeda. O almeno succede nei romanzi dell’orrore: vedi un fantasma, e all’improvviso ti si imbiancano i capelli. Per quanto riguarda me, tuttavia, non c’è stato nessun fantasma, nessun istante di stress particolare. Si tratta di un momento difficile da individuare, perché tutto quel periodo era di particolare stress. La chimica che presiede a questo genere di mutazioni è imperscrutabile, e difatti non ricordo un inciampo particolare o uno di quegli spaventi che provocano, secondo la leggenda, l’imbiancamento repentino Può darsi che sia stato così: ma non lo so; per il semplice motivo che, non guardandomi allo specchio per lunghi periodi, non potevo accorgermene.
Né potevo sperare che se ne accorgesse qualcuno dei miei compagni d’arme; guardarsi reciprocamente, notare un dettaglio nell’aspetto personale di un altro era non proibito, ma di sicuro fuori luogo, indizio sicuro di effeminatezza. Ergo: né io guardavo gli altri, né gli altri guardavano me. Vivevamo con un paraocchi che ci ostruiva ogni visione laterale. Potevamo vedere solo gli oggetti che ci si presentavano frontalmente, individuare solo i beni di prima necessità e soddisfare solo bisogni primari: bere, mangiare, respirare. Stop: anche gli altri bisogni primari, come vedremo, potevano essere sospesi. Solo esercitando un letargo dell’intelligenza e dello spirito potevamo garantirci l’unico obiettivo possibile, nel contesto, ossia arrivare alla fine dei trecentosessantacinque giorni che ci toccava trascorrere in caserma. Cioè, sopravvivere. Ogni altra attività si configurava come un lusso e dunque, ancora, come indizio di effeminatezza. Leggere era effeminato, ascoltare musica era effeminato, persino andare in chiesa era considerata una manifestazione di effeminatezza. Guardare i capelli degli altri sarebbe stato il massimo dell’effeminatezza. Per cui non so se qualche mio effeminato commilitone si è accorto del fatto che i miei capelli erano diventati bianchi. Di sicuro nessuno mi ha detto niente, finché sono rimasto in caserma. Nemmeno io l’avrei fatto. Se mi fossi accorto di una mutazione del genere su un mio commilitone, me ne sarei stato zitto. Non volevo certo passare per effeminato.
È stata la mia fidanzata di allora, Maria, che se ne è accorta quando mi ha rivisto dopo quasi un mese, in occasione della prima licenza. Mi ha guardato senza espressione e ha detto:
- Hai i capelli bianchi.
Così ha detto. Senza un punto esclamativo alla fine, senza ironia o tenerezza. Senza allarme o compatimento. Come una pura e semplice constatazione. Io sono caduto dalle nuvole:
- Che dici?
Naturalmente sono corso allo specchio più vicino per verificare l’entità del danno. Lei non mi ha seguito, è rimasta ad aspettarmi in soggiorno. Il suo restare, contrapposto all’ipotesi di seguirmi con amore, avrebbe dovuto rivelarmi molte informazioni che per il momento era meglio ignorare. Un problema per volta. Sono andato in bagno da solo e ho guardato i miei capelli. La proliferazione di quelli bianchi era molto più avanzata di quanto potessi immaginare, tanto che mi sono chiesto distintamente come avessi fatto a non accorgermene prima. Ho mosso la testa passando le dita fra i capelli per verificare che non fosse uno scherzo della luce riflessa, ma no: quelli bianchi erano davvero moltissimi. Non proprio maggioranza, ma di sicuro, almeno, minoranza più che qualificata. Spiccavano sul nero in maniera uniforme, senza zone di concentrazione. Impensabile procedere a un’estirpazione individuale.
Ho immaginato che fosse successo la notte prima, ma ho dovuto ammettere di fronte a me stesso che non era affatto probabile. Poteva essere successo una notte qualsiasi del mese precedente, oppure anche un poco alla volta, nell’arco dello stesso periodo. La sostanza non cambiava. La sostanza era che i miei capelli avevano cominciato a imbiancare in maniera drastica.
La scoperta è bastata a rovinare l’incontro con Maria, incontro che pure avevamo (avevo) desiderato con spasmi di passione inediti, se si considerano i precedenti del nostro rapporto. Lei stessa, che nei primi tempi fra noi era quella più innamorata, stentava a riconoscere quella retorica passionale di cui farcivo le lettere che le spedivo dalla cattività. A Orvieto, dove espiavo il periodo del cosiddetto CAR, vivevo in una solitudine animalesca, circondato da creature primordiali, prive di qualsiasi sensibilità umana. In quei trenta giorni mi ero aggrappato al ricordo di Maria in maniera disperata, fino a capovolgere i ruoli consolidati nel nostro rapporto, dove fino ad allora io ero stato la parte più sfuggente. Per forza: lei era tutto ciò che rimaneva del mio passato di essere umano per cultura e sentimenti. Lei era la mia ancora di salvezza. Lei e I., naturalmente. Ma quello di I. è un altro discorso, che affronteremo al momento opportuno.
Quando sono tornato in soggiorno Maria era ancora dove l’avevo lasciata. Io ho detto solo:
- E’ vero, sono tutti bianchi.
Al che mi sarei aspettato che lei rispondesse: Ma no, ma che dici, non tutti, sono solo un po’ bianchi. Invece lei non l’ha detto. Non ha nemmeno abbozzato qualcosa che somigliasse a una forma di consolazione. Mi ha risposto:
- Eh, te l’ho detto.
Dopodiché la conversazione fra noi ha preso altre strade, strade più convenevoli, tralasciando del tutto la scoperta dei capelli bianchi. Col senno di poi, posso dire di non ricordare nulla, di quel che abbiamo detto. Posso anzi dire di non avere mai saputo nulla, di quella conversazione. Non si ricorda, tecnicamente parlando, qualcosa che all’inizio si ricordava: ma non è questo il caso. Lei parlava e io non ascoltavo. Ero distratto. La mia mente era dirottata su quell’unico binario possibile: i capelli bianchi. Mi erano venuti i capelli bianchi.
Nella maniera certo approssimativa dei ventenni, mi rendevo conto di avere appena varcato una soglia biologica impercettibile e fondamentale, però. Il mio corpo aveva cominciato a invecchiare. Stavo mutando. Era cominciata una metastasi incruenta che però sempre metastasi risultava. E il destino di quella mutazione sapevo quale sarebbe stato. Il destino innominabile, lontanissimo, eppure, a partire da quell’indizio che avevo appena scoperto, un po’ più vicino.
Mentre Maria parlava, io pensavo ai fatti miei. Per la precisione: cercavo di capire che cosa avesse provocato quella proliferazione di capelli bianchi. Doveva per forza esserci un motivo scatenante. Doveva esserci e dovevo scoprirlo. A un certo punto la mia ragazza – il mio ingrizzo, si diceva a Palermo in quegli anni – mi ha richiamato all’ordine dei discorsi che stava facendo. Discorsi più che impegnativi, che riguardavano la fine dell’amore e altri dispiaceri di minor conto. Le circostanze mi spingevano ad abbandonare l’indagine sui motivi della canizie. Ma una parte di me, mentre Maria mi stava lasciando, non smetteva di ruminare. Non vale la pena di pensarci, mi dicevo. Ormai è successo, amen. Ora la mia ragazza mi sta dicendo che ha deciso di lasciarmi, concentriamoci su questo. Fin quando, effettivamente, Maria ha ottenuto la mia attenzione ed è riuscita a farmi il discorsetto che si era preparata, alla fine del quale mi sono ritrovato single, oltre che vittima di una canizie già in stato di avanzamento. È stato allora che ho scelto di stabilire delle priorità, lasciando perdere le riflessioni sui capelli e concentrando piuttosto ogni sforzo per rimediare al nuovo stato di solitudine sentimentale.
A distanza di tempo, tuttavia, mi viene il sospetto di aver sbagliato nella selezione delle priorità. Forse, se non avessi lasciato perdere, se avessi proseguito le indagini nell’immediatezza dei fatti, sarei riuscito a scoprire il motivo per cui avevo cominciato a invecchiare. Addirittura, una volta scoperto il movente, avrei potuto intervenire sulle cause e risolvere il problema alla radice, restando giovane ancora per un po’, se non per sempre, come allora credevo possibile. Non l’ho fatto, e ancora me ne dispiaccio.
Arrivano però momenti della vita in cui bisogna tornare indietro e riflettere. Come quando in autostrada si scopre che bisognava imboccare una certa uscita. Ormai è troppo tardi, siamo andati troppo avanti, non si può tornare a marcia indietro. Tuttavia è possibile uscire dall’autostrada successivamente e tornare indietro percorrendo strade secondarie. Strade, certe volte, addirittura divergenti rispetto alla nostra destinazione. Non solo è possibile tornare indietro, ma addirittura bisogna farlo. Non c’è altra possibilità. Chi l’ha detto che ormai è troppo tardi? Non è passato poi troppo tempo. Non stiamo parlando di un passato talmente remoto da non poter essere ricostruito, almeno per sommi capi.
Per cui, ho deciso. È arrivato il momento di portare a termine l’indagine lasciata in sospeso a suo tempo e capire perché i miei capelli sono diventati bianchi proprio allora. Scoprire dove è cominciata la mutazione, e con la mutazione la china discendente. Dove io ho sbagliato a imboccare l’uscita dall’autostrada. E forse non solo io: è il genere umano, l’intero pianeta terra che a partire da quel momento ha iniziato a perdere la sua innocenza. È ora di tornare indietro, al dove, al quando e al perché.
Cominciamo a inquadrare l’anno.
Era il millenovecentottantadue.

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