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martedì, 24 maggio 2016

LA PAZZA GIOIA (e altro ancora)

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema con un pezzo “multiplo” sulle novità cinematografiche della settimana: La pazza gioia di Paolo Virzì; Money Monster di Jodie Foster; Microbo e Gasolina di Michel Gondry.

* * *

La settimana al Cinema

recensioni di Ornella Sgroi

La pazza gioia di Paolo Virzì. Con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti e Valentina Carnelutti

La vitalità della disperazione e la disperazione della vitalità. In un faccia a faccia che toglie il respiro, spezzato dalla bellezza e dalla forza dirompente della compassione e dell’umanità. Il regista Paolo Virzì dipinge così due ritratti femminili straordinari, di cui traccia i segni sulla carne e sul cuore di due attrici altrettanto straordinarie. Micaela Ramazzotti, mai stata così convincente in una pellicola come in questo ultimo film diretto dal marito Virzì, e Valeria Bruni Tedeschi, incantevole e travolgente nella sua femminilità mortificata dalla follia e appassionante nella sua interpretazione piena di pathos, sfumata di mille colori e tonalità affettive. Eccentrica, adorabile e irrefrenabile. Portatrice sana, nella sua insana verità, di un sentimento capace di rimettere in circolazione la vita nelle vene affrante e dolenti di una ragazza schiacciata dal senso di colpa. Questa delicata e al contempo potente storia di donne Paolo Virzì la racconta con garbo e discrezione, avvicinandosi quasi in punta di piedi ai volti delle sue due protagoniste, per coglierne l’anima attraverso sguardi e lacrime. E lo fa talmente bene che alla fine del film si sente quasi il bisogno di custodire dentro di sé, in silenzio, in segreto, tutte le emozioni provate insieme alle due protagoniste, mentre piano risale dal profondo il desiderio di correre fuori dalla sala per condividerle, quelle suggestioni emotive, con chi può farsi partecipe di tanti stati d’animo. Che passano, sullo schermo come in sala, dal sorriso e persino dalla risata esorcizzante alla commozione più intima e sincera.
Tutto parla di vita, nel film di Paolo Virzì. Persino i paesaggi e i colori. Senza fine, come ci ricordano le note delicate e malinconiche della canzone di Gino Paoli, che ci accompagna verso un finale pieno di speranza. Adagiando il seme di un nuovo inizio dentro un dolcissimo sorriso.

* * *

Money Monster di Jodie Foster. Con George Clooney, Julia Roberts e Jack O’Connell (continua…)

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venerdì, 3 aprile 2015

Film da vedere e da recuperare. Oppure no.

Locandina del film Latin Lover Film da vedere e da recuperare. Oppure no.

A cura di Ornella Sgroi

* * *

Latin Lover

Regia di Cristina Comencini
Con le mogli: Virna Lisi e Marisa Paredes. Le figlie: Angela Finocchiaro, Valeria Bruni Tedeschi, Candela Peña, Pihla Viitala, Nadeah Miranda e Cecilia Zingaro. Il latin lover Francesco Scianna, l’unico marito Jordi Molla, e gli altri uomini Lluís Homar e Neri Marcorè

Un omaggio al cinema italiano e ai suoi grandi attori, affidati al latin lover Francesco Scianna, ma anche un racconto familiare “allargato e intercontinentale” che diverte, commuove e fa sognare. Con un ultimo nostalgico saluto a Virna Lisi, donna incantevole e attrice superlativa, qui pungente, sarcastica e con quel pizzico di cattiveria che, insieme a quella dell’altrettanto brava Marisa Paredes, dà sapore a tutta la commedia. Tra Almodovar, Ozpetek e il Monicelli di “Speriamo che sia femmina”, in una concatenazioni di eventi e colpi di scena scritti con brio per un cast tutto da applaudire.

* * *

Locandina del film La prima volta (di mia figlia) La prima volta (di mia figlia)

Regia di Riccardo Rossi
Con Riccardo Rossi, Anna Foglietta, Stefano Fresi, Fabrizia Sacchi, Benedetta Gargari

C’è tutta la simpatia di Riccardo Rossi nella sua opera di esordio dietro la macchina da presa, al fianco di un altro attore irresistibile, Stefano Fresi. E questa storia, di un padre alle prese con “la prima volta” della figlia appena adolescente, si riempie di tenerezza, in un film semplice, ma affettuoso e ironico al punto giusto, che ti fa sentire un invitato al tavolo, come un vecchio amico, durante una cena di famiglia (con tranello).

* * *


Locandina del film La solita commedia - Inferno La solita commedia – Inferno

Regia di Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli e Martino Ferro
Con Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli, Giordano De Plano, Tea Falco, Marco Foschi, Walter Leonardi, Paolo Pierobon, Gianmarco Tognazzi, Daniela Virgilio

Un netto passo in avanti per il duo Biggio&Mandelli, rispetto ai due “Soliti idioti” che con il cinema avevano davvero poco a che vedere. In questo terzo lungometraggio “dantesco”, dissacrante e comico ma con intelligenza, Biggio e Mandelli raccontano l’inferno quotidiano, alimentato dalla contemporaneità sempre più concentrata sul niente e da un’umanità che ha messo in crisi persino Dio e gettato nel caos il regno di Lucifero. Le risate non mancano e Mandelli, vestito da sommo poeta che declama in versi antichi la modernità per campionare i nuovi peccati umani, è un vero spasso. Lasciate ogni movida, oh voi che entrate. “It’s amazing!”

* * *

Locandina del film Fino a qui tutto bene Fino a qui tutto bene

Regia di Roan Johnson (continua…)

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martedì, 20 gennaio 2015

IL SALE DELLA TERRA

Il sale della terra

di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado

Recensione di Ornella Sgroi

La nomination agli Oscar 2015 come miglior documentario è solo una conferma di ciò che già sapevamo. E cioè che “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado è un film potente, emozionante ed evocativo. Un’esperienza visiva ed umana cui nessuno spettatore, neanche il più disattento, dovrebbe rinunciare. Come del resto conferma la longevità del film in sala, inaspettata e meritatissima, resa possibile soprattutto dal passaparola scatenatosi a partire da quando è uscito in Italia, lo scorso 23 ottobre, resistendo ancora oggi in diversi cinema della penisola. In programmazione effettiva o anche solo in rassegna, spesso su esplicita richiesta del pubblico.
Il merito è senz’altro delle meravigliose fotografie di Sebastião Salgado e del suo sguardo lirico nascosto dietro l’obiettivo. Capace di cogliere la maestosa bellezza della Natura, in tutte le sue manifestazioni, mettendola in rotta di collisione con l’orrore delle guerre e la crudeltà stupida, folle e arrogante dell’uomo. Creando un cortocircuito che Wim Wenders – e qui il merito è tutto del regista tedesco – scatena sul grande schermo, alternando poi agli scatti di rara suggestione del fotografo brasiliano immagini private filmate dal figlio Juliano Ribeiro Salgado e interviste in primo piano al protagonista del documentario, immortalate in bianco e nero da Wenders in omaggio ai chiaroscuri bicromatici caratteristici dell’opera di Salgado, come se Salgado fosse chiuso in una camera oscura dalla quale si rivolge direttamente allo spettatore mentre in trasparenza scorrono le sue fotografie. Estatiche e struggenti. Fotografie con cui «il fotografo descrive e ridisegna il mondo con luci ed ombre», proprio come afferma lo stesso Wenders nel corso del documentario, ammirato e rapito dal lavoro del maestro al punto da mettersi in disparte, presenza discreta e appena percepibile in un viaggio che attraversa il pianeta e la sua storia geopolitica scandendo il tempo con l’ordine cronologico dei reportage di Salgado come fossero ere, senza mai perdere di vista la gente che lo abita. Perché «dopo tutto, la gente è il sale della terra» così come lo è dell’intero lavoro del fotografo brasiliano. Che, anche quando ritrae sofferenza e miseria di uomini, donne e bambini resi scheletri dalla fame vera, lo fa con una poetica che restituisce loro sempre e comunque una grande dignità. Scatenando nello spettatore pulsioni commosse e addolorate. Rabbiose e incredule di fronte alle prove evidenti della ferocia umana. Emozioni che lo stesso Salgado ha vissuto in prima persona tanto da sentire il bisogno, ad un certo momento della sua vita personale e professionale, dopo la dolorosa esperienza in Ruanda, di ritornare in Brasile ad Aimorés nella tenuta di famiglia insieme alla moglie Lelia, presenza costante e fondamentale nella vita del fotografo, curatrice di tutte le sue mostre e pubblicazioni. In Brasile i coniugi Salgado iniziano così una nuova avventura ecologista per contrastare la deforestazione che aveva devastato il paesaggio circostante, oggi rinvigorito da oltre due milioni di nuovi alberi, robusti e rigogliosi. Una sfida che si intreccia con il progetto fotografico “Genesi” dedicato alla Natura e alla sua monumentalità prodigiosa. Quella stessa natura che, come racconta Wenders, ha aiutato il fotografo a non perdere fiducia nell’uomo, da sempre al centro della sua opera fotografica. (continua…)

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lunedì, 14 ottobre 2013

ANNI FELICI, di Daniele Luchetti

ANNI FELICI, di Daniele Luchetti

con Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Niccolò Calvagna

Recensione di Ornella Sgroi

“Indubbiamente erano anni felici. Peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto”. Certo per un bambino di 10 anni come Dario era complicato capirlo. Testimone silente, insieme al fratellino più piccolo Paolo, della storia della sua famiglia un po’ eccentrica e dell’estate del ‘74. Quella stessa estate iniziata poco dopo il referendum abrogativo del divorzio, rimasto invece in vigore con la vittoria del NO, con una certa preoccupazione del piccolo Dario per le sorti del matrimonio dei propri genitori. Guido e Serena. Ostinato artista d’avanguardia ancora in cerca del proprio talento, lui. Moglie e madre affettuosa, lei, in costante competizione con la passione del marito per l’arte e le modelle.
Anche se Anni felici, il nuovo film di Daniele Luchetti, è raccontato a ritroso dal punto di vista del loro primogenito Dario e dalla sua voce fuori campo (in realtà quella dello stesso regista, che altri non è se non la sua proiezione adulta), sono proprio Guido e Serena a conquistarsi la scena. Dominata dalla bravura e dalla bellezza dei due interpreti, Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, che attirano in modo magnetico la macchina da presa – e lo sguardo – del regista, attento e partecipe delle emozioni dei due piccoli protagonisti (sorprendenti anche Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna, rispettivamente nei panni di Dario e di Paolo) ma irrefrenabilmente attratto dalle dinamiche affettive e personali di questa coppia tutt’altro che ordinaria.
Nel ripercorrere quella che in fondo è la storia “mitica” della sua famiglia (come recitava il titolo provvisorio del film di ispirazione autobiografica), Daniele Luchetti segue infatti Guido e Serena da una distanza molto ravvicinata, con continui primissimi piani per cogliere anche le più impercettibili espressioni dei loro visi, sempre vivi, sempre veri. Affidando a lievi ma efficaci dettagli le loro emozioni più forti e contraddittorie, le loro identità più profonde.
Quanto ci dice la balbuzie appena accennata da Kim Rossi Stuart della fragilità del suo artista, che per reazione ad una madre che lo ha cresciuto sminuendone il talento e le capacità insegue un’idea di arte contro ogni convenzione, per scoprirsi poi incapace di accettare la libertà sessuale conquistata dalla moglie. E quanto ci dice quel “pulviscolo erotico” che circonda Micaela Ramazzotti della inattesa capacità della sua madre e moglie di rompere tutti gli schemi possibili per assecondare la sua attrazione verso un nuovo modo di vivere la propria femminilità accanto ad un’altra donna (l’altrettanto brava Martina Gedeck). Momenti di scoperta che Daniele Luchetti affida a vecchi filmini amatoriali girati dall’incarnazione infantile di se stesso, Dario appunto, e che coincidono anche con la scoperta personale dell’amore per il cinema e del potere rivelatore della cinepresa.
È forse per compensare tanta potenza emotiva ed evocativa che il regista si affida ad un tocco discreto, classico, quasi d’altri tempi. Ma è quasi certamente per trovare la giusta distanza con una storia vissuta in prima persona che Luchetti di distanza finisce con il metterne troppa. Raffreddando il racconto almeno nella prima parte del film che procede senza riuscire mai a portare lo spettatore davvero dentro la storia, distratto anche dall’uso della voce fuori campo che rimanda costantemente all’idea di un passato ormai compiuto. Ciò nonostante, quella di Anni felici è una storia che alla fine conquista, lasciando allo spettatore un’appagante sensazione di bellezza. La bellezza di un caos che trova il suo ordine, dando un senso – seppur nuovo – ad ogni cosa, anche la più imprevedibile.

* * *

Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri

Il trailer del film
(continua…)

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mercoledì, 13 febbraio 2013

RE DELLA TERRA SELVAGGIA di Benh Zeitlin

Re della Terra Selvaggia.jpgRE DELLA TERRA SELVAGGIA
di Benh Zeitlin

con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Gina Montana

Recensione di Ornella Sgroi

È proprio una folgorazione, questo piccolo e prezioso film, indipendente e a bassissimo costo. In cui il Re della terra selvaggia è una bambina di sei anni (Quvenzhané Wallis) che ci mostra attraverso il suo sguardo le coordinate dell’esistenza, a mano a mano che ne fa esperienza. In una terra inospitale, umida e paludosa, che la piccola Hushpuppy descrive come la “grande vasca”e che è poi il Sud della Louisiana, devastato da uragani e continue inondazioni. Un luogo che il regista esordiente Benh Zeitlin, trentenne newyorkese a capo di un collettivo di artisti (il Court13) costituito nel 2004 con i compagni di college, conosce bene, essendosi trasferito a New Orleans dopo la tragedia dell’uragano Katrina del 2005 per documentare con la macchina da presa la distruzione che ha lasciato dietro di sé.
La sua esperienza di documentarista e la sua vocazione per il surreale, esplorato già con diversi cortometraggi, sono la cifra stilistica originale e potente di questo primo lungometraggio che gli è valso ben quattro nomination ai prossimi Oscar: miglior film, miglior regia, migliore attrice protagonista (peraltro la più giovane mai candidata nella storia dei Premi), miglior sceneggiatura non originale (tratta da una pièce teatrale). Un vero record per una pellicola di “outsider”.
Ma allo stile, Re della terra selvaggia aggiunge un elemento imprescindibile. Almeno per un film di questo tipo. Vale a dire il cuore, il cui battito si sintonizza da subito – in un’emozionante sequenza iniziale già piena di ispirazione – con quello della giovane protagonista e degli animali che vivono con lei e con suo padre Wink. Tutti parte di un’unica comunità, quella delle “bestie del selvaggio sud” (Beasts of the Southern Wild è il titolo originale), bianchi e neri, adulti e bambini, ubriaconi e maghe, uomini e animali, cui si aggiungono immense creature preistoriche frutto dell’immaginazione e delle paure di Hushpuppy, il cui sguardo infantile ma coraggioso diventa nelle mani del regista il filtro attraverso il quale sfumare l’aspetto doloroso del film con i toni del realismo magico. Usato con sapiente equilibrio e con grande commozione, come nei momenti di solitudine che Hushpuppy affronta disegnandosi i genitori con un pezzo di carbone. Mentre documenta la sua storia per gli scienziati del prossimo millennio, chiamati a studiare il fenomeno della grande vasca e di coloro che vi hanno abitato, tanto radicati alla propria terra da non volersene separare neanche di fronte ad un’evidente invivibilità.
È un profondo e caparbio senso di appartenenza (e di sopravvivenza) che segna il sentimento del film, ambientato in un Sud che potrebbe essere un qualunque Sud del mondo. Povero, degradato, senza futuro, ma pur sempre “casa”, che chi c’è nato e cresciuto non vuole abbandonare neanche quando dovrebbe. Un non-luogo in cui, nel confronto/scontro con l’uomo, convergono tutte le forze della natura per segnare l’inizio e la fine, in un modo che il regista sublima sfocando il confine tra varie interpretazioni possibili. Tanto da non poter stabilire con certezza se la fine del mondo scatenata da una Natura rabbiosa sia causa o effetto della malattia di Wink, da cui dipende senza dubbio il crollo dell’intero universo per la sua intrepida Hushpuppy. Protagonista assoluta di un’avventura epica e potente, in cui l’immagine – esaltata dalle musiche di Dan Romer e dello stesso regista Benh Zeitlin – fanno di questo “piccolo” film (distribuito in Italia in sole 26 copie) un’esperienza grandiosa, poetica e folgorante.

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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri

Il trailer del film
(continua…)

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giovedì, 24 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino

DJANGO UNCHAINED
di Quentin Tarantino

con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson

Recensione di Ornella Sgroi

O si ama o si odia. E con Quentin Tarantino è più che mai vero. Non solo perché nei sui film non esiste mai una via di mezzo tra questi due sentimenti, ma anche perché è questa la frase più usata quando si parla di lui. Eppure il compromesso si può raggiungere anche nel caso del suo cinema, semplicemente apprezzandolo, soprattutto per il modo in cui Tarantino si addentra nella sperimentazione di un vecchio genere per farlo rivivere in assoluta autonomia. Trasformando persino le citazioni in elemento integrante della narrazione, a tal punto da non poterle più scindere dall’insieme che si conquista la sua originalità.
Lo ha fatto con i B-movie e i film d’exploitation, da cui è un dipendente conclamato e da cui ha estrapolato violenza estrema e fiotti di sangue per inventarsi quello stile singolare tutto suo, il pulp. Che possa piacere oppure no. E lo ha fatto con un genere classico come il western, che con “Django Unchained” ritrova una sopita vitalità, risvegliata e reinventata alla maniera di Tarantino, dichiarato estimatore in particolare degli spaghetti-western cui rende omaggio non solo nel titolo ispirato alla pellicola di Sergio Corbucci. Con il rischio di conquistarsi la simpatia di un nuovo pubblico, lungo un percorso già iniziato con il precedente “Bastardi senza gloria”. Film che segna una svolta nel cinema del regista contemporaneo forse più cinefilo, con l’ingresso della Storia (quella con la maiuscola) non solo sullo sfondo del racconto, di cui diventa anch’essa grande e irrinunciabile protagonista.
Tolto lo scalpo ai nazisti per mano di un gruppo di ebrei vendicativi, Quentin Tarantino prende di mira un’epoca ancora più lontana nel tempo, ma poi non così distante dall’oggi e da certi suoi orrori. E spara a zero contro il razzismo più crudele e cruento, che in certe scene ci mostra in tutta la sua disumana efferatezza. Senza sconti. Come, del resto, sconti i negrieri bianchi non ne facevano alle loro vittime. E come – ahimè – sconti non ne fa certo cinema più recente che usa la violenza con una disinvoltura inutile ed inquietante.
Gli elementi che caratterizzano il cinema di Tarantino ci sono tutti in “Django Unchained”, come sempre, questa volta però puntati verso una nuova direzione. Il gioco delle parti e lo scambio dei ruoli, la strategia del terrore e l’esibizione della violenza, persino la vendetta, hanno infatti anche un altro scopo. Quello di garantire il lieto fine ad una grande storia d’amore e di dolore, che fa da cassa di risonanza alla rivendicazione del bene più grande: la libertà, con la dignità che ne deriva. E ciò senza mai rinunciare ad un modo di fare cinema che è puro divertimento. Per il regista e per chi ne ammira il lavoro di precisione, fatto di scrittura e quindi di dialoghi potenti ed ironici, ma anche di messa in scena accattivante ed immagini evocative che omaggiano il western all’italiana con primi piani e sguardi, lanciati però all’improvviso, con colpi di zoom rapidissimi come uno scatto fotografico o un colpo di pistola, che per contrasto rimandano alla leggendaria lentezza di Sergio Leone.
In “Django Unchained” la tradizione ed il classico confluiscono così nella dimensione del nuovo e dell’originale, anche nella suggestiva colonna sonora con le note evocative di Luis Bacalov e il tocco magico di Morricone con la sua “Ancora qui” interpretata da Elisa per il film di Tarantino. Che, oltre al piacere della scrittura e della regia, si gusta fino in fondo il piacere della musica e il piacere di dirigere i suoi magnifici attori, portando oltre ogni possibile aspettativa le interpretazioni di un cast, i cui volti restano scolpiti nella memoria dello spettatore, come i singoli personaggi che rappresentano. La coppia Jamie Foxx e Christoph Waltz, da una parte. I singoli Leonardo DiCaprio e Samuel L. Jackson, dall’altra. Protagonisti e antagonisti, bianchi e neri, vittime e carnefici. Gli uni con gli altri. Gli uni contro gli altri. In uno scontro frontale in cui anche i buoni devono fare i conti con la propria ferocia.
Se tutto questo è “Django Unchained”, allora anche solo per questo è un film che vale la pena vedere. Comunque. Perché Quentin Tarantino o si ama o sia odia. In ogni caso, si apprezza.

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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri

Il trailer del film
(continua…)

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