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venerdì, 3 marzo 2017

IL TEMPO TAGLIATO

letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo “Il tempo tagliato” di Silvia Longo (Longanesi). Di seguito, l’autrice in una conversazione con Claudio Morandini.

* * *

CONVERSAZIONE CON SILVIA LONGO: autrice de “IL TEMPO TAGLIATO” – (Longanesi, 2012)

A cura di Claudio Morandini

Con il romanzo “Il tempo tagliato”, uscito nella collana longanesiana “La gaja scienza” nel 2012, Silvia Longo racconta la storia di una donna, Viola, che di recente ha perduto il marito, celebre direttore d’orchestra dalla personalità insieme forte e fragile, del quale è stata per anni silenziosa vestale; e racconta della sua fuga imprevista, una sera, nel corso di un concerto in onore del coniuge, con un giovane tecnico del suono. Combattuta tra tentazione di abbandono all’avventura e desiderio di autocontrollo, Viola vive quella fuga, solo in parte sentimentale, come un allontanamento da tutto ciò che la tratteneva al ricordo ingombrante del marito, al suo bisogno perenne di ordine e equilibrio.
La musica c’è, a diversi livelli, in questo romanzo di grande finezza: è presente nella vita dei personaggi, che di musica vivono e si circondano, nei loro discorsi, addirittura nel loro modo di percepire il mondo; si intravede anche nella struttura del libro, nel titolo, perfino nella scelta del nome della protagonista. Sono motivi sufficienti per invitare Silvia Longo a una conversazione su un tema che ci sta a cuore, il rapporto tra scrittura e musica, tra parola e suono.

CM – La protagonista del tuo romanzo si chiama Viola. Una scelta che non mi suona casuale: la viola, tra gli archi, è lo strumento che di rado assume un ruolo di primo piano, e il più delle volte rinforza il tessuto armonico, lasciando liberi gli altri strumenti di fare i protagonisti. È uno strumento umile, ma indispensabile, senza il quale le altre parti perderebbero di significato. Anche tu lo hai inteso in questo modo?
SL – Hai centrato in pieno, Claudio. Presto molta attenzione quando si tratta di scegliere i nomi dei miei personaggi, seguendo gli insegnamenti dei Maestri: pensa al Manzoni, per esempio. Ne “I promessi sposi” i nomi dei personaggi rispecchiano il modo di essere e di agire, le qualità morali di ciascuno. Per la protagonista de “Il tempo tagliato” volevo un nome simbolico che ne rappresentasse l’umiltà (la viola è anche un fiore spontaneo che, quasi per pudore, cresce celandosi tra le foglie, alle radici di alberi maestosi), lo spirito di abnegazione per la buona riuscita di una causa, la capacità di adattamento alle necessità altrui. Come fa la viola in una orchestra: quasi mai è strumento solista e si può dire che lavori nell’ombra. Ma a un orecchio attento non sfugge quanto necessario sia il suo apporto.

CM – Sin dal titolo, “Il tempo tagliato”, il tuo romanzo è incentrato sul concetto di tempo, anzi sulle possibili declinazioni del concetto di tempo. Tecnicamente, “tempo tagliato” è la misura in 2/2, segnata con una C appunto tagliata, ma forse questo significato non mi pare determinante nel libro. Vi è invece, in senso più generale, il rapporto complesso con il passato (la vita con il marito direttore d’orchestra), il “taglio”, cioè la frattura determinata dalla morte di lui, il senso di spaesamento nel presente. Poi, sempre più insistente, si fa strada il tempo inteso come elemento centrale del linguaggio musicale: il marito, in quanto direttore, domina il tempo, lo scandisce, lo impone agli altri, ne ha bisogno in quanto gli garantisce controllo sul caos della vita, sulle sue paure più profonde. Il tempo si presenta a questo punto anche come ossessione, concretamente, nell’oggetto della sveglia dal ticchettio molesto. Liberarsi di quella sveglia, per Viola, diventerà un emanciparsi dal ruolo paziente e passivo messole addosso dal marito (e dalla famiglia di lui). (continua…)

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lunedì, 13 luglio 2015

LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI,  di Massimo Mila

Manni, 2015

a cura di Claudio Morandini

Massimo Mila (1910-1988) è stato, oltre che un musicologo importantissimo, uno scrittore valente. Il gusto della scrittura letteraria, mescolata in bell’equilibrio con la terminologia propria della disciplina, si sente nelle opere più celebri, nei vari saggi dedicati a Mozart come nelle pagine dedicate all’amico Bruno Maderna (Maderna musicista europeo, Einaudi 1999). Anche nella Breve storia della musica, consultato ancor oggi e periodicamente ristampato, capolavoro concentrato di sintesi di epoche e scuole, Mila riesce a evitare le trappole della sintesi e del sommario e inserisce momenti di puro gusto letterario, lo stesso sparso generosamente in L’arte di Béla Bartók (prima pubblicato da Einaudi, ristampato nel 2013 nella BUR) o in Compagno Strawinsky (Einaudi 1983, BUR 2012).

Potremmo continuare a citare titoli per un pezzo, perché Mila è lontano da ogni specializzazione, ha coltivato interessi che hanno attraversato ogni epoca della storia musicale, con un occhio di riguardo nei confronti della contemporaneità: con Nono, Berio, Maderna era in fitta corrispondenza e di loro sapeva intravedere inaspettate prolessi nelle opere di musicisti dei secoli passati, come se tutta la musica fosse un fitto dialogare di uomini e di opere.

Il gusto di Mila per la scrittura, al di là dell’oggettività puntigliosa della terminologia musicologica, si avverte forte anche nell’ultimo libro a suo nome, Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi, che Manni ha da poco pubblicato nella collana Studi con la cura di Tito M. Tonietti, che di Mila è stato allievo. Si tratta di dispense scritte per un corso universitario di Storia della musica e rimaste inedite fino ad oggi. Sul compositore di Busseto Mila aveva già pubblicato altro: La giovinezza di Verdi (1974) e L’arte di Verdi (1980, entrambe ora raccolte sotto il titolo Verdi sempre dalla BUR) si soffermavano con pienezza di analisi sulla produzione matura e sulle opere maggiori, ed erano opere compiute, pensate per le stampe, lavorate fin nelle virgole – e, come dire, diplomaticamente levigate nei giudizi più severi proprio per l’ampia destinazione editoriale. Diverso (e proprio per questo interessantissimo) è il caso del libro edito da Manni: dal momento che i destinatari erano gli studenti del corso accademico del 1963-4 e non i frequentatori del teatro d’opera, Mila è stato assai poco cauto ai limiti della ferocia nelle osservazioni critiche. In più, non ha portato a termine il lavoro sui dettagli formali, lasciando qualche ripetizione, qualche tournure faticosa, qua e là anche qualche incongruenza (Tonietti ne propone, con discrezione, delle correzioni), perché lo scopo di questi scritti era pratico e immediato. Eppure, anche in questo testo che per forza di cose non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore, si apprezzano quelle formule stilistiche con cui Mila ha impreziosito i suoi saggi maggiori, quell’apparato di metafore e similitudini con cui ha reso comprensibili alla semplice lettura le opere musicali – con cui ha espresso, in questo caso, l’idea di “bruttezza” di quegli  “anni di galera” (tra il 1843 e il 1849) secondo lo stesso Verdi, fitti di frettolosi melodrammi scritti di malavoglia per onorare alla meno peggio gli impegni e perciò discontinui nella qualità, troppo ossequiosi nei confronti delle comode convenzioni dell’opera lirica, poco attenti a tradurre in musica con audacia di soluzioni i moti dell’animo.
(continua…)

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sabato, 2 maggio 2015

CALISTO

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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CALISTO, di Stefano Adami (Edizioni Effigi, 2015)

a cura di Claudio Morandini

Stefano Adami, nel breve romanzo “Calisto” (Edizioni Effigi, 2015), esplora le connessioni tra realtà e finzione, tra quotidianità e invenzione teatrale, e anche tra musica e parola. Lo fa con garbo, senza esagerare, senza rendere barocca a tutti i costi la vita quotidiana e senza forzare la contaminazione tra l’artificiosità del mondo del melodramma e le minuzie delle giornate dei diversi personaggi (con l’eccezione di un paio di momenti di cui parleremo più avanti).

L’occasione è data appunto da “La Calisto”, l’opera del veneziano Francesco Cavalli (1602-1676) del 1651 su libretto di Giovanni Faustini, ancor oggi riproposta a teatro. Cavalli, prolifico autore di melodrammi ispirati ai grandi miti greco-romani o agli eroi dell’antichità (citiamo un po’ a caso “La Didone” e “Gli amori di Apollo e Dafne”, entrambi su libretto del Busenello, “L’Elena” e “L’Egisto” su libretto dello stesso Faustini, “Il Giasone” su versi di Cicognini), è con Monteverdi il fondatore dell’opera barocca, e tra i primi a sperimentare certi stilemi che saranno sviluppati nei secoli successivi. “La Calisto”, ispirata a un episodio delle  Metamorfosi di Ovidio (II, 401-495), narra di amori di dei, ninfe e uomini. Calisto (Callisto, cioè) è appunto una ninfa seguace di Diana, vincolata al voto di castità, della quale però Giove s’incapriccia: per amoreggiare con lei il re degli dei si fingerà Diana, senza pensare troppo alle conseguenze. Quando Diana stessa e poi Giunone, moglie di Giove, scopriranno che Calisto è incinta, la ninfa sarà oggetto della vendetta di entrambe.

Travestimenti, equivoci, confusione di generi, lesbismo neanche tanto latente, voyeurismo: nella prima parte della versione ovidiana del mito compaiono tutti gli elementi che potevano rendere particolarmente perturbante l’episodio (elementi che solo in un’ambientazione precristiana era possibile preservare dalle censure), come è dimostrato anche dal dipinto di Tiziano “Diana e Callisto”, del 1556-59, conservato a Edimburgo, che è tutto un tripudio di nudità e promiscuità femminili.

Adami omaggia con discrezione la struttura del melodramma alternando movimentate scene d’assieme che potremmo equiparare a recitativi declamati, e pensosi e tormentosi monologhi che ricordano le arie, secondo un procedimento che proprio nelle opere di Cavalli si andava fissando.

Ma perché ispirarsi proprio a “La Calisto”? Che cos’ha di particolare quest’opera rispetto alle altre di Cavalli? Lo chiedo a Stefano Adami.

(continua…)

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martedì, 31 marzo 2015

Una casa editrice musicale: RueBallu

Una casa editrice musicale: RueBallu
Conversazione con Gae Pisani

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “Letteratura e musica
Entra nel sito della casa editrice musicale rueBallu - Musica e Teatro

a cura di Claudio Morandini

RueBallu è una piccola e coraggiosa casa editrice palermitana che dal 2007 pubblica testi di letteratura musicale, inseriti in collane dedicate a biografie, testimonianze, didattica o narrativa anche per ragazzi, e presenta un bel catalogo di titoli per niente ovvi. Abbiamo chiesto agli amici della redazione di rueBallu di illustrarci il loro progetto editoriale. Gae Pisani, a nome della redazione, ha risposto così ad alcune nostre domande.

- RueBallu Edizioni prende il nome dalla via parigina in cui si trovava lo studio di Nadia Boulanger. Si tratta di un riferimento forte a un’esperienza umana, didattica e artistica centrale nel Novecento. Che cosa è rimasto di quell’esperienza? Che cosa ci può ancora insegnare il magistero della Boulanger?

La forza del magistero di Nadia Boulanger è rimasta intatta nelle sue parole e nell’insegnamento trasmesso. In un filmato molto bello – Mademoiselle – di Bruno Monsaingeon, girato in occasione del novantesimo compleanno di Nadia Boulanger, è possibile entrare in relazione con il mondo di questa didatta straordinaria e sentirne in prima persona la profonda attualità per chiunque viva di musica e per la musica.

- L’Italia è una nazione di vasta tradizione musicale, ma, ahimè, di scarsa educazione e di scarsissima attenzione da parte delle istituzioni. Come si muove un editore come rueBallu in questo contesto poco favorevole, almeno all’apparenza, al discorso musicale?

La domanda è particolarmente pertinente, ciò che lei dice è profondamente vero, il progetto rueBallu non si muove in un contesto poco favorevole alla musica non solo apparentemente, ma nella sostanza. Il percorso della casa editrice, totalmente indipendente nelle scelte editoriali e nella ricerca delle risorse finanziarie, è ardito se si riflette con attenzione alla struttura dell’intera filiera editoriale. Un ruolo dominante, come è noto, viene esercitato dai grandi gruppi di distribuzione direttamente collegati alle grandi librerie, trovare degli spazi di visibilità non è un lavoro semplice, né tanto meno ricevere un’attenzione mediatica che ordinariamente viene riservata ai grandi gruppi editoriali. Il nostro lavoro, come quello di altre realtà analoghe, è un cammino controcorrente; anche se non amiamo molto parlare degli aspetti pratici del lavoro che stiamo portando avanti, né delle “evidenti assurdità” in cui siamo totalmente immersi. Preferiamo dar voce con dedizione e rispetto a chi ha manifestato qualcosa di veramente straordinario nella vita e nell’arte, mescolarlo con altro riteniamo non sia utile.

– Secondo lei, che cosa può fare la letteratura per aiutare (diciamo così) la musica colta a superare lo scollamento drammatico con il grande pubblico di questi ultimi decenni e tornare ad allacciare un rapporto di reciproca curiosità? (continua…)

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sabato, 31 gennaio 2015

AL FEMMINILE – Trio des Alpes e Dacia Maraini in concerto

Trio des AlpesAL FEMMINILE – Trio des Alpes e Dacia Maraini in concerto

di Massimo Maugeri

Nell’ambito del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, vi propongo un’iniziativa musical-letteraria molto interessante che coinvolge un trio di ottimi musicisti (il Trio des Alpes) e Dacia Maraini. Si tratta di un progetto dedicato alle donne compositrici del Novecento e contemporanee.

Il Trio des Alpes ha già più volte avuto modo di suonare queste musiche in concerto, anche in Brasile e

negli Stati Uniti, e compositrici contemporanee hanno scritto appositamente per loro. Il 20 marzo suoneranno parte del materiale moderno al Festival Cinque Giornate a Milano, poi ancora numerose volte per tutto il 2015. Hanno anche inciso un CD a Zurigo che sta per uscire per Dynamic con le musiche di Amy Beach e Rebecca Clarke, due autentiche pioniere del primo Novecento.

Ne discutiamo con il pianista Corrado Greco, una delle anime del trio.

-Caro Corrado, come nasce il “Trio des Alpes”?

Nasce dall’incontro, cinque anni fa, tra tre professionisti della musica – la zurighese Mirjam Tschopp (violino e viola), il ticinese Claude Hauri (violoncello) e il sottoscritto al pianoforte. Viviamo e lavoriamo a cavallo delle Alpi e il nome del trio richiama le nostre radici, in termini di dislocazione geografica, ma anche di formazione accademica e cultura.

-In cosa consiste il vostro progetto artistico? E quali sono gli obiettivi?

Io e i miei colleghi abbiamo carriere solistiche consolidate, ma condividiamo una grande passione per la musica da camera. Siamo diversi per carattere e scuola ma ne facciamo il nostro punto di forza, confrontandoci di continuo alla ricerca di soluzioni condivise. La nostra esigenza è quella di scavare a fondo il testo musicale per trarne coesione e intesa; ci piace molto elaborare progetti musicali originali; abbiamo molta curiosità per la musica nuova e per quella ingiustamente dimenticata.

-Come ho già accennato, avete avviato questo progetto dedicato alle donne compositrici del Novecento e contemporanee. Potresti darci altre informazioni?

Siamo stati folgorati dall’incontro con le musiche per trio di Rebecca Clarke e Amy Beach, due compositrici del primo Novecento i cui nomi sono quasi del tutto assenti nelle programmazioni concertistiche. Abbiamo deciso di inciderne le musiche e di eseguirle in concerto assieme a quelle di un’altra donna vissuta negli stessi anni, la sfortunata Lili Boulanger. Allo stesso tempo abbiamo pensato di allargare il progetto alle compositrici di oggi: abbiamo chiesto di scrivere per noi, e abbiamo suonato queste musiche in Italia, Svizzera, Brasile e Stati Uniti. Presto le incideremo in un secondo disco. La musica “al femminile” non ha connotazioni estetiche diverse da quella scritta da uomini, ma le donne possiedono altrettanta ricchezza, sensibilità e talento e non vogliamo siano trascurate.

-Nell’ambito di una vostra iniziativa musicale-letteraria, avete coinvolto Dacia Maraini. Ti andrebbe di parlarcene?

Ho conosciuto Dacia Maraini anni fa, suonando in un originalissimo “Carnevale degli animali” per il quale aveva scritto un testo originale recitato da Arnoldo Foà. Sapendo quanto le sia caro il tema della creatività femminile ho immaginato di coniugare queste musiche al suo straordinario talento di affabulatrice. E le ho scritto. Ha accettato subito e con grande disponibilità.

-Dove suonerete nei prossimi giorni?

Domenica 1 febbraio suoneremo al Teatro di Chiasso, in Svizzera. In questa occasione sarà con noi anche il soprano Lorna Windsor, che ha partecipato al nostro progetto discografico cantando le liriche per voce e strumenti di Amy Beach. Il giorno successivo suoneremo all’Università dell’Insubria di Varese. In entrambe le date incorniceremo l’intervento della signora Maraini su “Musiciste e scrittrici in epoca di patriarcato”. (Per ulteriori dettagli, cliccate qui - n.d.r.)

-Altri progetti per il futuro? (continua…)

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venerdì, 9 gennaio 2015

COME MACCHINE IMPAZZITE

letteratura-e-musica

Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

* * *

Gianpiero Capra e Stephania Giacobone
Come macchine impazzite
Agenzia X, 2014

di Claudio Morandini

kinaÈ un’interessante operazione “Come macchine impazzite”, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone attorno a quello che il sottotitolo definisce “il doppio sparo dei Kina”: “doppio” nel senso che l’avventura musicale del gruppo punk di Aosta viene tracciata con cordiale precisione da Capra, che della band è stato uno dei fondatori e il bassista, mentre in capitoli alternati a questi di Capra la Giacobone racconta, più narrativamente e anche con maggiore enfasi, la scoperta dei Kina diversi anni dopo e la ricerca delle loro tracce attraverso dischi, cassette, ma anche riviste, fanzine, testimonianze di conoscenti comuni.
Per essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, “Come macchine impazzite” rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”
(continua…)

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martedì, 16 dicembre 2014

FRANCESCO CUSA e la tentazione della letteratura

letteratura-e-musica

Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

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FRANCESCO CUSA e la tentazione della letteratura

di Claudio Morandini

Bisogna intendersi sul termine “tentazione” – e cercheremo di farlo. Francesco Cusa è innanzitutto un musicista, un batterista, uno dei fondatori dell’etichetta indipendente “Improvvisatore Involontario” e – ecco la parola giusta – un agitatore culturale. Gli album a suo nome e i progetti in cui è coinvolto o di cui è l’ispiratore sono parecchi e ben rappresentati su disco e in rete (Skrunch, Skinshout, The Assassins, Jaruzelski’s Dream, Try Trio, nemmeno ci provo a elencarli tutti); ancora più numerose le collaborazioni con altri artisti del circuito del jazz più alternativo, quello che fatica a dirsi jazz e con il jazz ha parecchi conti in sospeso. Lì sta la matrice di Cusa, direi: nell’anima più profonda e irriducibile del jazz, nell’improvvisazione intesa come sfida, come superamento di limiti, come antagonismo rispetto alla materia trattata e alle attese dell’ascoltatore. Bene: un po’ ovunque, nella sua musica, comunque sia declinata, in qualunque organico sia eseguita, si sente una forte, non accidentale liaison con la parola letteraria, e questo ci intriga. Così, in attesa Di scoprire che cosa ci riserverà “Love”, il prossimo album del collerico progetto jazzcore The Assassins (con la tromba di Flavio Zanuttini), previsto per il 2015, proviamo ad ascoltare alcuni dischi di Francesco Cusa, concentrandoci sui titoli del gruppo Skrunch, che comprende, oltre a Cusa, Paolo Sorge alla chitarra e Carlo Natoli al basso, più altri ospiti – o complici – occasionali. (continua…)

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sabato, 18 ottobre 2014

LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata

letteratura-e-musicaNel nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini, ci occupiamo del romanzo d’esordio di Valerio PiperataLe rockstar non sono morte“, edizioni e/o, (con una recensione dello stesso Morandini).

Massimo Maugeri

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LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata (edizioni e/o)

di Claudio Morandini

Veloce e buffo come un cartone animato, il romanzo d’esordio di Valerio Piperata, “Le rockstar non sono morte” (e/o, 2014), è un tributo insieme sincero e ironico al culto del Dio del Rock – evocato più volte, e qua e là, nei momenti difficili, pure nominato invano. Il giovanissimo autore, e l’io narrante che credo debba qualcosa alle esperienze di batterista dell’autore, un po’ credono un po’ no a questo Dio, di cui si sentono i Giobbi, sempre presi di mira, messi alla prova, perseguitati senza una ragione.
“Il Dio del rock me lo sentivo sotto la pelle, dentro al cuore” dice il liceale romano Davide Fagiolo, il protagonista, con slancio da integralista. “Mi dava coraggio, mi ci faceva credere. Perché siamo pochi, noi eletti dal Dio, ma siamo stati scelti da Lui per la forza e la costanza che abbiamo dimostrato di avere, nel nome del rock. Siamo disposti a superare ogni ostacolo, difficoltà, date a cachet zero, pur di arrivare dove vuole portarci Lui: la destinazione di questo viaggio la ignoriamo, sappiamo solo che, indipendentemente da quello che succede, dobbiamo continuare a camminare.”
Davide Fagiolo è batterista; o meglio, vorrebbe esserlo, aspira a esserlo, e non è detto che lo sia davvero: ma insomma, suona una batteria da quattro soldi in una band raccogliticcia che sembra un concentrato di tutte le aspirazioni, le illusioni, le bellezze e le goffaggini del rock (oltre che un significativo campionario antropologico di certa gioventù italiana di oggi, irrimediabilmente marginale). Il suo riferimento ideale sta in Ringo Starr, non certo in uno dei virtuosi della batteria che hanno imperversato in tanti gruppi degli ultimi decenni del Novecento: e questo suo ruolo, questa predisposizione verrebbe da dire caratteriale, se non genetica, gli consente di avere un punto di vista laterale, defilato, periferico, e appunto ironico, sulle vicende narrate. Fagiolo è il motore di tutto, il cuore del gruppo, la base su cui tutto il resto si tiene: eppure il suo ruolo, come quello di tanti altri batteristi, da Ringo Starr in su, non è riconosciuto. I batteristi stanno in fondo, di solito non si agitano eppure faticano più degli altri, vengono intervistati meno degli altri, sul palco dei concerti sono nascosti dall’agitarsi delle prime donne, nei video rischiano di rimanere comparse, se non macchiette. Ecco, Fagiolo è un po’ così, ma non sembra che gliene importi molto. Sa che in realtà senza la base ritmica (costante, anche se approssimativa) garantita dal batterista la musica suonata dagli altri non ha più senso. Il vero leader non è il frontman che si sgola e si scalmana davanti a tutti, ma lui, il negletto batterista in penombra – così, almeno, in un misto di modestia e megalomania, pensa il nostro protagonista.
Chiunque abbia vissuto, da ragazzo, l’esperienza di mettere insieme un gruppetto per suonare rock conosce quel misto di esaltazione, ostinazione, ansia e frustrazione che colora le giornate e agita le notti: i problemi tecnici, i locali improvvisati, l’acustica tremenda, il pubblico scarso e ostile o, peggio, indifferente, le cene offerte dai gestori a base di pastasciutta, le località sconosciute in cui nessuno ha fatto pubblicità al concerto – e la bellezza di certi momenti in cui miracolosamente tutto sembra andare per il verso giusto, il pubblico arriva e gradisce, e di colpo la fatica e i dissapori scompaiono, e si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a un’inaspettata epifania. Ecco, c’è tutto questo nel romanzo di Piperata, ed è fresco e immediato come se fosse in presa diretta, improvvisato sul palco, senza tanti aggiustamenti in postproduzione.
(continua…)

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lunedì, 6 ottobre 2014

TRA MUSICA E POESIA: conversazione con Alessandra Trevisan

letteratura-e-musicaNuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.  Oggi ci occupiamo del rapporto tra “musica e poesia” attraverso questa conversazione con Alessandra Trevisan (foto in basso).

Massimo Maugeri

* * *

Tra musica e poesia: conversazione con Alessandra Trevisan

di Claudio Morandini

Torniamo ancora una volta sul tema che sta a cuore a tutti coloro che frequentano questo forum, quello cioè del rapporto tra letteratura e musica, e facciamolo attraverso il contributo di Alessandra Trevisan, attivissima in entrambi i campi come autrice e come animatrice culturale.
Alessandra Trevisan (Mestre, 1987) ha conseguito la laurea magistrale in Filologia e letteratura italiana con una tesi dal titolo “Goliarda Sapienza (1998-2013): una voce intertestuale” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Suoi saggi e contributi su Goliarda Sapienza sono apparsi in antologie, riviste e presentazioni. Si è formata partecipando alle attività del collettivo mestrino “Spritz Letterario” e al Festivaletteratura di Mantova. Dal 2011 è parte della redazione del litblog “Poetarum Silva” (poetarumsilva.com) e cura con Anna Toscano per Radio Ca’ Foscari il programma “Virgole di poesia” (www.radiocafoscari.it/virgole-di-poesia). È ufficio stampa nell’ambito degli eventi culturali e jazz (Associazione Culturale Caligola, nusica.org, Festival dei Matti di Venezia) e press agent di alcune formazioni jazzistiche (XYquartet, Piero Bittolo Bon Jümp the Shark, Domenico Caliri Camera Lirica). Partecipa al progetto UnkNwn (inditronica, trip-hop, electronic live band).

alessandra-trevisan

Ecco di seguito la trascrizione della conversazione, assai ricca e piacevole, con Alessandra Trevisan.

CM – Alessandra, in quali modi hai sperimentato il connubio tra musica e parola? Da animatrice culturale, sul litblog “Poetarum Silva”, e nella conduzione del programma “Virgole di poesia” con Anna Toscano su Radio Ca’ Foscari, hai senz’altro avuto modo non solo di riflettere sulla questione, ma anche di affrontarla concretamente.

AT – Grazie Claudio. Credo la questione si sia posta prima ancora delle due esperienze che tu citi e che hanno amplificato le possibilità di esplorazione di questa ‘relazione’ per me cruciale. Mi riferisco al fatto d’esserci passata dapprima attraverso il corpo, con il canto (ma di questo parleremo poi).
Ma il rapporto parola e musica si è rivelato ‘due volte evidente’ soprattutto attraverso la poesia dal 2010, l’anno d’inizio di entrambi i progetti. La poesia ha presentificato la mia voracità nei confronti della parola e della musica: a “Virgole di poesia” soprattutto grazie alla presenza della ‘voce’ mia, di Anna e dei poeti ospiti delle tre stagioni che abbiamo condotto; ogni puntata ha avuto come colonna sonora della musica strumentale (jazz, minimal, ambient). La voce in radio è ancella e protagonista. Su “Poetarum Silva” invece, ho spesso cercato di affrontare il connubio su due piani: con la lettura critica di certa poesia contemporanea, tenendo in considerazione il rapporto parola-musica e voce; dall’altro, intervistando alcuni artisti con l’intento di manifestare un’attenzione sempre molto alta e altra nei confronti della voce. In entrambi i casi dico ‘voce’ in senso lato ma non dimentico di porre l’accento sull’unicità che caratterizza i tipi di espressione di cui mi sono occupata.

CM – Nella musica strumentale dell’XYquartet e del Piero Bittolo Bon JÜMP THE SHARK, che tu segui come press agent, mi è sembrato di cogliere, soprattutto grazie ai titoli, una sorta di narrazione, che attraversa e si sovrappone alla struttura della composizione. Questo mi suggerisce un paio di domande che mi frullano in testa da parecchio tempo. La prima è: la musica può raccontare qualcosa, secondo te, oltre se stessa?
(continua…)

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venerdì, 25 giugno 2010

DIBATTITO SU LETTERATURA E MUSICA

imageQuesto post si è trasformato, nel tempo, in uno spazio permanente dedicato al dibattito sul rapporto tra letteratura e musica.
Si discuterà periodicamente su alcuni libri che rientrano nella tematica, coinvolgendo – laddove possibile – i rispettivi autori.
Ringrazio lo scrittore Claudio Morandini (consiglio la lettura di questa intervista sul blog “La poesia e lo spirito”), che mi darà una mano ad animare e moderare la discussione.
Massimo Maugeri
(11 ottobre 2010)

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POST ORIGINARIO DEL 25 GIUGNO 2010

letteratura-e-musicaVorrei avviare un nuovo e (spero) interessante dibattito su un tema particolare: il rapporto tra letteratura e musica…

Un rapporto che – a mio avviso – ha origini antichissime: basti pensare alla “musicalità” dei versi poetici o di certi testi narrativi (perché anche un romanzo deve “suonare” nella testa del lettore). Ma non mi riferisco solo a questo.
Mi piacerebbe poter prendere in considerazione, per poi analizzarli, i romanzi che si sono occupati di musica (e viceversa)… che hanno fatto vivere la musica all’interno delle loro pagine.

Di conseguenza, mi pongo (e vi pongo) alcune domande…

Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
In cosa si differenziano nettamente?

In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

Per partecipare alla discussione inviterò alcuni autori che hanno scritto, di recente, romanzi che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la musica.

Primi ospiti di questo forum (che spero possa diventare “permanente”) sono: Marta Morazzoni, Claudio Morandini e Achille Maccapani. Discuteremo dei loro nuovi libri e degli argomenti proposti.
Di seguito, le schede sui suddetti libri… e il contributo di Nicolò Carnimeo sul romanzo della Morazzoni.
Claudio Morandini mi darà una mano ad animare il post.

Mi raccomando… aspetto i vostri contributi.

Massimo Maugeri
(continua…)

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giovedì, 10 aprile 2008

LETTERATURA E MUSICA

I testi delle canzoni sono letteratura?

Quand’è che un testo musicale può considerarsi testo letterario a tutti gli effetti?

E ancora… il testo di una canzone può rientrare nell’ambito della cosiddetta grande letteratura?

Queste le domande che pongo nel post di oggi, incentrato sul tema “letteratura e musica”. Un post che pubblico anche a seguito della notizia dell’attribuzione del premio Pulitzer a Bob Dylan.

Come ha scritto Enzo Gentile su “Il Mattino” del 9 aprile: “A questo punto, quando canterà per l’ennesima volta che i «tempi stanno cambiando» ci sarà da dargli ancora ragione. Mentre il Nobel per la letteratura è ancora dietro l’angolo, a Bob Dylan arriva ora uno dei riconoscimenti internazionali più prestigiosi, quel Pulitzer che da 65 anni segnala le eccellenze nel campo del giornalismo e delle arti e che nella sua storia non aveva mai premiato un rocker, esponente di una musica ritenuta in passato barbarica e sovversiva. L’artista di Duluth è stato insignito dell’onorificenza alla carriera con una motivazione secca, che non lascia spazio agli equivoci: «Per il profondo impatto sulla cultura e la musica d’America grazie a composizioni liriche dallo straordinario potere poetico». (…)

I giurati del Pulitzer hanno inteso indicare con Dylan un cardine, una sorta di periscopio della cultura contemporanea, una voce e un testimone senza confini.”

-A proposito di Bob Dylan, vi segnalo che nel 1972
la Newton Compton ha pubblicato per la prima volta in Italia una raccolta di suoi testi, Blues, ballate e canzoni.

Una raccolta – riproposta in edizione economica (a 5 euro) – dove compaiono le tematiche di impegno politico e sociale, di accusa e di disperazione che hanno reso Dylan un’icona del Movimento di contestazione, nonostante egli non vi si identificasse appieno.

Il volume è introdotto dall’esperta di letteratura americana Fernanda Pivano.

Di seguito avrete modo di leggere i contributi di Francesco Di Domenico ed Enrico Gregori, che hanno affrontato – rispettivamente – i temi: “letteratura e musica italiana” e “letteratura e musica straniera”.

Massimo Maugeri

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LETTERATURA E MUSICA ITALIANA

di Francesco Di Domenico

dido.JPG

“E’ giunta mezzanotte/ si spengono i rumori si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffé
le strade son deserte/ deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne và.”

Probabilmente con questa strofa di “Vecchio Frack”, di Domenico Modugno comincia la storia dei cantautori in Italia e la musica comincia ad avere una sua categoria “colta”.Già in Francia molti poeti avevano cantato, e tre su tutti, Brassens, Brel e Leo Ferrè, veri artisti multimediali, avevano fatto diventare questa materia musicale una vera e propria categoria letteraria. Di lì a poco, in Italia, tutta una generazione di musicisti insofferenti, che avevano una proposta non solo melodica ma comprensiva anche di testi poetici e letterari, avrebbero rivoluzionato un certo modo di proporre la musica. Erano quasi tutti di provenienza da studi classici.       

Comincia Modugno che narra in tre minuti, gorgheggiando a modo suo, il racconto di un suicidio, circoscrivendolo in un ambiente da “telefoni bianchi”. E’ un racconto vero o quantomeno il suo explicit. La musica da quel momento può narrare e poetare in senso non volgare, come  era successo fino ad allora, dove i testi erano stati un semplice complemento per usare la voce come strumento, per veicolare il motivo, la melodia. I componimenti dei cantautori cominciano ad essere vere e proprie poesie a versi sciolti o a rima baciata, sovente usando anche la tecnica del Limerick anglosassone, la forma scherzosa e non-sense della poesia,  come ne  “Il Testamento” di De Andrè : “…per quella candida vecchia contessa che non si muove più dal mio letto/ per estirparmi l’insana promessa di riservarle i miei numeri al lotto/ non vedo l’ora di andar fra i dannati per rivelarglieli tutti sbagliati”. Gino Paoli, che canta “Il cielo in una stanza”, sembra rovesciare la tristezza delle stanze leopardiane, con un inno d’amore liberatorio. Veri racconti brevi irrompono nelle sale discografiche “minori”, cantati da scrittori e poeti che vogliono uscire dalla pagina scritta e narrarli accompagnati da chitarre, quando non da intere orchestre. Uno scrittore e poeta straordinario, che addiziona alle sue liriche una musica gradevole e colta appare, giusto come una nuvola barocca, sulla seconda metà del secolo breve: Faber De Andrè: “Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa.” Diceva così Fabrizio De Andrè, dovendo giustificare le insistenze dei giornalisti. Ma l’esuberanza creativa l’avrebbe avuta e come visto l’immensa produzione poetica e l’inserimento in moltissime antologie scolastiche dei suoi brani. Scrivono di tutto i cantanti-autori, persino saggi politici e invettive come Claudio Lolli ne “La piccola borghesia”:   Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Godi quando gli anormali son trattati da criminali/ chiuderesti in un manicomio tutti gli zingari e intellettuali. Ami ordine e disciplina, adori la tua Polizia tranne quando deve indagare su di un bilancio fallimentare. Sai rubare con discrezione meschinità e moderazione alterando bilanci e conti/ fatture e bolle di commissione. Sai mentire con cortesia con cinismo e vigliaccheria hai fatto dell’ipocrisia la tua formula di poesia.   

Francesco Guccini, poeta, scrittore e polemista fine, mette in musica dopo tante storie e racconti un polemico elzeviro contro i giornalisti che lo avevano accusato di imborghesimento: “L’avvelenata”,Una risposta feroce in rima: “Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!”

Quindi finanche giornalismo, mettendo alla berlina un personaggio “cult” del tempo, il giornalista Riccardo Bertoncelli.   “Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, tra la vita e la morte avrei scelto l’America”, ne aveva già recitato tante di poesie, molto ermetiche, quasi montaliane, alcune di una delicatezza estrema (“E guarda l’amore che non ha commenti da fare, l’amore comunque che non ha paura del mare da attraversare.”)

Francesco De Gregori, ma con questa frase inserita nella “Donna cannone” riuscì persino a ragionare di filosofia citando la “non scelta” di Schopenhauer.

Ora, una medievalizzazione del gusto musicale, che cammina di pari passo con un “barbarismo” culturale che sta modificando i rapporti di forza tra comunicazione e letteratura sembra abbia bloccato queste deliziose commistioni; viaggia comunque, spedito e silenzioso come un fiume carsico un grande “raccontatore” che da oltre quarantanni ha narrato storie surreali accompagnato da un piano tanghèro e da un orchestrina jazz: Paolo Conte.

Le sue parole sono entrate nel frasario cult e colto delle generazioni susseguitesi: “Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti” e sull’amore : “Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia, di uno innamorato di te”.

I suoi racconti ci hanno narrato pezzi d’Italia, storie d’amore; ci hanno fatto vedere film’s d’amore. Se Conte avesse voluto allargare in romanzi scritti le sue ineffabili storie avremmo avuto sicuramente un po’ di letteratura in più.

p.s. ho omesso molti autori validi, ma ho dimenticato, volutamente, un autore che considero sopravvalutato: Luigi Tenco. Non fu un vero poeta, ma un presuntuoso e bravo musicista, che trascinò la sua arroganza culturale fino ad un gesto estremo di narcisismo, il suo personale autoannientamento con il suicidio. Era stato fortunato perché una sua bella melodia aveva fatto da sigla al formidabile sceneggiato su Maigret (“un giorno come un altro”), ma le sue erano belle canzonette, come dice umilmente Bennato, la poesia è altro.

Francesco Di Domenico

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 LETTERATURA E MUSICA STRANIERA

di Enrico Gregori

greg.JPG

Oltremanica e oltreoceano i testi delle canzoni (almeno dagli anni 60 in poi) si sono ispirati alla rivendicazione sociale e/o alla trasposizione della realtà in una sorta di “poetica”.
Non credo sia utile, in questa sede, citare i “soliti” Dylan, Coen, Baez o Simon, in quanto autori celeberrimi.Tentiamo di (ri)scoprire chi, per esempio, si affidò a un paroliere quasi suo clone per mettere nero su bianco il suo dolore, il suo disagio, la sua infelicità interrotta solo episodicamente da scorci di gioia.Tim Buckley, per esempio, musicista e cantante pressochè insuperabile, che si affidò sempre al paroliere Larry Beckett. Come nella “Song to the siren” (Canzone alla sirena).

“…Sono confuso come un bimbo appena nato
Sono turbato dalla marea:
Devo fermarmi tra i distruttori?
Devo giacere con la morte mia sposa?
Ascoltami cantare “nuota da me, nuota da me, lasciati dire:
Sono qui, sono qui, aspettando di poterti abbracciare”.
Paradossale la vita di Tim Bucley, morto per eroina dopo che si era disintossicato. Una “una tatum” talmente pura che lo stroncò.
Suo figlio, Jeff, musicista anche lui, morirà annegato. Un’altra coppia padre-figlio accomunata nella morte, esattamente come Bruce e Brandon Lee. 
Ma se intorno a noi c’è solo odio, guerra, distruzione e infelicità. Si può fuggire e ritrovare se stessi.
Una trasposizione quasi metafisica di Peter Hammil e dei suoi “Van der Graaf Generator” nella epocale “Refugees” (Fuggitivi) dove l’Ovest altro non è (forse) che un sogno da raggiungere e coltivare per avere ancora la speranza.

“…..L’Ovest sono Mike e Susie
L’Ovest è dove io amo
 
Là noi passeremo gli ultimi giorni delle nostre vite
Racconteremo le solite vecchie storie
Bene, almeno abbiamo tentato
Andremo verso l’Ovest, con il sorriso sui nostri volti……”

L’infelicità di chi in teoria ha tutto, tranne se stesso.
Nick Drake, autore di tre capolavori ufficiali.
Figlio di un ricco diplomatico inglese, Nick non ha mai voluto rassegnarsi alla vita da figlio di papà.
Un artista enorme e (all’epoca) trascurato.
La sua celebrità, come spesso accade, comincia in un giorno del lontano 1974.
Quando la madre trova Nick, 26 anni, stroncato da un’overdose di tranquillanti.
Oggi Nick Drake significa ristampe, cover, colonne sonore, cult.
L’esatto contrario di ciò che lui (per sfregio) sentiva di essere nei confronti della vita. “Parasite” (Parassita).

 …”E guarda, puoi
vedermi per terra
Perché sono il parassita di questa città
Danzando una giga
in una chiesa con campane
Un segno dei tempi odierni
E non sentendo nessuna campana
da un’altra guglia
La gente tutta in costernazione
Cadendo così in basso su
un cucchiaio d’argento
Prendendo in giro la luna
E cambiando la fune per
una misura troppo piccola
Tutta la gente viene appesa
Guarda e mi vedrai passare
Perché sono il parassita che viaggia in coppia
Quando togli la maschera
a un pagliaccio del luogo
E ti senti già come lui…”

Ascoltare i testi di pezzi americani o inglesi è stata sempre un’arma a doppio taglio.
Magari ci si è innamorati di una musica senza accorgersi che il testo fosse di una banalità sconcertante.
O, più spesso, la stessa bellezza della musica ci ha fatto trascurare le parole.
Qui ho fatto tre esempi, a pioggia, i primi che mi sono venuti in mente tenendo come filo logico il disagio. Ma tanto, volendo, ci sarebbe da scoprire nei testi dei Procol Harum o dei King Crimson, tanto per fare due esempi di gruppi che nelle note di copertina avevano il giusto orgoglio di inserire tra i componenti del gruppo a tutti gli effetti Keith Reid (Procolo Harum) e Pete Sinfield (King Crimson)
Il loro “strumento?”. “Words”… parole.
Per chi vuole “leggere” oltre che ascoltare.

 Enrico Gregori

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