Giovani, precari e altruisti per necessità. Il dramma della disoccupazione e dello sfruttamento raccontato dal cinema e dal web
Recensione di Ornella Sgroi
“La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.
Le parole di Corrado Alvaro, incise nel suo “Ultimo diario (1948-1956)”, sono lame sottili che squarciano la realtà di oggi ancora più di ieri. Oggi, che il fenomeno della disoccupazione in Italia è cresciuto a dismisura e sembra essere inarrestabile. Con più di tre milioni di cittadini senza lavoro, una disoccupazione giovanile che tocca il 41,6% e la metà degli assunti con contratto “a progetto” nel 2012 compresi tra i 30 e i 49 anni.
Mentre la politica si volta dall’altra parte millantando una ripresa economica che non c’è e offrendo esempi di scaltrezza e disonestà squallida e impunita, non stupisce la frequenza con cui capita di sentire dire sempre più spesso che, stando così le cose, converrebbe mettere da parte l’onestà e cominciare a fare i furbi. Perché, tanto, vivere onestamente non paga.
Prendendo spunto da questa constatazione, di fronte ad una classe politica che continua a tergiversare su una questione primaria come quella della mancanza del lavoro, si sono messi in moto il cinema e il web. Attenti invece all’umore del Paese e pronti a registrate una situazione allarmante, per poi riproporla a spettatori e naviganti con intuito, concretezza e una dose massiccia di ironia.
È appena arrivato nelle sale italiane un film che, registrata la situazione catastrofica in cui versa l’Università italiana, o meglio, in cui versano i ricercatori universitari estromessi “per merito” dai giochi di potere politici, dai baronati accademici e dai nepotismi genealogici e clientelari, viviseziona con intelligenza spiazzante la più che reale condizione lavorativa del nostro Paese e la mette in relazione con questa dilagante attrazione magnetica verso l’illegalità, ritagliandosi una dinamica davvero brillante.
Scritto e diretto dall’esordiente salernitano Sydney Sibilia, classe 1981, “Smetto quando voglio” racconta infatti la rocambolesca ascesa criminale di un’improbabile banda di aspiranti delinquenti che vantano curriculum accademici prestigiosi, pagati con il sangue. Sette ricercatori universitari – ragazzi seri, onesti e in gamba – che per dire basta alla loro condizione di precari a vita, squattrinati e repressi, uniscono le rispettive competenze scientifiche per produrre una nuova droga sintetizzata “a norma di legge”. Il loro motto: “meglio ricercati che ricercatori”. Mente dell’intera operazione è Pietro Zinni (Edoardo Leo), neurobiologo trentasettenne vittima dei tagli alla ricerca. Al suo seguito, due latinisti che lavorano in nero di notte come benzinai per un cingalese (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia); un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese (Alberto Petrelli); un economista che sbarca il lunario con il gioco d’azzardo (Libero De Rienzo); un antropologo culturale che a causa di un errore di gioventù – la laurea – rischia di perdere l’apprendistato da sfasciacarrozze (Pietro Sermonti); un archeologo costretto a farsi offrire il pranzo dagli operai degli scavi che sovraintende (Paolo Calabrese).
Condizioni lavorative surreali? (continua…)
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