mercoledì, 24 settembre 2014
RITORNO A SALEM, di Hélène Grimaud
Nell’ambito del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini, pubblichiamo la recensione del romanzo RITORNO A SALEM, di Hélène Grimaud (Bollati Boringhieri, 2014 – traduzione di Monica Capuani), firmata dallo stesso Morandini.
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RITORNO A SALEM, di Hélène Grimaud
Sarà forse singolare, ma è del tutto comprensibile che un interprete – cioè un musicista che mette la sua sensibilità artistica al servizio della musica scritta da qualcun altro – finisca per abitare le pagine di un libro come – finalmente! – un protagonista assoluto, e lasci esprimere la propria voce interiore dopo aver parlato per Brahms o Chopin o che so io. Ai musicisti viene naturale mettere per iscritto ciò che la musica non consente di comunicare: ricordi, incontri, emozioni, teorie, sassolini nella scarpa… Talvolta si concedono una capatina nei territori della narrativa (dell’autofiction, più spesso; della narrativa d’invenzione, talvolta), ma sempre con la timidezza di chi si sta dedicando a un mestiere che non è proprio il suo. La pianista Hélène Grimaud non sembra avere di questi tentennamenti: la sua è una prosa ricca, solenne, non esente da qualche eccesso retorico (ma solo chi osa rischia lo scivolone), dominata da un io (o un “je”, un “moi”) onnipresente fino all’ipertrofia. E dopo tre titoli (“Variations sauvages”, “Leçons particulières”, “Retour à Salem”), tutti pubblicati in Italia da Bollati Boringhieri (l’ultimo, tempestivamente tradotto da Monica Capuani con il titolo “Ritorno a Salem”, è appena uscito), possiamo accostarci ai suoi libri come a opere a pieno diritto letterarie e non più e non tanto come a esempi di memorialistica eccentrica.
Hélène Grimaud racconta di sé: si mette in scena, con i suoi dubbi, le sue stanchezze, le sue esaltazioni, i suoi convincimenti. Se nel primo libro, “Variazioni selvagge” (Laffont 2003, Bollati Boringhieri 2006, trad. di Patrizia Farese), aveva raccontato la sua formazione (nella prima parte, la più efficace, omaggio al bildungsroman contaminato con elementi saggistici) e rafforzato la sua personale mitologia (un’infanzia in cui il cliché dell’enfant prodige si mescola con quello dell’enfant sauvage più che terrible, la definizione di un repertorio, di uno stile, il personaggio di artista-che-ama-e-alleva-i-lupi, quell’idea ricorrente di predestinazione), nel secondo, del 2005, “Lezioni private” (sempre Laffont e sempre Bollati Boringhieri, 2007), la protagonista assoluta, colta da subito in una fase critica, trova nel viaggio la soluzione terapeutica (e narrativa) per uscire dalla crisi e ritrovarsi.
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