venerdì, 27 novembre 2015
ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini
ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini
Autobiografia di un mestiere
Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato su un libro che è interamente dedicato alla scrittura e che porta la firma di uno degli scrittori più noti e letti al mondo. Il libro si intitola “On writing“, l’autore è Stephen King (a proposito di King, ne approfitto, peraltro, per ricordare questo dibattito online relativo al romanzo “22/11/63“).
Nei giorni scorsi Frassinelli ha pubblicato una nuova edizione di “On writing“, con la traduzione di Giovanni Arduino e l’ottima prefazione di Loredana Lipperini (qui, il post su Lipperatura). Ne ho discusso con la stessa Loredana (che ringrazio per la cortesia e disponibilità), nell’ambito di un’ampia intervista che propongo qui di seguito…
- Cara Loredana, parlaci del tuo incontro con Stephen King? In quale fase della tua vita è avvenuto? E con quale libro?
Non sarò breve, premetto. Ricordo bene anno e contesto: era il 1988, passavo qualche giorno nella casa di un amico. L’amico e mio marito andavano a pesca sul fiume, io mi annoiavo. Frugando nella libreria, ho trovato “It”. Non avevo ancora letto nulla di Stephen King, anche se l’horror mi era piaciuto da adolescente, quando un fidanzato mi regalò i racconti di Lovecraft, e prima ancora c’era stato il tempo di Edgar Allan Poe, e poi sarebbe venuto il tempo di Machen e di Matheson. Ma non di King. In quel 1988 avevo un’idea molto selettiva di cosa dovesse essere un libro salvifico: doveva essere tagliente e lucido, squarciare ogni consuetudine, cambiare il modo di guardare il mondo, squassarti l’anima. Molto romantico, a ripensarci. Doveva, quel libro perfetto, suscitare la stessa euforica sensazione di aver compreso le pieghe segrete dell’esistenza che avevo scoperto, sedicenne, ne La nausea di Sartre e ne Lo straniero di Camus. Doveva impegnarmi, farmi soffrire e smarrire sulle pagine più ardue, come aveva fatto Thomas Mann con i dialoghi tra Naphta e Settembrini ne La montagna incantata. Doveva essere un corpo a corpo con le parole, freddo e perfetto come quando, giusto un paio di anni prima, avevo affrontato L’opera al nero di Marguerite Yourcenar.
C’era, però, qualcosa che ancora non avevo avuto dalle mie letture: qualcosa che andasse oltre l’appagamento intellettuale, l’ammirazione, l’empatia. Non lo sapevo ancora, ma quel che mi mancava era la seduzione: ovvero, il non riuscire a staccarmi da una storia, e finirla desiderando di avere tra le mani, subito, un altro libro dello stesso autore.
Eppure, avevo sempre letto molto. Moltissimo, anzi. Sono stata una di quelle bambine e poi ragazze e poi donne che hanno sempre un libro nello zaino (e per questo difficilmente usano borsette piccole e graziose) perché sanno che il tempo è pieno di buchi da riempire. Lo spazio vuoto mentre si aspetta l’autobus e mentre l’autobus stesso arriva a destinazione. Il panino e la spremuta d’arancia al bar, prima di tornare in redazione (non era anche quello un tempo da dividere, pane e carta, e non era piacevolissimo averne insieme?). Quando si legge troppo, però, l’emozione arriva più raramente: il punto è che, quando arriva, è doppiamente forte.
E’ lo stesso Stephen King a dirlo, in Danse macabre: “Non si apprezza la panna senza aver prima bevuto molto latte, e forse non si apprezza il latte finché non se ne è bevuto un po’ di inacidito”. Diciamo dunque che avevo bevuto molto latte e avevo mangiato, naturalmente, dell’ottima panna. Ma la panna apparteneva quasi tutta al passato, o così mi sembrava. Diciamo anche che mi annoiavo, che non avevo voglia di rileggere né c’era molto di nuovo che mi attirasse. Venivo da una sbornia di minimalisti, o da quelli che allora venivano definiti tali. Furoreggiava David Leavitt con Ballo di famiglia, e mi era piaciuto, ma ero sazia.
Così, nella casa sul fiume, avevo adocchiato It. E appunto non mi attirava l’autore, perché all’epoca nutrivo ancora diffidenza verso un autore COSI’ famoso, perché ero giovane e sciocca e convinta che tutto quello che era immensamente popolare non potesse che essere scadente. Crescendo, avrei imparato che anche fra i non giovani e i non sciocchi la convinzione era identica: e, a differenza di quanto era avvenuto a me, permaneva, e permane.
Ma dal momento che faceva caldo e non avevo altro da leggere, lo aprii. E constatai con qualche insofferenza che cominciava contraddicendo tutte le regole e regolette di scrittura che ancora oggi tormentano i lettori avveduti (cos’è quel narratore onnisciente? Via! Cos’è quel narrato e non mostrato? Matita rossa!). Cominciava, per essere precisi, così:
“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia”. (continua…)
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