giovedì, 28 gennaio 2016
IL FIGLIO DI SAUL
La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata al film “Il figlio di Saul” di László Nemes.
Camon ha consigliato di celebrare il giorno della memoria con la visione di questo film.
A proposito di giorno della memoria, ne approfitto per segnalare: il post annuale di Letteratitudine, 10 libri per non dimenticare, l’intervento del Presidente Mattarella.
In fondo al post, il trailer del film.
Massimo Maugeri
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Un canto fra i latrati
Il modo migliore di celebrare il giorno della memoria è andare a vedere il film Il figlio di Saul. Terribile a vedersi, ma non vederlo è un delitto. Un capolavoro aumenta in chi lo vede la voglia di vivere, una vita che ti fa incontrare capolavori è un regalo del destino. Ma stavolta non è così. Vedi questo film perfetto, e resti muto e spento. C’è un attimo di smarrimento in sala quando il film finisce, nessuno fiata. Non so se esista uno strumento in grado di misurare la “vitalità” delle persone, la voglia, la capacità di vivere, ma se esiste, e se si potesse usarlo sugli spettatori che escono dalla sala dopo aver visto questo film, si scoprirebbe che la loro vitalità è prossima allo zero. È un film che ti fa vergognare. Perché mostra che cosa sono stati capaci di fare gli uomini, e poiché tu sei un uomo, vergognandoti di loro ti vergogni di te. Non conosciamo ancora bene le lugubri imprese del Daesh, non ce le hanno mostrate per intero, e siamo grati di non averle viste. Chi verrà dopo di noi le vedrà. E proverà la stessa vergogna che proviamo noi oggi, vedendo questo film che ci mostra il macabro lavoro di un Sonderkommando. Sì, tutti abbiamo visto Birkenau (nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza averlo visto), dunque abbiamo visto i luoghi dove si svolgeva l’abominevole operazione che si chiamava Sterminio. Ma quei luoghi oggi sono muti. Li vedi ma non li senti. E ogni racconto, ogni testimonianza, ogni diario che li descrive, non te li fa sentire. E senza sonoro sono morti. Il film recupera il sonoro. Urla, pianti, percosse, imprecazioni, latrati, abbaji, e ordini, ordini, ordini, che con i latrati e gli abbaji si fondono in una sola lingua, non umana ma canina. I soldati che fanno queste cose sono umani trasformati in cani. L’ideologia, il razzismo, l’odio per gli altri, l’obbedienza ai capi, le “cose dei padri” cioè la patria, hanno costruito questo risultato. Ci sono cani che prima mordono e poi ringhiano, così questi uomini-cani prima calano la bastonata e poi urlano l’ordine. Nessun dubbio che il lavoro del Sonderkommando o si fa così o non si fa. Siamo nella catena di montaggio dello Sterminio, i forni, la cenere da smaltire nel fiume, le docce da lavare, via un carico sotto l’altro. Nella catena di montaggio, a sterminare ebrei, sono altri ebrei, schiavi. Uno di questi, un ungherese, crede di riconoscere in un bimbo morente il proprio figlio. O, più probabile, vede quel piccolo morente e lo adotta come figlio. Ne nasconde il cadavere, lo porta sempre con sé, anche nella fuga, per tutto il film gira in cerca di un rabbino che sul piccolo morto reciti il Kaddish, la preghiera ebraica per santificare il corpo da seppellire. Il film vive sul contrasto tra i corpi sprezzati come immondizia, e il corpo di questo bambino santificato. Noi oggi siamo in un’epoca di corpi che esplodono, muoiono per uccidere, e questo film ci offre un corpo morto da santificare, cioè da far vivere in eterno. Il film è sull’urto tra l’odio razzista e l’amore paterno. Non abbiamo mai spinto lo sguardo così dentro l’orrore dove la strage si compie ininterrotta. La storia del film dura un giorno e una notte e un giorno, 36 ore, e in questo tempo i carichi di deportati che arrivano sono molti e imprevisti, come arrivano vanno sterminati, prima che capiscano qualcosa. L’aspetto più dis-umano dello Sterminio è la “normalità”, anzi la “serenità”, con cui i carnefici lo eseguono. Le SS sono scherzose, fanno complimenti sulla lingua ungherese, ammazzano con nonchalance, con divertimento. Così avveniva in Cambogia. In Rwanda. In Bosnia. Così avviene nel Daesh. Nel lavoro della morte o impazzisci o ti diverti. Qui le SS si divertono, come Jihadi John con il coltello alla gola del prigioniero. Divertendosi, passano al dileggio. Il protagonista Saul casca in mezzo a un gruppetto di SS, lo potrebbero ammazzare subito, invece accennano con lui a un duetto di danza. In una fabbrica si producono pezzi di ricambio, e pezzi, Stücke, plurale di Stück, sono i cadaveri prodotti nel mattatoio. Nel buio di questo Inferno si sente a tratti il Kaddish: contro i latrati di un’umanità di cani, la dolcezza di un canto divino.
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[Articolo pubblicato sul quotidiano "Avvenire"]
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Tags: Ferdinando Camon, Il figlio di Saul, László Nemes
Scritto giovedì, 28 gennaio 2016 alle 20:22 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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