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domenica, 30 marzo 2008

IL RIBELLE IN GUANTI ROSA. CHARLES BAUDELAIRE di Giuseppe Montesano

Parliamo di Charles Baudelaire. E parliamo di uno dei libri più interessanti pubblicati nel 2007 in Italia: “Il ribelle in guanti rosa” di Giuseppe Montesano.
Il fondatore della poesia moderna, il poeta maledetto, il critico della borghesia, il più celebrato cantore degli eccessi (il sesso, gli alcol, le droghe) nella modernità: non è facile scrivere di Baudelaire, raccontarne la strepitosa parabola letteraria e umana senza incorrere nei luoghi comuni da una parte e nelle sofisticate distinzioni degli specialisti dall’altra. Il libro di Montesano cerca questa terza via, conducendo il lettore in una Parigi brulicante di teorie, di rêveries, allucinazioni oscure e illuminazioni abbaglianti, incontra una folla di personaggi insigni e oscuri. E soprattutto, se Baudelaire è il poeta che “si è consegnato a molte maschere”, Montesano cerca di indentificarle tutte, di registrarle minuziosamente per poi strapparle, svelandone ora il sovrapporsi al volto ora il confondersi con la carne e il sangue dell’uomo che vi sta sotto”.
Giuseppe Montesano – che è romanziere, ma si occupa anche di letteratura francese (tra le altre cose è curatore con Raboni dei Meridiani Mondadori su Baudelaire) – sceglie di parlare del “poeta maledetto” attraverso un saggio-romanzo frutto, peraltro, di un lavoro decennale.
Credo che questo post possa essere una buona occasione per discutere di Baudelaire e approfondire la conoscenza (o fare la conoscenza) di questo poeta (ma anche scrittore, critico letterario e traduttore) francese.
Ovviamente siete invitati a dire la vostra.
Di seguito potrete leggere la recensione di Andrea Di Consoli, che pubblichiamo all’interno della sua rubrica “La stanza dello scirocco”.
(Massimo Maugeri)

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recensione di Andrea Di Consoli (nella foto) 

Adesso diranno semplicemente che è uno studioso – “un critico”, per giunta – ma Il ribelle in guanti rosa (Mondadori, 441 pagine, 19,00 euro) di Giuseppe Montesano (Napoli, 1959), autore di fortunati romanzi come Nel corpo di Napoli (1999) e Di questa vita menzognera (2003), è davvero un libro sorprendente e unico, forse uno dei pochissimi grandi romanzi critici degli ultimi anni – un libro che conosce e racchiude tutte le forme e tutti i metodi di camminamento e di discendimento “nel corpo” di un autore e del suo tempo. Come tutti i grandi scrittori novecenteschi, Montesano ha usato, nella sua intensa vita letteraria, più generi espressivi: il racconto, il romanzo, il teatro, la critica letteraria, il romanzo a puntate, la critica musicale e la traduzione (ha tradotto Baudelaire, Villiers de L’Isle-Adam, Flaubert, Gautier), e ha così riconfermato (felicemente) l’assunto che il romanzo è solo la punta di un iceberg in un oceano di cultura e di curiosità.   Saggio, certamente; sicuramente critica stilistica, storica, morale e filosofica; biografia, senza dubbio; ma, infine, e sia detto senza nessun ordine di valore, il grande romanzo di un uomo inafferrabile, di un poeta chiuso nella morsa delle sue contraddizioni: Charles Baudelaire (1821-1867), cantore e nemico di Parigi, demone celestiale e infernale, poeta classico e assolutamente moderno, unione di opposti d’inesauribile complessità.

Il romanzo critico di Montesano è un viaggio teso e inquirente in una selva di segni (poesie, lettere e testimonianze) in cui è impigliata e invischiata la tumultuosa vita di Baudelaire, il re dei “maledetti”; anzi, è una specie di “basso” napoletano colmo di vicoli e sotterranei segreti, in cui Montesano ha camminato in tanti anni di oscura “ossessione”, come un pensoso flâneur, un “amante” assetato con la lente d’ingrandimento, un filosofo che sa svelare i segreti sublimi della lirica, senza perdere mai di vista il duro reale, le strade lerce, i vizi, (“l’erotìa e l’interesse”, direbbe Gadda), l’oro del tempo storico che, sotto un luccichio sfavillante, nasconde il “duro metallo della violenza”.  E, a proposito di “erotìa”, Montesano cerca anche di sfondare il muro misterioso che ci nasconde la bella Jeanne Duval: “[...] Era bellissima. Non abbiamo fotografie, e l’unico ritratto che la raffigura è un quadro di Manet che la dipinse forse a memoria, atrocemente devastata dalla malattia: ma Jeanne era bellissima”. Il Baudelaire di Montesano è un uomo che si diverte a “dare il cattivo esempio”. E’ un poeta malinconico e irascibile, tormentato dai debiti, dalle cambiali, dalle scadenze e dalla gestione controllata del suo patrimonio (tutti sanno l’odio che provava nei confronti del patrigno Aupick). Scrive Baudelaire alla madre: “Quando si ha un figlio come me non ci si risposa”. E’, Baudelaire, un poeta che vive la sua breve esistenza sotto l’ombra dello spleen. Scrive Montesano: “Lo spleen era l’esperienza della distruzione non definitiva, quel calarsi nella ferita della ragione resistendo in essa [...]“. La sua umanità era fatta di prostitute, illuminati, idealisti, ermetici, ubriaconi, artisti e rivoluzionari (“Baudelaire era attratto dai mistici di ogni genere che affollavano mansarde e abbaini delle vie più povere di Parigi”; e ancora: “
La Parigi per la quale si aggirava il giovane Baudelaire con la curiosità di chi cerca l’eccesso pullulava di mistici da baraccone, di insofferenti al pensiero logico e di rivoluzionari pronti ad appiccare il fuoco all’intera società [...]“). E Montesano si cala totalmente con Baudelaire in quest’inferno paradisiaco, e ingrandisce dettagli, svela segreti (l’Ennui non è altro che Napoleone III), sporca le sue mani con il materiale vischioso dell’esistenza del suo poeta e, abitando interamente l’universo baudeleriano, non può fare a meno di diventare anch’egli (in absentia) un personaggio di quella Parigi lì, restituendoci l’immagine di un detective neoplatonico e barocco, irrazionale e sapienzale, rivoluzionario e apocalittico.Il Baudelaire di Montesano è un barricadiero, un rivoluzionario, (non un “democratico da caffè”), uno che ha sposato la causa della rivolta operaia del 1848, solo in apparenza per ragioni “private” (colpire il suo patrigno-generale). In realtà Montesano ci svela che Baudelaire aveva una salda conoscenza “tecnica” del socialismo: “Negli anni in cui non aveva disdegnato la lettura dei mistici del socialismo, Baudelaire aveva letto attentamente un filosofo che non era un mistico ma si vantava di essere un tecnico dell’amara scienza, che per lui come per Marx aveva in Ricardo il suo vero fondatore: quella scienza era l’economia politica, e quel filosofo si chiamava Pierre-Joseph Proudhon”. Scrive Montesano: “Solo chi scende al livello della strada e abbandona l’egoismo può sposare le folle di Febbraio e di Giugno [...]“. E’ strano scoprire questa “faccia” di Baudelaire, un poeta che “traffica” con Blanqui, Proudhon e il socialismo cristiano, e che non è soltanto (o non è più) un parnassiano, il cantore della modernità della città di Parigi, o il restauratore del classicismo e, al contempo, colui che ha minato dall’interno, con la dissonanza, e con l’asimmetria, la perfezione della poesia. Il poeta sublime attacca l’art pour l’art, e si dichiara commosso dalla poesia “vera” di Dupont. Ma, probabilmente, il “socialismo cristiano” di Baudelaire, come scrisse Walter Benjamin a proposito di Blanqui, non presupponeva affatto la fede nel progresso, ma solo la decisione di farla finita con l’ingiustizia del presente. Delacroix, nel 1849, a un anno dai moti del ‘48, annota sarcastico nel suo diario: “Venuto il signor Baudelaire [...] Le sue idee mi sembrano modernissime e davvero sulla via del progresso. Uscito lui [...] Stato d’animo molto triste”. Era troppo difficile capire il sogno di Baudelaire: unire “i pezzi rotti dell’umanità” non nella purezza astratta dello spirito, “ma nella carne e nel sangue, e contro gli idealisti che escludevano l’eros dall’amore”. Tutto sembra perduto: la malattia, i debiti, le sconfitte del ‘48 (e del ‘52). E la pulsione sovversiva non è altro che il ghigno smorfioso dello spleen. “La catastrofe è che tutto continui come prima”, scrive Baudelaire. Ma la vera catastrofe è l’uomo che aspira all’assoluto, al segreto inafferrabile del tempo e dei simboli del mondo; pure, il senso di estraneità che il poeta prova nella sua Parigi. Scrive Benjamin: “Nessuno si è mai sentito così poco a casa propria a Parigi quanto Baudelaire”. Il povero dandy cambiava continuamente domicilio, dormiva su letti “di fortuna” (“Dentro Parigi, il suo deserto vivente, senza fuoco né luogo”, scrive). E’ quasi una premonizione di quei “non-luoghi” teorizzati, molti anni dopo, dall’antropologo Marc Augé. Le Fleurs du mal Montesano le scandaglia con l’ultravista della dimestichezza: “Le grandi liriche delle Fleurs du mal sono scritte in una lingua doppia, una lingua che nasconde sotto la corazza abbagliante delle immagini le verità che non si possono pronunciare”. Non piacevano, le poesie di Baudelaire; anzi, offendevano, indignavano, inducevano alla censura (la storia dell’immediata [non] ricezione delle poesie baudeleriane viene affrontato in apertura di libro, nel capitolo dal feroce titolo Dategli una lezione, a questo poeta infame). Il clima in cui sorsero le fleurs fu impossibile. Ancora nel 1868, a un anno dalla morte, sua madre scriveva a Charles Asselinau: “Vi chiedo di sopprimere la poesia intitolata Le Reniement de saint Pierre. Come cristiana io non posso, io non devo lasciar ristampare questa cosa. Se mio figlio vivesse, sicuramente oggi non la scriverebbe, avendo avuto, negli ultimi anni, simpatie religiose”. L’attraversamento che Montesano fa dei versi di Baudelaire è impressionante; procede per intuizioni, per collegamenti, per rimandi alla più importante Weltliteratur. Scopriamo, per esempio, il legame con Sade, in specie nella pulsione all’oltraggio della natura (nei versi di A’ celle qui est trop gaie).

Ovviamente è impossibile dare minimamente conto di ciò che accade in questo romanzo-mondo, in questa fitta selva di dettagli, di atmosfere, di “fatti”. E’ sicuramente interessante – prima del capitolo finale: il capitolo della paralisi e della morte – accennare al periodo belga di Baudelaire. Già qualche anno fa Montesano aveva curato e tradotto per Mondadori Il paese delle scimmie, “diario” impietoso e risentito contro il Belgio piccolo-borghese, bigotto, senza grazia. Ma perché Baudelaire, nel 1864, andò in Belgio? Scrive Montesano: “[A Parigi] i debiti crescevano, avere soldi in prestito era sempre più difficile, i giornali non lo pubblicavano, Parigi era un carcere, Jeanne paralizzata: bisognava fare qualcosa, spostarsi, agire. E disperatamente, come un animale notturno intimidito dal frastuono, infastidito dai fuochi d’artificio delle feste di regime, sbattendo le palpebre nella luce che cancellava allegra le vittime, Baudelaire partì per il Belgio”. Come molti grandi poeti, Baudelaire è stato un esiliato, in conflitto con il proprio tempo, dilaniato dalle contraddizioni, continuamente richiamato dalla “strada” (dalla vita) e continuamente respinto. E’ stato l’anima di un paese e di una città e, allo stesso tempo, “cittadino” estraneo, espulso, deriso, rifiutato. In Baudelaire vita e letteratura, sovversione politica ed estasi mistica, “alto” e “basso”, verità e menzogna, erotismo e amore, sensualità e razionalità, inferno e paradiso, ordine e disordine convivono come segni tangibili della massima apertura che un’anima terrena possa raggiungere. Perché solo nella contraddizione lacerante è possibile la grandezza (sfiorare il grande segreto del mondo), solo così è possibile durare in eterno, nonostante la paralisi, nonostante la morte che tutto polverizza. Baudelaire era ossessionato che tutto venisse dimenticato. Anche grazie a libri come Il ribelle in guanti rosa la sua stella lucente indica ancora una rotta precisa nel firmamento della letteratura mondiale.

Andrea Di Consoli

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Brano estratto da Il ribelle in guanti rosa. Charles Baudelaire (Mondadori, 2007) di Giuseppe Montesano. Per gentile concessione dell’autore.

Lui era stato gabbato fino in fondo dalla speranza, lui aveva creduto che fosse possibile un’altra vita, lui aveva creduto che fosse possibile ringiovanire, lui aveva creduto che potesse arrivare il nuovo che capovolge i giorni e li fa risplendere: e il dandy che si voleva straniero al mondo aveva dovuto riconoscere nel corpo della paria la fraternità possibile. Ma quando? E dove? Non poteva essere pronunciato né il dove né il quando, ma il possibile brillava come gli occhi delle ragazzine e i seni radiosi della mendicante, e la salvezza della realtà tutta intera era affidata come una visione, in uno specchio e enigmaticamente, alla poesia: “La poesia è ciò che vi è di più reale, ciò che non è completamente vero che in un altro mondo.” La violenza della morte evocata da Baudelaire deve passare, come passa nella Scrittura la figura di questo mondo, il nuovo non può essere pronunciato finché la vittima è inestricabile dal carnefice, il nuovo non arriverà se non quando tutte le lacrime dei massacrati di Giugno e di ogni tempo che gli stanno ancora piantate nella carne non saranno asciugate, il nuovo sarà solo quando il circolo vizioso dell’eterno ritorno dell’uguale si spezzerà: “E Dio stesso sarà con loro e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e la morte non esisterà più, né lutto, né grida, né sofferenza esisteranno più, perché le cose di prima sono scomparse.” Allora la voce di colui che nell’Apocalisse può dire Ecco, io faccio nuova ogni cosa, pronuncerà la parola tornata materna, la lingua finalmente natale, e dall’abisso “interdetto alle nostre sonde” sorgerà la vita vera: “A chi ha sete darò gratuitamente dell’acqua della vita.”

Ma questo non sarà ora, e non qui. A ritmo di galop come nelle detestate operette, l’enigmatica commedia finale è cominciata, la vita non si lascia dire. Rimprovera la madre per aver scritto “inquieta” con due t, piange sulle privazioni come un bambino, il 26 febbraio la sgrida perché ha dimenticato la sua età: “Altro errore: e questo da parte di una mamma è troppo forte: tuo figlio non ha quarantasei anni. Ne avrà quarantacinque solo fra un mese e qualche giorno.” Ma tra quel mese e qualche giorno lui sarà muto, l’afasia lo avrà ingoiato: ci saranno solo le parole della madre che vuole tenerselo “come un bambino piccolo”, che dichiara che dopo gli attacchi di collera il figlio “ha a volte dei lunghi scoppi di risa che mi terrorizzano”, la madre che ancora gli rimprovera “una cura eccessiva della toilette”, che tacendo le bestemmie rabbiose del figlio lo loda perché quando le suore vogliono fargli fare il segno della croce lui si comporta “con una pazienza ammirevole, chiude gli occhi, o volta la testa dall’altra parte senza infastidirsi”, ma che poi afferma: “Ha una sola idea fissa: non essere dominato…” Allora, nel suo mutismo e nei sorrisi da bestia ferita, ci sarà tempo solo per l’eccitazione di sentire ancora una volta la musica che canta l’indistruttibile Venere, per lo stupore che lo coglie nello scoprirsi vivo. Contro la religione della morte è rimasto sempre sveglio, e l’amore è stato la sua misteriosa protezione. E anche se nei giorni prima della paralisi si muove a fatica, per sentire ancora il profumo dell’altro mondo, il profumo del femminile, la lentezza, l’indugio, il non arrivare, lo spreco, la dolcezza, ritorna nella chiesa di Saint-Loup. E nel ventre accogliente del grande catafalco “ricamato in nero, rosa e argento”, dentro l’ultima figura terrena del “gioiello rosa e nero” che conserva la vita, nel rifugio in cui alita il piacere che spinge gli amanti “mollemente bilanciati sull’ala del turbine intelligente” verso il paradiso, in un freddo profumo d’incenso, tornano le immagini della salvezza: sono i piedi di Jeanne che lui ha cullato come bambini facendoli addormentare tra le sue mani “fraterne”, sono gli occhi della passante in cui “fiorisce l’uragano” e il cui sguardo lo ha fatto “improvvisamente rinascere”, è il corpo di Sarah che il ventenne figlio di famiglia ha leccato “con più fervore che la Maddalena i piedi del Salvatore”, sono i seni della mendicante che si intravedono tra gli stracci “radiosi come occhi”, sono i capelli di Jeanne in cui tuffava le mani per respirare “il vino del ricordo” di una vita anteriore. Troppo tardi? All’uscita da Saint-Loup inciampa su un gradino e sviene, la paralisi comincia a diffondersi, detta ancora una lettera dove corregge una poesia che si intitola Bien loin d’ici, pochi versi in cui nella grana della pelle di Jeanne odorosa di olio e di benzoino compare l’altra vita, poi ammutolisce, come un animale. Esiste davvero questo luogo molto lontano da qui? Il 31 Agosto del 1867, Baudelaire muore. Due giorni dopo  è inumato nel cimitero di Montparnasse, a fianco del generale Aupick. Fa caldo, Parigi è vuota, gli scrittori e gli editori sono in campagna per il fine settimana. Il Ministero non ha mandato nessuno, la Société des gens des lettres non ha mandato nessuno. Niente sembra cambiare, e fino a quando ci sarà l’eterno ritorno dell’ingiustizia, nemmeno i fantasmi troveranno pace. Più d’uno non verrà più a cercare la zuppa profumata, all’angolo del fuoco, la sera, vicino a un’anima amata. Deve essere sempre così? È sempre troppo tardi per qualsiasi cosa? E’ così, e non è vero. I ragazzi di vent’anni ancora sognano di portare rose rosse sulla sua tomba, e vogliono sputare su quella del generale Aupick. Da qualche parte, in una prigione, in un sotterraneo, la voce dell’insurgé, stanca ma non arresa, mormora: il faut recommencer, bisogna ricominciare. C’è tutta la vita che aspetta di essere risvegliata, chiede di essere sciolta dalle bende sacrificali, vuole parlare nella sua lingua natale. Ci sarà davvero quest’altra vita, molto lontano da qui? Lui aveva ripetuto che la bellezza è la promessa della felicità. E’ vero? Non adesso, non in questa realtà, ma adesso, in questa realtà, non ce ne sono altre, la promessa brilla ancora in tutto il suo splendore.

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   119 commenti »

venerdì, 25 gennaio 2008

IL SUD DELL’EDITORIA. EDITORIA A PAGAMENTO

Questo post ha una duplice valenza. Vi propongo, infatti, contestualmente, un’intervista che Stefano De Matteis – direttore editoriale di Cargo e L’ancora del Mediterraneo – ha rilasciato ad Andrea Di Consoli e un articolo di Gordiano Lupi (che, ricordo, è anche il direttore editoriale della casa editrice Il Foglio) corredato dalla lettera di un aspirante scrittore.

Gli argomenti trattati sono diversi e trovano un punto d’incontro nella “problematica” dell’editoria a pagamento, che già – di per sé – offre grandi opportunità di dibattito.L’intervista a De Matteis affronta ulteriori argomenti che potrebbero essere oggetto di discussione: l’editoria del Sud, la piccola editoria, la promozione dei libri.

Naturalmente vi invito a dibattere sui temi trattati.

Direi di procedere per fasi.

Cominciamo dal tema “editoria a pagamento”, per poi passare agli altri. 

(Massimo Maugeri)

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INTERVISTA A STEFANO DE MATTEIS di Andrea Di Consoli 

Dopo quasi un anno di fermo (il tempo di cambiare promotore, e aumentare il numero delle uscite) “L’ancora del Mediterraneo” e “Cargo”, le sigle editoriali napoletane, tra le principali del Sud, tornano fra qualche giorno in libreria. Dopo aver fatto esordire scrittori come Saviano, Pascale, Lucente e Zaccuri, e dopo aver pubblicato libri di Berardinelli, Naldini, Cederna, Fofi e Niola, si prevede un anno molto ricco per la piccola casa editrice campana.   Il direttore e fondatore delle sigle è Stefano De Matteis, nato nel 1954 a Napoli e formatosi, sin dal 1977, a Milano, lavorando da Feltrinelli, da Garzanti e, dal 1985 al 1992, con Mario Spagnol della Longanesi. Nel 1992 De Matteis decise di ritornare a Napoli, dove prima ha fondato una rivista con Gustav Herling (“Dove sta Zazà”), poi ha collaborato a “Il mulino” e alla pugliese “Argo”, fino a fondare, nel 1999, “L’ancora del Mediterraneo” (“Cargo” nascerà, da una costola de “L’ancora”, nel 2005).

De Matteis, perché nel Sud Italia non è mai nata un’editoria forte, a carattere industriale? 

Primo, perché al Sud non c’è mai stata una vera imprenditoria di mercato. Secondo, perché l’editoria non è mai stata vista come un’attività remunerativa, ma semplicemente come qualcosa che rientrava nei lussi dell’assistenza istituzionale. Quindi non si è mai costituita un’imprenditoria che lavorasse sulla cultura. Non a caso a Napoli c’è San Biagio dei librai, invece non esiste un San Biagio degli editori. La storia editoriale meridionale è soprattutto una storia di tipografie e di librai.

Quali sono, a suo avviso, le principali sigle editoriali del Sud?

Ovviamente “Laterza” e “Sellerio”.

Può l’editoria di progetto avere un legame forte con il proprio tempo?

Certo che può, sia per quel che riguarda L’Italia, sia per il Sud in particolare. Noi, per esempio, abbiamo anticipato quello che poi è capitato a Scampia, oppure il problema dell’immondizia.

Quali sono i principali problemi della piccola editoria di progetto?

Il problema principale della piccola editoria è saper creare un rapporto diretto con il lettore, nel senso che c’è un rapporto difettoso con i lettori, che adesso sta migliorando tramite internet, ma siamo il paese che spende meno su internet, perché non c’è un rapporto fiduciario con questo strumento e con le carte di credito. E poi c’è stato un grande cambiamento in libreria. Le librerie “grandi spazi”, come tutti sanno, smerciano soprattutto i famosi “non libri” per il famoso “non pubblico”.

Cosa significa fare l’editore a Napoli?

La difficoltà è questa: se tu apri un’impresa al Nord, le banche ti guardano come una persona interessante; se tu apri un’impresa al Sud, le banche ti guardano come un “mariuolo”. Noi abbiamo iniziato con capitali privati, non ci siamo mai seduti a nessun tavolo politico o di spartizione culturale, non abbiamo mai voluto nessun vantaggio dalle istituzioni e dall’università. Questa scelta ci è costata molto cara. Solo quest’anno, per la prima volta, faremo un accordo con la Regione Campania, perché pubblicheremo “Questa corte condanna. Spartacus, il processo al clan dei casalesi”, libro a cura di Maurizio Braucci e Marcello Anselmo. In questo caso l’accordo con la Regione è stato interessante, perché permetterà di distribuire il libro nelle scuole, dove verrà fatto un lavoro capillare sull’educazione alla legalità.

Il pubblico dei lettori è peggiorato in questi ultimi anni?

Assolutamente no. C’è stata però una forbice che si è molto divaricata tra quelli che leggono molto e quelli che leggono un solo libro all’anno.

I promotori hanno una grande responsabilità? 

E certo che ce l’hanno, perché devono posizionare bene i libri, fare un braccio di ferro con il libraio, sempre meno motivato. Il libraio purtroppo non è più il consulente dei lettori, ma è uno che riempie le schede e sposta i libri. Un tempo il libraio consigliava, era una figura di riferimento per l’editore. Oggi, con la rotazione che c’è, i librai fanno solo lo spelling sul computer per vedere se un libro c’è o non c’è.

La piccola editoria è anche un luogo di improvvisati e di cialtroni? 

Sicuramente. Ci sono alcuni come me che vengono dall’editoria “pura”, e molti che usano il surplus dei loro guadagni, fatti in altro modo, decurtandoli dalle tasse, e li investono in piccole case editrici. Mantengono quindi in vita una struttura dove non c’è un progetto forte. Se si prende invece Fanucci, e/o, Donzelli, e via a scendere fino a “L’ancora”, c’è un’identità tra imprenditore, ideatore e sistema editoriale. In molti casi, invece, c’è un’estraneità completa.

Ci sono anche speculazioni?

Penso proprio di sì. Ci sono situazioni dove si fanno grossi investimenti, non sempre trasparenti, per costruire marchi che possano funzionare a livello di mercato.

Quali sono le caratteristiche di un’editoria indipendente di progetto?

L’editoria di progetto costruisce un percorso sui tempi lunghi. L’editoria di speculazione, invece, è fatta di improvvisazioni che lasciano ben poco. C’è una tempistica che è completamente diversa, quando fai un’editoria di progetto, perché ti costringi ogni giorno a immaginare il futuro.

E’ rilevante l’editoria a pagamento? E come la giudica?

Purtroppo credo che sia molto rilevante, soprattutto quella che si appoggia all’università, in specie al Sud. Questo tipo di editoria, al di là di qualsiasi ragionamento etico e culturale, non mi piace per due motivi: primo, perché si crea una ridondanza di mercato, perché s’intasano le librerie con prodotti mediocri; secondo, perché si creano una miriade di sigle editoriali senza nessuna credibilità.

Chi sono i nemici dell’editoria di progetto?

I nemici sono tutti quelli che fanno non libri, non cultura, e che non insegnano a leggere. Il vero nemico, come suole dirsi, è la moneta falsa.

Quali sono le differenze tra “Cargo” e “L’ancora del Mediterraneo”?

Cargo” è un marchio nuovo nato nel 2005. Fino ad ora vi abbiamo pubblicato 15 titoli (tra gli altri, Arenas, Grass, Goytisolo), mentre solo nel 2008 ne faremo altri 15. “Cargo” pubblica esclusivamente narrativa straniera, e la direttrice editoriale è Milena Ciccimarra. “L’ancora del Mediterraneo” manterrà la collana “Le gomene”, che pubblicherà libri di attualità e pamphlet, la collana “Odisseo”, che farà gli esordienti e i narratori italiani, e “Gli alberi”, che sarà la collana della saggistica “pura”.

Ci dica alcuni titoli in uscita.

Per “Cargo” è in uscita MacPherson, che è un giornalista di guerra americano, che ha scritto un romanzo su una banda di americani che decide di aiutare il presidente a trovare le armi di distruzione di massa in Iraq. Poi uscirà un altro americano di “disinformations”, che si chiama Nick Mamatas, con un libro intitolato “Come mio padre ha dichiarato guerra all’America”. Per “L’ancora” uscirà un reportage sui rom d’Europa di un austriaco, Gauss, che s’intitola “I mangiacani di Svinia”, perché uno dei grandi olocausti del ‘900 è proprio quello dei rom.

Avete anche pubblicato molti libri sui gulag e sui laogai cinesi.

Adesso facciamo per il “Memento Gulag”, a novembre, la storia di un jazzista russo finito in un gulag. La collana su questi temi si chiama “Un mondo a parte”, in omaggio a Gustav Herling, che è stato, ed è tutt’ora, l’ispiratore de “L’ancora del Mediterraneo”.   

Andrea Di Consoli  

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SULL’EDITORIA A PAGAMENTO di Gordiano Lupi

Da quando ho pubblicato Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004) e Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005) ricevo le confessioni e gli sfoghi di tanti scrittori caduti nella rete degli editori a pagamento. Oggi voglio far conoscere quello che ci racconta Simone Pazzaglia, un autore toscano che ha ricevuto una proposta da una casa editrice a pagamento. Lui è d’accordo che venga pubblicizzata una brutta esperienza che può servire anche per altri colleghi. Diffidate degli annunci che trovate sui giornali e soprattutto di chi vi propone di pubblicare (meglio sarebbe dire stampare) il vostro libro in cambio di soldi. Se proprio dovete farlo potete ricorrere a un print on demand! Costa molto meno… In ogni caso il discorso sugli editori a pagamento sarebbe lungo, perché è anche vero che ci sono presunti scrittori (i famigerati scrittori locali che esistono un po’ ovunque) che se li meritano e che senza di loro non potrebbero mai definirsi scrittori. Chi pubblica pagando non è uno scrittore, ma soltanto un ambizioso che vuole il nome su una copertina.

A caro prezzo, di solito.

Gordiano Lupi

http://www.infol.it/lupi/

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“Non ho mai avuto grandi passioni in vita mia. A volte ho la sensazione che tutte le cose che faccio siano solo e soltanto un modo per riempire un vuoto, un po’ come fa chi guarda la pubblicità aspettando l’inizio di un film. Non mi intendo di calcio e non conosco neppure il nome dei giocatori anche se al bar spesso vengo tirato a forza in discussioni sull’arbitraggio della domenica o sui prossimi acquisti della mia presunta squadra del cuore. Con lo studio poi idem per il calcio. Certo mi sono laureato con poco sforzo ma con minima soddisfazione e anche lì una continua lotta per fingere, ad ogni esame, di sapere ciò che ignoravo e di essere ciò che non ero.Per il lavoro lasciamo perdere… non mi piace la moda, la trovo una cosa stupida, eppure mi scopro a dare consigli sugli acquisti o sugli abbinamenti di colore da fare ad attraenti donne attempate; è il mio lavoro, quello che mi fa mangiare, gestisco un negozio di abbigliamento.

E poi infine la politica, con anni di militanza in un partito ad organizzare concerti e fare riunioni interminabili per ritrovarmi con un’importante carica amministrativa a livello locale, nel mio sperduto paese. Sono una maschera di me stesso come diceva qualcuno oppure sono come quel cavaliere inesistente che doveva costantemente tenersi occupato in qualcosa per non svanire nel nulla. Essere ciò che gli altri si aspettano è un buon modo per sentirsi vivi, ma vivi a che prezzo?

In mezzo a questo galleggiare, spinto dal vento di ciò che non è mio, si insinua presente la scrittura simile ad un’ancora di salvataggio. E’ stata, da sempre, il mezzo tramite il quale raccontare quella parte di me, sconosciuta in fondo anche a me stesso, che si materializzava a volte sul foglio come avesse una vita sua propria.Eccomi allora nelle mie pagine sgrammaticate, nello sforzo di esprimere un minimo di sincerità; prima con delle poesie e poi con romanzi che raccontano il mio modo di vedere la realtà. Sì, scrivere mi piace e quando lo faccio, e sento che la penna scivola tra i miei pensieri, provo piacere, un piacere fisico simile allo sprigionarsi di uno strano calore nella pancia e nel petto.Va be’ mi diverto è vero, ma chi sa se quello che scrivo piace anche a qualcun altro?E allora perché non provare a spedire un po’ di materiale in giro, magari qualcuno è disposto a leggerlo e perché no a pubblicarlo! Ed ecco che la testa comincia a viaggiare e mi faccio il filmino di essere un vero scrittore e di poter pubblicare un libro, il mio, una cosa vera che mi appassiona e mi racconta.

Vai che si parte… e come dico io “niente a caso”, leggo sul mio quotidiano preferito un concorso letterario con i controcoglioni; c’è una casa editrice che selezionerà una storia di non meno di settanta cartelle dove, chi arriva primo su più di 2000 partecipanti, otterrà la pubblicazione del libro più 1500 euro di anticipo sui diritti d’autore.

Animato da grandi speranze, impacchetto il mio capolavoro e spedisco. Nel giro di una quindicina di giorni mi arriva una lettera dalla suddetta casa editrice dove mi si dice che il materiale è arrivato, lo analizzeranno e mi faranno sapere entro un mese il risultato.

Sono un’ottimista inguaribile, e per tutto il tempo di attesa inizio ad immaginarmi con il mio bel libro in un salotto letterario a firmare autografi e a godermi il premio monetario.

Dopo un mese circa arrivò la risposta a destarmi dal mio fantasticare, diceva più o meno così: il suo racconto non ha vinto il premio ma è stato trovato molto interessante bla, bla, bla, e allora avremmo intenzione se lei è d’accordo a sottoporlo alla valutazione di case editoriali di nostra conoscenza bla, bla, bla…

Aspettai quindi ancora con ottimismo ed iniziai, questa volta, ad immaginarmi con un piccolo libro, senza premio ma pur sempre con qualcosa di mio.Passano giorni di trepidante attesa ed io continuo a consigliare le mie vecchiettine sulle gonne che vestono meglio o sui maglioni che smagriscono, intervallando il lavoro con importanti riunioni comunali sul problema dei cani randagi e sulle scritte offensive che insozzano i muri di tutto il paese.

Poi un giorno, proprio all’ora di pranzo, arriva la mia compagna con in mano la lettera tanto attesa da parte della casa editrice.

La apro a tavola tra lo scoppiettare dell’olio nei tegami, le urla di fame di mio figlio che non intende aspettare e la tensione di Alessandra che legge insieme a me da dietro le mie spalle.

Sento Alessandra che sospira alle mie spalle mentre io le faccio cenno di richiudere la bottiglia e rimetterla in frigo.

Alzo la cornetta e chiamo la casa editrice dicendo di poter essere interessato alla proposta e di voler leggere il contratto di edizione.In fin dei conti si tratta di capire bene cosa significhi “un limitato numero di copie” e per di più tutte le spese di pubblicità e distribuzione nelle svariate librerie d’ Italia sono a spese loro quindi ancora non tutto è perduto.

Aspetto ancora. Non perdo neppure il mio solito ottimismo ma questa volta mi immagino, non più in un salotto letterario, ma in una bancarella davanti alla Coop a vendere il mio manoscritto.

Ed intanto i giorni passano sorretti da speranze non ancora cancellate.

Arriva dunque il pacco postale e dentro vi trovo due libri in regalo (…) dove sono spiegati tutti i misteri del mondo del libro dalla pubblicazione (con le relative spese), alla vendita in libreria. Leggo il contratto e vado subito con gli occhi a cercare l’articolo che parla del “limitato numero di copie” da acquistare… sono 298 per un totale di tremila euro. Bla, bla, bla, spese a carico dell’editore, bla,bla,bla, tiratura di 1200 copie, bla,bla,bla, 3 mesi di tempo per stamparlo in caso di pagamento in contanti, 6 in caso di pagamento in due trance, 9 mesi in caso di comodo pagamento dilazionato.

A questo punto perdo quasi tutto l’ottimismo che possiedo ma ne lascio una goccia per soppesare la possibilità di ottenere un finanziamento da parte di qualche ente. In fin dei conti danno l’idea di crederci nel mio stile e forse tutto il mondo dell’editoria va avanti così; per di più che diamine! Non sarò mica l’unico scrittore che si auto-finanzia un libro!

Ne parlo anche con un signore del mio paese che ha già pubblicato che mi assicura che gli editori solitamente non leggono e il fatto che la casa editrice mi abbia preso in considerazione è già importante. Mi dice inoltre che anche lui ha dovuto pagare per pubblicare, è la prassi. In fondo c’è sempre la pensione di mia nonna nel peggiore dei casi!Provo con Comune, Pro-loco, banche ed infine Coop per ottenere un finanziamento ma è tutto inutile e con il passare del tempo ho come la sensazione che il mio importante romanzo non sia neppure stato letto.

Rifletto se all’inizio della mia avventura come scrittore fosse stato questo quello che cercavo e mi accorgo che la strada intrapresa non ha nulla a che vedere con quello che avevo in mente.

Telefono a Sasha che mi è stato vicino in tutto il mio percorso e tra una birra e un’altra gli racconto la mia avventura.

Dopo una lunga chiacchierata mi alzo sbronzo ma stranamente con le idee più chiare circa il mio futuro.Intanto ho portato a compimento un altro romanzo che mi piace e mi ha fatto star bene nello scriverlo. Per ora non lo ha letto ancora nessuno ma credo che lo spedirò a qualche casa editrice… se non altro lo devo alla bottiglia di Brunello ingiustamente stappata che attende nel mio frigo.”

Simone Pazzaglia

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giovedì, 1 novembre 2007

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE (recensione di Andrea Di Consoli)

La barba lunga di Changez (il giovane protagonista del bellissimo romanzo del pakistano Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante) è il segno corporeo di una ritrovata unità culturale e sentimentale, ché quanto più il “giannizzero” Changez (buoni studi a New York, folgorante carriera nel mondo della finanza, rapido “congelamento” delle proprie origini pakistane) avverte il crollo di un mondo (attraverso il crollo simbolico delle Twin Towers) tanto più sente come una rifioritura fisica. Tutti i suoi colleghi americani (trendy, cool, rampanti, ragazzi giusti al posto giusto) sentono, da quel crollo in poi, che Changez, il numero uno tra i nuovi assunti, getta a terra la maschera del supercapitalismo, e questo li irrita, li rende diffidenti, così come sono diffidenti, gli Stati Uniti d’America, con tutti coloro (e sono milioni) che manifestano, nei gesti, nelle parole, nel corpo, un’altra cultura, un’altra visione del mondo, ché gli States accettano solo le culture “altre” pittoresche, depotenziate culturalmente e politicamente: le culture depotenziate e innocue, cioè, che avallano il mito della Grande Madre, delle Grandi Opportunità, della Multietnicità. Il “giannizzero” Changez, nonostante la giovane età, sente il richiamo delle origini, della famiglia, della propria casa, e questo richiamo (nostalgico, culturale, corporeo) gli rende insopportabili le conseguenze belliche dell’attacco alle Twin Towers. Da quel momento in poi la sua barba cresce, il suo volto diventa sempre più tormentato e misterioso (diventa, cioè, ingovernabile e in consumabile: insopportabile, in definitiva). Tutto questo spinge Changez a estreme conseguenze, ovvero alla decisione di abbandonare il lavoro, gli Stati Uniti e di ritornare a Lahore. Tutto è complicato dalla dolorosa storia d’amore che lega (o non lega) Changez a Erica, una ragazza americana psicotica, convinta che l’ex fidanzato morto sia ancora vivo (o, in qualche modo, incarnato nell’immagine di Changez). In una delle sequenze più belle e sconvolgenti del romanzo, Changez riesce a far l’amore con lei solo inscenando una finzione struggente, ovvero fingendosi l’ex fidanzato morto di Erica. In questa sequenza c’è il segreto del romanzo, perché Changez si riduce a ombra (a qualcosa che esiste soltanto in seconda battuta, come emanazione di un altro corpo), mentre Erica rappresenta un destino collettivo (il destino americano) proprio nella misura in cui non riesce più a vedere la realtà, ma solo ciò che è stato, solo il morto passato. Il fondamentalista riluttante è raccontato come un dialogo in cui si sente una sola voce (la voce di Changez a Lahore, che casualmente incontra un americano e gli racconta la sua storia: la storia, se vogliamo, di una conversione, di una presa d’atto, di una salvifica depressione). Changez diventa, a mano a mano che si procede nella lettura, un uomo consapevole della forza spirituale e “barbarica” della sua terra; un uomo, cioè, che non si capacita che una grande terra, una grande cultura, una grande tradizione sia stata ridotta (nella considerazione dei più) a un manipolo di lestofanti e terroristi. Forse è un fondamentalista anche lui, ma lo è nella misura in cui difende la dignità e la forza (e l’integrità) della sua personale tradizione. Non si tratta, com’è evidente, di criticare l’attuale “stato dell’unione” (siccome lo fanno tutti, risulta retorico) ma di guardare con rispetto e con attenzione ai sentimenti e ai pensieri di un popolo che ha bisogno di riscoprirsi e di accettarsi in una robusta tradizione, e non di essere rinsavito a colpi di mortaio. Nella barba di Changez non si nasconde oscurantismo, ma solo discendimento e catabasi verso il baricentro di un’anima individuale e collettiva. Ascoltare le parole di Changez è più utile di mille proclami opportunistici dei guerrafondai dell’Est e dell’Ovest.

Andrea Di Consoli

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Mohsin Hamid

Il fondamentalista riluttante

Einaudi – 134 pagine – 14,00 euro

Traduzione di Norman Gobetti

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Foto_andreaAndrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è stato finalista al premio Viareggio-Repàci.

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