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lunedì, 28 gennaio 2008

LA VITA INCAGLIATA di Attilio Del Giudice

Sull’onda del filone “letteratura e infanzia, letteratura e adolescenza”, affrontato anche in altri post (vedi qui, qui, qui e qui) ne approfitto per presentare un’ulteriore piccola casa editrice – la Leconte - e uno degli autori del suo catalogo. Si tratta di Attilio del Giudice (1935), casertano, che vive a Santa Marinella (Roma). Del Giudice è stato pittore e filmaker, ha militato nei gruppi d’avanguardia attivi nella ricerca visiva degli anni 70 e 80 (alcuni suoi filmati sono stati selezionati per l’Archivio Storico delle Arti Visive della Biennale di Venezia e sono stati oggetto di studio e di esami al Dams di Bologna e nel corso di Storia del Cinema presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste). Dopo le raccolte di racconti (Eventi Precipitati, Storie Terrestri e Non), è approdato al Romanzo nel 1998 con Morte di un Carabiniere (ed. Minimum Fax), ha pubblicato, poi, nel 2000 Città Amara (ed.Minimum Fax), nel 2004 Bloody Muzzare’ (ed.Leconte) e nel 2006 La Vita Incagliata (ed. Leconte).

Oggetto di questo post è, appunto, il suo romanzo più recente (La vita incagliata): il protagonista è un ragazzino del Sud, figlio di un camorrista. Ce ne fa cenno lo stesso Del Giudice, qui di seguito.

Seguiranno alcuni brani estratti dall’opera e una recensione di Sergio Sozi.

Considerati anche i precedenti post che hanno affrontato il tema letteratura e infanzia o letteratura e adolescenza ne approfitto per lanciare un dibattito collaterale a quello che avrà per oggetto questo libro.

Vi domando: fino a che punto la letteratura è in grado di cogliere il disagio di infanzie e adolescenze turbate, se non dilaniate, dalla ferocia di certi ambienti sociali?

(Massimo Maugeri)

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di Attilio del Giudice

Ho pubblicato La Vita Incagliata (ed. Leconte) nell’aprile del 2006, il romanzo, con una postfazione di Francesco Piccolo, è costituito da cinquantadue capitoletti. Qui, nello spazio, che Massimo Maugeri mi offre su Letteratitudine, ne propongo quattro, fra i primi. Spero che possano introdurre il mondo di Nino (il protagonista e narratore). Li faccio precedere da una breve nota, (fu richiesta dall’editore per un risvolto di copertina), che è, in qualche modo, una dichiarazione di intenti.

Caro lettore, forse, prima di acquistare e leggere questo libro, prima di fruire di una qualche qualità espressiva, vuoi sapere quali siano state le intenzioni dell’autore. Si sa che le intenzioni sono una piccola cosa fallibile e un romanzo, una volta scritto, aspira ad andare oltre e a camminare per conto suo, ma per quel po’ che possono valere, te le dico in due parole.Ho inteso parlare di un ragazzino di dieci anni e, attraverso il suo linguaggio,della sua condotta psicologica: le inquiete morbosità di adolescente, la levità, gli affanni; attraverso i suoi affetti e i suoi rapporti umani, ho inteso parlare di una comunità contadina, arcaica in alcuni riti e valori, ma brutalmente ammodernata dalla cultura del sopruso e della violenza. Un concentrato di drammatiche contraddizioni, un disagio nella vita civile che investe intere regioni del Mezzogiorno. Questo non era il mondo della mia infanzia lontana (altre, semmai, furono le lacerazioni), ma mi sono convinto che gli scrittori del Sud e anche i più umili facitori di storie non possono eluderlo, se vogliono rinforzare le esili e scabre ragioni della scrittura narrativa col peso della realtà e cercare l’incontro coi lettori su un terreno più sicuro.

a. d. g.

http://attiliodelgiudice.wordpress.com

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LA VITA INCAGLIATA

Maestre

1

Da dieci giorni abbiamo una nuova maestra. La nuova maestra parla tischitoschi, perché viene da una città dell’Alta Italia che si chiama Forlì, e tiene la faccia uguale uguale all’Arcangelo Gabriele che sta pittato nella chiesa di Santa Rita, subito entrando a destra.La nuova maestra ci ha detto che faceva giusto un anno da quando ammazzarono a Vincenzino Laquaglia e il fratello più grande nel bar California.

Vincenzino Laquaglia era un nostro compagno, un tipo vispo, che rideva sempre e faceva, di nascosto, le pernacchie al Signor Direttore.La nuova maestra ci ha detto che nessuno, delle otto persone che stavano nel bar California, ha dichiarato ai carabinieri di conoscere gli assassini e che noi dovevamo scrivere le nostre riflessioni.

Io ho fatto le riflessioni e poi ho scritto: “Chi sa, deve parlare! Se no, è scurnacchiato.”

Ho fatto subito subito, così, dopo, mi sono messo a penzare a lei, alla nuova maestra.

Io la penzo sempre alla nuova maestra. Per esempio, penzo che stiamo noi due soli in campagna, e io ci dico che mio padre ci dà un sacco di mazzate a mia madre. E quella volta che io ci ho detto a mio padre: “Mo la vuoi finire?” lui dicette che ci avevo mancato di rispetto e mi dette le cinghiate sulla schiena, che ne tengo ancora i segni.

Allora, la nuova maestra vuole vedere le cicatrici, io alzo la maglia e lei si mette a piangere e mi dà un sacco di baci dolci dolci.

Invece Michele, che è il mio compagno di banco, dice che la nuova maestra è troppo secca e che a lui ci piace di più la maestra che ci stava prima.

La maestra che ci stava prima era chiatta e gridava sempre e, quando si arrabbiava con uno di noi, si faceva rossa rossa e diceva: “Mo ci hai scassato a minchia!”Però a Michele ci piace di più la maestra che ci stava prima, perché, quando si sedeva, teneva sempre le cosce aperte, che si vedevano pure le mutande.

——

Panna e cioccolata 2

Oggi è morta la nonna. Ieri sera stava una bellezza, invece, stanotte, nel tramente che dormiva, è morta. La mamma se n’è accorta per prima che non respirava più. Poi è scesa per preparare la zuppa di latte, café e savoiardi per mio padre, che è venuto a mangiare in cucina. Mia mamma piangeva e ha detto a mio padre: “E’ morta tua madre”. Mio padre subito s’è incazzato: “E che maronna, me lo dici mo che sto mangiando?”“E quando te lo dovevo dire? Io mo me ne so’ accorta”.

Mio padre ha finito di corsa la zuppa e poi è andato a vedere.

Mia nonna teneva settantadue anni. Cioè, lei diceva che teneva settantadue anni, ma mia madre dice che ne teneva settantasette. Però era molto scetata, e pure che era sorda come una campana, capiva tutte le parole, guardando il movimento della bocca, quando uno parlava. E tutte le volte che mio padre bestemmiava la Madonna, lei diceva: “Statti zitto, disgraziato, che Dio un giorno o l’altro ti fulmina!”

Io me lo aspettavo che Dio lo fulminava e ci penzavo sempre, specialmente quando pioveva e c’erano lampi e tuoni.Però, secondo me, Dio s’era un poco distratto, perché a mio padre non lo fulminava mai. Invece fulminai a Carmelo Cantatore, che stava raccogliendo le zucchine sotto la pioggia, se no marcivano. Carmelo Cantatore era uno bravo, con gli occhi celesti celesti e quando vedeva a mio padre, diceva sempre: “Don Alfo’, servo vostro, a disposizione, a disposizione!” Poi ho visto nella televisione che hanno fatto una legge per un tipo inzisto, che pure se ha fatto qualche reato, non deve essere punito. Allora, ho penzato che pure in cielo avranno fatto una legge che i tipi inzisti non devono essere puniti.

Mio padre è un tipo inzisto. Anzi, mo ti conto il fatto di don Salvatore, così si capisce che mio padre è un tipo inzisto pure lui.

Don Salvatore tiene un bar in paese in via Caduti sul Lavoro, dove ci sta la saletta del biliardo. Io ci vado qualche volta e mi metto a guardare i giocatori di biliardo, perché mi piace assai e appena mi faccio grande, voglio diventare giocatore di biliardo.

Sabato scorso, a giocare, ci stavano Murrone ‘u zuoppo e don Nicola Tariello, che sono due campioni e, ogni tanto, si sfidano e una volta vince uno e una volta vince l’altro e chi perde deve pagare o un café o un sanbittér.

Io mi ero preso un gelato di cioccolato con due palline, quelle che si fanno con la macchinetta e ci avevo fatto mettere pure un poco di panna e mi stavo allicreando a leccare e a guardare la partita.

A un certo punto, Murrone ha fatto un tiro veramente super. A tre sponde, ha preso il filetto e ha lasciato le palle impallate, che era una cosa sopraffina. Io mi sono un poco piegato sul biliardo per vedere bene come stava messo il pallino. Allora, don Nicola ha detto: “Guaglio’, levati alloca!” Io subito ho ubbidito, ma, nel fare la mossa di scatto, mi è caduto mezzo gelato sul tavolo.

“Mannaggia, non l’ho fatta apposta” ho detto io. Però, quelli, i giocatori, si sono un poco incazzati e hanno chiamato a don Salvatore per fare pulire il panno verde.

Don Salvatore, quando ha visto che là stava tutto sporco di cioccolata, ha detto: “Guaglio’ vattenne se no ti piglio a calci in culo!”

Il fatto che don Salvatore mi voleva pigliare a calci in culo, io ce l’ho contato a mio padre. Laperlà mio padre non ha detto niente, però ha fatto quella faccia brutta che fa quando sta con la luna storta e se la piglia con mia madre. Il giorno dopo, a prima matina, mi ha detto:”Guaglio’, vestiti, che dobbiamo uscire!”

“Dove andate a quest’ora?” ha detto mia madre.

“Sono cazzi nostri!” ha detto mio padre.

E così siamo usciti, io e lui. Lui camminava veloce e io ogni tanto mi dovevo fare una corsetta, se no rimanevo indietro. Siamo andati al bar di don Salvatore che apre presto, pure la domenica.

Don Salvatore stava a lavare per terra con lo straccio. Appena ha visto a mio padre, ha detto: “Don Alfonso, che onore! In che cosa vi posso servire?”

Mio padre ha detto: “Dammi una marsala e un cono di gelato al cioccolato!”

Don Salvatore ha messo il bicchierino di marsala sul bancone e ha dato il gelato in mano a me, che me l’ho messo a lecca’. Mio padre si è bevuto il marsala in un solo sorzo e, poi, ha detto: “Aspetta, non mangiare, vieni con me!” Mi ha portato nella saletta del biliardo e ha detto: ”Metti il gelato qua!” Cioè che lo dovevo mettere proprio al centro, dove si mette il birillo rosso. Don Salvatore stava là a guardare, allora mio padre ha detto: “Salvato’, mio figlio ha inguacchiato il biliardo. Tu che vuoi fare? Lo vuoi prendere a calci in culo?”

“No, no, nonziamai! – Ha detto don Salvatore, che ha capito subito – Io non lo sapevo che era vostro figlio. Perlamorediddio!”Allora mio padre ci ha dato due schiaffi in faccia. Uno con la palma della mana e un altro, veloce veloce, con la mana smerza. “Questo ti serve come avvertimento! E mo inginocchiati!

”Don Salvatore si è messo a ridere, ma no assai, un poco poco.

“Don Alfo’, ve lo giuro…”

Don Salvatore si capiva che si stava cacando sotto, ma non si inginocchiava ancora. Mio padre, allora, ha inzistito e ha detto: “Inginocchiati, omm’e merda!”Allora don Salvatore si è inginocchiato.

“E mo – ha detto mio padre – leccami le scarpe!”

Don Salvatore ha alzato la testa. “Lecca, strunzo!”

Forse don Salvatore avrà penzato: “Evvabé, mo mi trovo.”

E, così, ha leccato tutte e due le scarpe di mio padre.

——

E come vi permettete?

5

Quando mia madre cucina i supplì di riso coi piselli dentro, e i crocché con la mozzarella di bufala dentro, allora si capisce che deve venire l’Onorevole. Perché, all’onorevole, i supplì e i crocché, come li fa mia madre, ci piaciono assaissimo.

L’Onorevole, quando viene, viene sempre di sera tardi, pure passata mezzanotte, certe volte. Arriva con la biemmevù blu, lucida lucida.

Con l’Onorevole viene pure uno, un poco tarchiato, che lo chiamano: “U’ ragioniere”, che porta le lente scure, che non se le leva mai, pure di notte.La machina la porta l’autista, Vittorio, che lo chiamano: “U Bambinello”. Però, non è bambinello, anzi è un pezzo d’uomo e tiene pure un poco di panza.Quando viene l’Onorevole, a me mi mandano a letto, pure se non me ne tiene. Mia madre porta la robba da mangiare nella sala da pranzo e, poi, se ne va a letto pure lei, perché quelli devono parlare di certi fatti importantissimi.

Vittorio, u’ Bambinello, no. Vittorio deve restare in machina a aspettare.P

erò, quando fa caldo, Vittorio si leva la giacchetta, che si vede il cinturone con la pistola e si mette a camminare sopra e sotto, e a parlare col cellulare, e a fumarsi le sigarette.

Mia madre, prima di coricarsi, ci porta pure a lui un piatto con quattro o cinque supplì e quattro o cinque crocché e una birra.

Una volta, io stavo nascosto dietro il muretto del terrazzo e loro non mi potevono vedere, io, però, li vedevo bene, perché c’era la luna.

Allora, mia madre teneva le mane impegnate, perché teneva il piatto in una mana e la birra nell’altra mana. “Questo è per voi!” dicette mia madre.

Bambinello, invece di prendere il piatto e la birra, mettette tutte e due le mane sul culo di mia madre. Mia madre si scanzò un poco e dicette: “Vitto’, e come vi permettete?”

Vittorio si mettette a ridere e dicette: “Angeli’, con voi nessuno può resistere!” Poi si pigliai il piatto e la birra.

Mia madre si fece una risella e dicette: “Non lo dovete fare più!”

U’ Bambinello prima si mettette a ridere e, poi, si mettette a muovere la lingua, come se se la voleva leccare tutta quanta a mia madre. Però lei non l’ha visto che faceva la mossa, perché già s’era girata per entrare in casa.

Io ho penzato che se ce lo dicevo a mio padre, mio padre lo sparava a Bambinello. Però, se ci dicevo che mia madre non s’era incazzata molto e s’era fatto una risella, lui sparava pure a mia madre. E se il fatto della risella, non ce lo dicevo, lui sparava a Bambinello, ma chi sa quanti pugni ci dava a mia madre, che non ci aveva detto niente a lui.

Perciò mi sono stato zitto.

——

Un ottimo lavoro

6

Ieri sera tardi sono venuti: l’Onorevole, il Ragioniere e Bambiniello.

A me già mi avevano mandato a letto. Però, invece di nascondermi dietro il muretto del terrazzo, mi sono nascosto nella scala interna, che tiene una finestrella con la grata di ferro, che affaccia nella camera da pranzo, così di giorno entra un po’ di luce nella scala.

Ho aspettato che mia madre se ne andava a letto e senza fare rumore, piano piano, so’ sceso. Loro: mio padre, l’Onorevole e il ragioniere si sono abbuffati di crocché e supplì e si sono bevuti un sacco di birre. Poi mio padre ha levato dal tavolo i piatti e le bottiglie. L’Onorevole ha detto: “Allora, Alfo’, il materiale ci sta o non ci sta?”

“Ci sta, ci sta!”- Ha detto mio padre.

“E, allora, vediamo di che si tratta.” – Ha detto l’Onorevole.

Mio padre ha cacciato una chiave e ha aperto un armadietto, dove sopra ci sta il compactdisco, e ha preso un borza. Si è seduto, ha aperta la borza, che si apre coi numeri, e ha cacciato una busta rossa.“

Ecco il materiale!” – ha detto.

L’Onorevole ha aperto la busta e ha cacciato un sacco di fotografie. Si è messo gli occhiali e, appena ha cominciato a vedere le fotografie, ha detto: “Azzò! E questa, secondo me, non è ancora mestuata!”

Io questa parola non la so, però così ha detto. Sono sicuro, perché mio padre e il ragioniere parlano che si capisce e non si capisce, invece l’Onorevole parla forte, perché lui è abituato a fare i comizi in piazza e si capisce ogni parola.

“E qua – ha detto – si vede bene pure la penetrazione. Alfo’, questa quanti anni potrà avere?”

“Tredici, quattordici al massimo.”

“Noo! – Ha detto l’Onorevole – Quattordici non li tiene, e, forse, nemmeno tredici.”

Il Ragioniere si è andato a mettere dietro all’Onorevole, per vedere bene pure lui e ha detto: “Però, Onore’, a onor del vero, tiene nu bellu culillo!”

“Ah, su questo non ci sono dubbi. E’ invitante.”Allora si sono messi a ridere tutti e tre. Poi si sono messi a vedere le altre fotografie e, ogni tanto, dicevano: “Azzo!”

“E noi – Ha detto l’Onorevole – con questa robba lo teniamo in pugno, lo incastriamo una volta per sempre”.

Pareva contento l’Onorevole e ci ha detto a mio padre: “Bravo! Bravo Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro!”

Si vedeva che pure mio padre era contento.

Mio padre all’onorevole ci porta rispetto. L’Onorevole ci dice a mio padre: “Mi raccomando, Alfo’, non fare cazzate!” E mio padre non si incazza e ride un poco e risponne: “Non vi preoccupate, Onore’, state tranquillo!” Dice così, perché ci porta rispetto. Però, questa volta, l’Onorevole non ci ha detto:” Non fare cazzate!” ma ci ha detto: “Bravo, Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro, così il fetente sta in mano nostra completamente e senza spargimento di sangue.

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Modeste glosse a La vita incagliata di Attilio del Giudice (Leconte, Roma 2006)

di Sergio Sozi

Di questi tempi, leggere la nuova narrativa italiana è come fare una scelta di campo, soprattutto dal punto di vista linguistico: o con l’abusato, sciatto, impersonale italiano medio di molti, o nelle intricate vie lessicali dei realisti – o di chi al realismo s’ispira in un modo o nell’altro. Pochi autori stanno fuori da questi due schieramenti o dimostrano acume interpretativo, pur restando nei ”correntoni” attuali.Dunque, sarà perché il sottoscritto (almeno come narratore) non riesce a soggiacere a questa banale miseria generalizzata; sarà per via di una simpatia istintiva che queste pagine inducono in me; o forse sarà a causa della mia convinzione secondo cui ogni opera contemporanea debba esser vagliata alla luce della Storia Letteraria italiana. Ne sia quel che ne sia il motivo di fondo, credo di non dire una sciocchezza a cuor leggero se ora dichiarerò la riuscita operazione drammaturgico-letteraria consistente nella quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice, scrittore casertano prima in forza alla casa editrice romana Minimum Fax e ora pubblicato dalla, sempre capitolina, Leconte. E come mai rappresenterebbe un’operazione drammaturgico-letteraria, questo La vita incagliata? Diversi sono i motivi per vederlo cosí: l’aspetto drammaturgico sono i capitoli-sequenza, scritti nel proprio diario dalla voce narrante, il bambino campano Nino: dei quadretti di quotidiana sopravvivenza che tanto ci rimandano visivamente al neorealismo di Pasolini. L’aspetto strettamente letterario è l’accuratezza della scrittura, poiché resta chiara l’elaborazione letteraria dei termini dialettali campani, trascritti con le giuste regole segniche dell’elisione eccetera. Le forme espressive dialettali (largo uso dell’erroneo ausiliare ”avere”, del pronome personale ”ci” per ”gli”, ecc.) sono veraci e credibili. Nel complesso ne risulta un italiano esteticamente vicino a quello di Gadda e Camilleri – mutatis mutandis naturalmente.

Ma il vero lato interessante di questa tristissima e commovente storia risiede nella violenza della quale è intrisa la vita di Nino, nove anni d’età (un bambino che sarebbe l’alter ego di Giamburrasca – tanto egli resta scanzonato e puro – se non gli fosse toccata la malaugurata sorte di aver un padre brutale e delinquente in un’Italia del Sud tremendamente novimillenaria): la violenza e le connesse perversioni qui divengono quasi una pagana accettazione della bruttura moderna, quasi come se l’incontro con uno schifoso riccone pedofilo (Al Mitreo, p. 67) fosse la rievocazione di un rito, appunto, concernente il dio Mitra. Il fondamentale particolare che, però, priva di fascino mitico la violenza serpeggiante in primo piano nel corpo di questi racconti, sta nella deficiente intelligenza del mondo in cui Nino, anima candidissima, nuota senza provarne disgusto: una provincia ottusamente autoreferenziale (direi autistica), depressa e affamata di spersonalizzazione e denaro, una provincia che non vede l’ora di dimenticare qualsiasi propria origine antica per buttarsi anima e corpo nella pomposa straniazione filo-americana. Niente di diverso rispetto alla provincia lombarda, umbra o sarda, dopotutto. Dunque niente di nuovo rispetto all’Italia post-bellica: violenza, sradicamento e solitudine di massa.

Dunque, in questo senso, La vita incagliata non straborda, per fortuna sua, nel mero ritratto della decadenza, processo spirituale e storico che purtroppo vediamo anche senza andarci a leggere dei libri che lo descrivano; appunto, il neorealismo che ne costituisce le fondamenta evita di cadere nella trappola dell’esagerazione e dell’iperbole ma ricorre piuttosto (secondo me salvificamente) alla letteraria tenerezza, alla poetica dolcezza con le quali Nino acquisisce il suo vero volto spirituale: quello, all’apparenza neutro come un foglio di carta bianco, che ci offre la soluzione per i mali italiani profondi e piú labirintici: resistere dentro, solo dentro di noi – nel limbo della nostra complessa, atavica semplicità – a questa brutale privazione del vissuto collettivo che ci costringe a rinunciare alla cura dell’infanzia (soprattutto a quella che abbiamo sempre viva nel cuore) in favore di una stonata idea della vita adulta.

E un indiretto manifesto della malsana crescita (degli altri, di molti altri italiani), questo romanzo-centonovelle dipinge, a veder bene, per mezzo della buona crescita che (alla faccia delle circostanze aberranti) il nostro Nino forse avrà. Anzi che sicuramente avrà, sempre che riesca a sopravvivere al padre insanus senex da cui è maltrattato e agli altri stolti. Molto plausibilmente noi tutti, gli adulti. Adulti solo nell’egoismo e nell’inciviltà.

Sergio Sozi

Pubblicato in RITORNO AI CLASSICI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   177 commenti »

sabato, 1 dicembre 2007

EH… QUANDO C’ERA LUI! (di Sergio Sozi)

Vi è capitato mai di assistere a “scenette” divertenti o tragiche o grottesche o paradossali mentre eravate in fila in banca o alla posta? Sicuramente sì.

Bene! Vi invito a raccontare qui i vostri aneddoti “da coda”. Lo spunto ce lo offre l’incipit di questo inedito di Sergio Sozi (nella foto) che ho il piacere di proporvi.

Sozi è l’autore della raccolta “Il maniaco e altri racconti” (ne avevamo già parlato qui e qui).

Leggete il racconto e commentatelo. Poi raccontate i vostri aneddoti “da coda”.

Non ne avete? Inventateli!

A volte la fantasia è così ricca che diventa più vera della realtà.

Massimo Maugeri

P.S. Si precisa che il racconto che segue non è “integrale”, ma uno stralcio abbondante.

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A Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (in memoriam)

Quando in banca si radunano i vecchietti che depositano le pensioni ritirate la mattina stessa alle Poste, si forma un assembramento paro paro a quello dantesco sulla riva dell’Acheronte, soltanto più loquace: tra malanni sempre incurabili, nipoti sempre degeneri, sciagure stradali e varianti di queste amenità, potremmo affermare l’assoluta salubrità della narrativa orale contemporanea. Peccato che spesso, in siffatte occasioni, manchino le qualificate orecchie di un qualche scrittore per trascrivere il tutto e così smentire platealmente quei critici letterari, inveterati pessimisti, affermanti il disfacimento del romanzo moderno.

Il giorno sedici dicembre del Duemilaotto, però, verso mezzogiorno, Euterpe Santonastasio non è che si divertisse troppo a seguire la borbottante fila del Credito Nazionale, nonostante l’acida vedova dietro a lui e relativa giovane accompagnatrice:

<<Mamma… hai preso le pillole verdi e gialle delle undici?>>

<<Quelle rosse e blu, intendi, vero? Sì le ho prese, anche se sono affari miei.>>

<<No, mamma: alle undici ti toccano quelle verdi e gialle. Le altre dopo pranzo. Va be’: per oggi invertiremo l’ordine, ma non ti ci abituare, che fa male.>> E la scruta con severità.

<<Invece mi fa bene portare a spasso i tuoi figli mentre stai in ufficio tutti i santi giorni, domenica compresa.>>

<<Ti sei offerta tu…>>

<<Che diavolo c’entra: un tempo mi offrivo spesso anche a tuo padre, la sera, ma questo mica voleva dire che poi fossi obbligata a restare incinta ogni nove mesi!>>

<<Paragone insostenibile, mamma.>>

<<Direi che qui d’insostenibile ci siano i tuoi tre divorzi con quattro figli a tuo carico. Oops! Scusa: a mio carico.>>

Santonastasio, i bimbi li considera un po’ oleograficamente quasi partoriti dalle cicogne o dai cavoli a primavera, dunque si guarda bene dal mettere il dito nella piaga delle due donne, sebbene immaginiamo quanto dentro di sé si divida fra il sorriso e la riprovazione. A complicare la faccenda ci pensa invece lo scheletrico matusalemme che lo precede nella coda, uno dall’evidente accento laziale:

<<Bella famigliola, non c’è che dire!>> Altisòna costui con uno sguardo neronero come neanche Ulisse mentre infilzava i Proci. Mezzo branco si volta e, tacendo ovviamente il bersaglio di tale commento, una nervosa tizia sugli ottanta chili alza la mano in stile declamatorio (Augusto in cotta d’arme alla plebe) e, alle spalle delle due incriminate, scandisce:

<<Ha parlato sant’Ignazio di Loyola. Ma torna a zappare, che ancora mando i soldi ogni mese ai tuoi figli, fallito!>>

<<Questi sono affari privàti.>> Replica lo sdentato laziale alzando minacciosamente il bastone.

<<Privàti un corno.>> La voce maschile proviene da qualche indefinibile punto della ressa, verso la porta d’ingresso della banca. <<Lo sanno tutti nel palazzo che avete otto creature date in adozione da Palermo a Milanomarittima! Vergogna!>>

<<A Milanomarittima>> dice tempestivamente un altro uomo <<io ci butterei te agganciato ad un siluro. Così magari vai a far compagnia agli albanesi che non s’aspettano altre sventure. Pensa piuttosto a pagare il condominio.>>

Una palla di carta vola fino a colpire la spalla destra di Santonastasio: <<Tié!>> enuncia in perfetto calabrese l’ugola della distante lanciatrice <<prenditi anche la mia pensione, Carlo Poropat! Basta che la pianti di scassare la macchina di mia figlia ogni volta che parcheggi.>>

<<Ma fammi il piacere, pazza da legare: io le macchine dei terroni manco le sfioro, che m’inquinano l’anima al solo vederle.>>

<<Bello tu, invece: spècchiati!>> Osserva chissà chi nella fila affianco, quella dove si nota una maggior presenza di clienti in età da matrimonio. La voce è triestina, giovanile e muliebre, e starebbe per continuare con qualche ulteriore particolare descrittivo non troppo edificante, ma viene interrotta da un vero e proprio ultimatum:

<<Egregi signori… Ecco: adesso che vi siete sfogati tutti, alzate le mani e chiudete le gentili fauci, per favore.>>

La accompagna un’indiscutibile bocca di fuoco détta pistola a tamburo, levata al soffitto come la torcia di un tedòforo.

Primo capitolo

<<E questo cosa cavolo c’entra, scusi?>> Ardisce comunque polemizzare un incosciente tizio da un altro angolo della vasta sala.

Un qualche brusio di ghignate serpeggia tra la folla, oramai in procinto di far mente locale sebbene ancor divertita da tal insperato carosello – tipica doppiezza italiana ironico-drammatica.

<<Il mio collega c’entra perché entrambi vorremmo rapinare questa banca. E se non ve ne state quieti un attimo, mi sa che butto la bomba.>> Precisa timidamente un’ennesima lingua maschile. Questa volta gli si fa il vuoto attorno, poiché costui agita una borsa nera ben poco promettente.

Quindi salta su una giunonica babbiona ingioiellata che recita trionfante: <<Bravi! Portategli via tutto, a ’sti ladri di banchieri!>>

Il rapinatore cólla pistola la abbassa involontariamente ad altezza d’uomo; ha l’aspetto d’un coleottero: secco inguastito e mezzo curvo, moro ardesia tinto; età apparente, oltre i sessant’anni. E tace. Il suo compagno, all’incirca coetaneo, posa la borsaccia letale davanti a sé e intanto commenta: <<Un po’ di contegno, per Dio…>> È meno esile di corporatura, anzi si direbbe ben in carne, ma flebile nel tono vocale.

Lo smilzo ha un baritonale sussulto di realismo e <<Strani questi signori>> commenta. <<Abbiamo detto mani in alto!>> Non arriva ad urlare per pochi decibel.

Finalmente si vede un’alberaglia di dita artritiche, incomplete, pingui, insomma multiformi ma comunque tese verso il soffitto. Il magro pistoluto si appressa allo sportello, dove una piacente cassiera ha appena smesso di scrivere qualcosa su di un foglio, e constata:

<<Stavolta attingo alle pensioni di tutti quanti e pure alle non-pensioni, purché in contanti. Sia così gentile da sistemare le banconote in questa busta sùbito, altrimenti il mio compagno farà esplodere la bomba che ha nella borsa, o io, diciamo, scusi la volgarità, manderò all’Oltretomba qualche osso da sepoltura fra i quippresenti.>> Poi, rivolto all’altro che gli sta vicino, sottovoce: <<Fai mettere tutti costoro a sedere, Aligio: non vedi che stanno scomodi?>>

<<Giusto.>> Osserva il cicciottello. <<Abbiate la compiacenza di accovacciarvi, signori.>>

<<Che? Non si capisce un’acca quaggiù!>> Replica la matrona ingioiellata di prima con accento un po’ meno gaudente ma sempre altero.

<<Uff… Mentre svaligiamo la banca, ci piacerebbe vedervi seduti, dice il collega!>> Ripete il ciccio oscillando la borsa senza volere. Ognuno si accuccia. Sporadiche chiacchierette quasi inavvertibili.

<<Aligio: io ho da fare qui allo sportello… ti prego: dì loro di piantarla con le grane, che abbiamo fretta. Magari… ecco: intrattienili con qualche facezia orrorifica e intanto fatti consegnare il… valsente che hanno in tasca, eccetera eccetera: ori, preziosi…>>

Aligio si volta e, vista la platea seduta: <<La sapete quella storia che avvenne, nella notte dei tempi, in un bosco qui vicino? In… Istria?!>> Quasi balbetta.

Silenzio glaciale. Poi uno suggerisce: <<La storia di Casimiro della Torre, dice?>>

<<Casimiro… hem… un attimo, scusi.>> Replica Aligio nell’avvicinarsi all’altro bandito, in piena riscossione, così chiedendogli ansiosamente: <<Che accipicchia ne so, io? Dimmi Favonio: c’è una tradizione locale su tal Casimiro?>>

<<Cosa vogliono?!>> sussurra acido il pistoluto in risposta <<Cappuccetto rosso andrà benissimo. E non chiamarmi per nome, ch’è sconveniente se nessuno ci ha presentati ufficialmente. Ti sei rimbecillito, Aligio? Vogliamo far la figura dei cafoni?>> Poi, rivolto a tutti, prosegue un po’ rude: <<Facciamola breve: zitti e mosca! La pazienza ha un limite. Io incasso e lorsignori godranno della fiaba di Cappuccetto rosso secondo quanto tramandato dai fratelli Grimm. O Andersen, o Calvino. Perrault magari.>>

<<Sì… Mamma oca!>> Provoca un impertinente in sala.

<<Si qualifichi!>> Riponde piccato Favonio il magro.

<<Voglio dire:>> prosegue il provocatore <<sono cinque minuti abbondanti che rapinate. Non sarebbe meglio sbrigarsi? Parlo da addetto ai lavori.>> Si tratta della voce raucosmollata del nostro ex carabiniere. Qualcuno se la ride sottoibaffi. <<Oltretutto…>> continua Euterpe <<…alla vostra età…>>

<<Alla NOSTRA età>> constata Favonio <<mica tutti si rassegnano a crepare con stretto fra i denti (finti) l’ultimo assegno di quiescenza, caro l’amico mio.>>

<<Ma io quello lo conosco,>> interloquisce serio serio uno stravecchissimo seduto ad un paio di metri da Favonio e Aligio, <<è il poeta! Il professor Favonio de Brutti! Come sta la signora, commendatore barone, tutti bene a casa?>>

Un buonumore stravolgente, presa la bocca dello stomaco a ognuno dei presenti, erutta fuoricontrollo, contagiando persino la cassiera piacente. ”Settanta persone che ridono in banca: roba mai vista! Vediamo come faranno a rimettere la situazione nei binari della storia poliziesca.” Medita Santonastasio, il quale comunque si associa di buon grado al delirio senil-collettivo.

Il menzionato commendatore barone, nel diluvio degli scompisciamenti, prende per il collo Aligio e lo sprona: <<Non dovevi pensare tu alle tasche dei clienti? Che razza di consuocero sei, fannullone e debole di carattere!? Io debbo sparecchiare gli uffici e la cassaforte, a te sta il controllo della guardia giurata e della plebe. Oltretutto la guardia oggi manco c’è, vedi che fortuna? Avanti: appoggia la borsa con l’ordigno su quel bancone>> ed indica la cassa numero uno vicino a sé <<e passa fra ’sti rincretiniti a ripulirli. Intanto vai con Cappuccetto rosso: e sii crudele con il lupo, capito? Viviamo nel ventunesimo secolo, ragazzo!>> L’altro, diligentemente, sbatte senza troppi complimenti la valigetta ove indicatogli.

Secondo capitolo

Sedatosi spontaneamente il tumulto, anzi diremmo l’ilarociclone: <<Mo’ basta! Consegnate tutto quel che avete al mio amico e con sveltezza!>> Proclama il segaligno nobiluomo mentre si affaccenda alla cassa numero due. Aligio inizia dunque a ritirare borsellini, orologi e gioie. Suda con costanza da quando son cominciate le danze e, impacciato com’è, deve costargli molto abbassarsi e alzarsi di continuo e al contempo parlare:

<<Grazie, signora: Dio glie ne renda merito.>> Farfuglia ad una specie di rancida famfatàl, mentre insacca un paio di anelloni zingareschi; <<Scusi, eh…>> Si giustifica agli occhi di un trippone incravattato dall’aria ingegnerile; <<Molto obbligato.>> Ringrazia dimessamente un tizio antipatico sulla trentina per il portafogli. E via dicendo.

<<Lenti come i treni delle Effeesse. Secondo me finite al Coroneo.>> C’è bisogno di commento? Questa è la raucedine bassa e obliqua del nostro capitàno in congedo!

<<Dove finiamo??>> Rimanda il ciccio bloccando a mezz’aria una catenina di similoro.

<<Stiamo freschi: il carcere di Trieste. Almeno ci intrattenga come promesso, no? Che, tiene le corde vocali malate, rapinato’?>>

<<Rapinatore sarà lei. Io ho la laurea in Lettere. C’era una volta, in una solitaria casetta incatramata di rosso e con le piastrelle rosse sul tetto a capanna – mentre invece… uff!… l’unico comignolo era gialloinvidia…>>

<<Ma solo le rapine, è capace a fare, scusi, lei.>> Lo interrompe Santonastasio con tono di constatazione tecnica: <<Dove stanno mai i catrami rossi… e le piastrelle sui tetti a doppio spiovente. Se desidera elargirci un sottofondo musicale come quello degli ascensori amerrecani lasci perdere: io sto meglio in silenzio, mentre perdo la pensione. La laurea all’università della terza età non conta, durante un delitto che sia un evento speciale, elegante e fatto comesideve, mi consenta. Sforzi la fantasia, su.>>

<<Bravo!>> Si associa una signora nella calca che, repentina quanto un lampo, si alza e acchiappa la borsabomba del dinamitardo, levandola a due mani sopra di sé. <<Dài, delinquente: prova a prenderlo, il tuo tritolo!>> E la passa a un signore, che agilmente la dà indietro a un altro e via di séguito, senza pausa.

<<Macché siete matti?! Fermi! Boni, state bboni! Mi sgualcite la cartella di papà…>>

<<Ah! Ah!>> Ironizza una ragazzotta. <<Rischia di fare il botto con noi e pensa alla borsa. Apriamola, forza!>> E se la fa passare senza curarsi dei tentativi di Aligio, il quale goffamente tenta d’intercettare l’oggetto investendo senza risultati – patapùmfete! – qualcuno di a lei distante.

Aligio, a terra bocconi, con il sacco della refurtiva semivuoto stretto nella mano destra e orecchini, brillanti, segnatempo e braccialetti sparsi a corona d’intorno, accenna un moto di pianto: <<Però… la pistola di Favonio, il professor de Brutti, è caricata con pallottole vere, capito, maramaldi, dispettosacci?! E ridatemela, sennò lo chiamo e quello vi spara di sicuro.>>

Invece la valigetta in cuoio, nera, piena strabordante di qualcosa d’inusuale, viene sottoposta all’impietoso vaglio della ragazzotta triestina che l’ha catturata:

<<Ma… queste sono… cambiali!>> E le estrae ad una ad una sparpagliandole, fra lo sbigottito silenzio del cronicario. <<Tutte a suo nome: c’è scritto Aligio Carmentieri di Quintavalle. È lei, no?>>

<<L’ultimo principe di Quintavalle, così brutto?>> Infierisce bonariamente una anziana piccoloborghese forse napoletana. <<Mi ricordo quando, nel Sessantatré, sposò la figlia del re di Danimarca… come si chiamava…>>

<<D’accordo: lasci stare.>> Echeggia un’anima pia.

L’uomo intanto tace, col muso stretto fra dieci polposi ditini e sempre all’in giù, pavimentobaciante.

<<Signore e signori,>> continua la ragazza <<osservino: seicentodieci euro… trecentotré… milleottanta. E… Oddio…>> e rovescia un mare di foglietti vuotando la borsa. <<Con chi ha lei questi debiti? Non sarà mica proprio questa banca?>> Sarà stata almeno una mezza migliaiata di pagherò.

<<Con me. Soddisfatta la vostra curiosità da rotocalco? E adesso basta con gli scherzi.>> La tenorile, perfida voce di Favonio de Brutti convinse ciascuno. Teneva in una mano una busta per l’immondizia colma di biglietti di banca e nell’altra la rivoltella, provenendo dagli uffici che stanno sul retro. Poi cambia registro: <<Sursum corda, gentili signore e onorevoli signori: aiutate Aligio a raccogliere il bottino in quattro e quattr’otto e pensate che il mio povero compare nonché consuocero, grazie a questo audace colpo, conserverà intatte le proprietà ipotecate. Io, d’altro canto, con questi soldi potrò a malapena pagare a questa banca i miei debiti. Tutto viene e tutto torna agli istituti di credito, in Italia: la patria degli strozzini.>> Altro divertito cicaleccio in sala, sempre sotterraneo.

<<Però… i debiti li avete fatti voi. Se aveste speso meno… eh… I lussi costano.>> Osserva Santonastasio, il quale, pur non disdegnando qualche arretrato conticino, aborra gli oneri finanziari veri e propri.

A tale rimprovero, Aligio rialza la testa: <<Mica giochiamo a carte come i nostri progenitori, noi!>> Contesta lamentosamente ad Euterpe, mentre il pubblico impietrisce. <<Ci hanno mangiato tutto gli industrialotti dopo la guerra. La Prima dico. Verso il Ventinove. Be’: non proprio tutto… almeno la metà.>>

<<Ciò non spiega un cappero verdeverde: come mai state in queste condizioni?>> Rilancia una spietata pugliese con occhiali alla Wertmüller e un terzo dell’età apparente di quest’ultima.

<<Avete mai sentito che un poeta latino o greco abbia vangato i campi per obbligo e non per semplice mantenimento del vigore fisico?>> Provoca altezzosamente il commendator Favonio, posando il sacco a terra. <<No, vero? Ebbene: noi due, pur avendo prole e moglie, abbiamo scommesso la testa sulla letteratura: sono trent’anni che siamo costretti a scrivere gratis su tutti i giornali italiani – e i periodici, eccetera. È il nostro unico lavoro ma nessuno ci dà un soldo, perché la gente pensa: questo, se mette l’ingegno nello scrivere e basta, vuol dire che è ricco sfondato, mica lo vado a pagare, fossi scemo. Dunque, finché ci siamo potuti mantenere coi possedimenti – e noi i lavoranti dei campi li paghiamo, sapete? – la cosa è andata. Poi… Aligio s’è indebitato con me, che ho qualche ettaro in più di lui ed io, senza mai dirgli niente per non preoccuparlo, ho cominciato a prendere soldi da questa benedetta banca. Ma non abbiamo mai, dico mai, licenziato un contadino e mai abbiamo sgarrato di un centesimo di lira dalla paga sindacale… anzi… più che sindacale, di solito. Oltre il massimo, vanno pagati coloro che ci nutrono a forza di braccia!>>

Si leva qualche timido applauso. Un decrepito occhialuto però non concorda affatto: <<Ma non li vedete i nostri figli, voi signorotti decaduti che vi permettete anche di rapinare le banche? Che valore hanno, per voi, i figli della gente comune che devono rassegnarsi ad un lavoro alienante e opprimente, senz’altra prospettiva se non quella di sprecare il fior fiore degli anni dentro un ufficio moderno con le luci al neon, in una orrenda città come la nostra Trieste o anche Roma, Napoli, Milano? Noi piccoloborghesi, oggi, riempiamo di menti sfruttate i palazzoni delle periferie italiane, non voi scrittori e aristocratici. Sia ben chiaro. Noi diamo la carne a macellai bancari e speculatori borsisti. L’alta finanza si nutre del sangue nostro.>>

<<E perché non vi ribellate, allora? Perché accettate…>> replica con calore Favonio de Brutti, incurante d’uno strano brusio <<… Perchè accettate meschinamente il lavoro nero e le paghe inadeguate, la vita assurda, blindata, che siete costretti a portare avanti nelle vostre città o nei vostri paesi delinquenziali e mafiosoidi? Unitevi e chiedete giustizia, no? Siete il popolo! La democrazia l’avete fatta voi, o almeno la godete ora voi, dopo che i partigiani ci hanno lasciato la pelle negli anni Quaranta. E vi ritrovate ancora nel Duemilaotto a far la solita figura dei borghesucci ottusi ognun per sé e Dio per tutti! Suvvia! Se è vero – ma mica troppo, eh! – che noi aristocratici siamo tutt’ora dei privilegiati, voi restate le teste di legno che eravate duecent’anni fa. Voi non meritate la democrazia. Anzi: tutti noi italiani non la meritiamo, perché siamo degli immaturi e degli egocentrici, dei burini infantili che abbisognano della frusta e delle minacce per rispettare la cosa pubblica. Siamo dei sottosviluppati europei. E pensare che l’Europa l’avremmo fatta noi con le mani dei nostri antenati! Eppoi l’abbiamo svenduta: ai diavoli americanacci che abbiamo dentro di noi, alla sete di commercio di noi stessi, all’istinto autodistruttivo e decadente che ci propone il sangue del nostro sangue antico, eterno.>>

<<Eh… Quando c’era Lui!>> Ammette con sincerità un ragazzo moro sulla ventina scarsa con accento lombardo e naso a promontorio.

<<E che, pensi che il Duce potesse contrastare da solo la nostra bastardaggine? In vent’anni mica si dànno antidoti sufficienti allo scorrere dell’anarchia, sai, giovincello? Ne servono almeno sessanta, come in Iugoslavia. Anzi no… forse ne servirebbero duecento… mille, di anni.>> Risponde Favonio de Brutti pacatamente.

<<Serve un solo principe illuminato e filosofo, credetemi.>> Vedete? È Santonastasio. <<Anzi, preciserei: urgerebbe qualche dio che concedesse le condizioni terrene acché un filosofo illuminato oggi potesse riportare noi italiani ad un regime di condotta complessiva – morale, fisica, intellettiva, onirica – quale esso era nella latinità dell’epoca monarchica. Ma.>> E l’ex milite fa una pausa significativa. <<Ma adesso bisogna risolvere questo macello: scusate… Vedo i miei colleghi fuori dalla porta della banca. Siamo circondati, immagino.>>

<<I… suoi colleghi?>> Interviene Aligio con evidente maremoto di sudore.

<<Ex colleghi: sto in pensione. Carabiniere a riposo.>>

<<Ah… grazie: li ha chiamati lei col telefonino.>> Insinua gaudendo la matrona ingioiellata.

<<Il telefonino io non lo tengo, draga gospà.>>

<<Drago femmina a me? Screanzato. E chi gospò: io non ho mai gospato.>>

<<In sloveno vuol dire cara signora.>> Precisa Euterpe.

<<Scusate>> s’intromette Favonio tesuccio <<ho inteso male o siamo accerchiati dai tutori dell’ordine?>>

Alla conferma collettiva – un annuimento – dei settantaerotti clienti, lo stesso Favonio gesticola senza risparmiar fiato: <<Controlla le porte, Aligio! Serra tutto. Entriamo nella pellicola merrecana!>> Esplode.

Terzo capitolo

<<Ma non poteva tenerla per sé, ’sta notizia?>> Sussurra un tizio sveglio ad Euterpe. <<Così i rapinatori sarebbero usciti e i carabinieri li avrebbero beccati in un soffio, no? Invece adesso… questi due suonati ci prendono in ostaggio. E finisce a carneficina.>>

<<Ué, Apocalisse: ma li ha visti in faccia? Questa è gente da Monte di Pietà, altro che sangue. Non si preoccupi. Meglio tenere sotto controllo la polizia.>> bisbiglia Santonastasio. Intanto, dai finestroni della banca, si intravvedono i movimenti sulla strada: tante logore fisionomie da sbirri in borghese e mucchi di autocivette blindate. ”Con il solo loro nervosismo, innescherebbero una carica di plastico da un chilometro… altro che prudenti agguati.” Pensa ancora il Nostro.

<<È tutto chiuso?>> Domanda Favonio al consuocero, ricevendone un immediato annuimento. Entrambi stanno posizionati in piedi, Favonio l’arma in mano, al centro della vasta sala: come degli scalcinati guitti, fra i titubanti spettatori di un teatrino parrocchiale che attendono la prima battuta per fischiarli a ragion veduta. Un troppo indifferente silenzio regna nell’ambiente per qualche striminzito secondo, finché il direttore del Credito Nazionale non chiede: <<Allora?>>

A trovare il coraggio per una risposta è il solito Favonio dal barocco eloquio:

<<Quantunque l’imprevisto ci ponga un po’ in difficoltà, io direi che… eh… come fare altrimenti? Dovremo presto comunicare telefonicamente con quei signori là fuori, spiegando che adesso siete tutti sotto la minaccia di questa pistola. Lei cosa farebbe nei miei panni, direttore?>> Adesso suda anche lui.

<<Io avrei evitato di ridicolizzarmi.>> Replica Euterpe al posto dell’interpellato. <<Cosa crede di trarre da un rapimento a scopo di rapina fatto così – scusi – coi piedi? E anche se riusciste (per assurdo) a filarvela senza farvi bucherellare dai tiratori scelti dell’Arma, rifletta: sappiamo tutti come vi chiamate… mica crederete di andare a godervi i soldi a Cuba come negli anni Settanta.>>

<<Ha ragione lui, Favonio.>> Ammette Aligio guardando il collega per la prima volta dritto negli occhi. <<Diglielo, su… è meglio che sappiano tutto tutti, a questo punto: se no qui finisce in tragedia.>>

<<D’accordo, Aligio. Dopo però, cioè entro un minuto, dobbiamo chiamare la polizia prima che decida di entrare a forza. Ecco, signore e signori…>> Tituba cercando di organizzare i pensieri. <<Devo confessare che quanto avete capito della nostra situazione patrimoniale, del nostro esser pensionati come voi e del fatto che non faremmo male a una mosca è tutto vero… eccetto un particolare, che vi rivelerò solo se prometterete di aiutarci a risolvere insieme la situazione con il minimo danno per tutti quanti. Coraggio, esprimetevi, che il tempo scarseggia. Proponete delle soluzioni.>>

<<Soluzioni?>> Commenta acida una trentenne. <<A noi, le chiede? Ma vada a quel paese, imbecille! In galera, dovete finire voi. Bravo chi è riuscito ad avvisare la polizia di nascosto.>>

<<Bravo un corno: se la cosiddetta rapina fosse riuscita, i miei colleghi, tempo ventiquattr’ore, avrebbero recuperato il maltolto e arrestato i colpevoli… per quanto colpevole possa considerarsi questo sudaticcio resto di nobiltà.>> discorda Santonastasio, che non s’era perduto un fotogramma della scena, cogliendo la nera disperazione dei due improvvisati delinquenti. <<Piuttosto, oramai che lo scemo zelante ha fatto il casino, cerchiamo di porgere una mano a ’sta coppia di sprovveduti senza rimettere un soldo di tasca nostra. Io avrei un’ideuzza.>>

<<Sì>> lo scongiura il ciccioprincipe Aligio <<Faccia presto.>>

<<È semplice ma dobbiamo impegnarci tutti, impiegati compresi. Chiaro?>> Puntualizza Euterpe, pertanto distraendo l’uditorio dalla sconvolgente rivelazione che i banditi erano in procinto di fare.

<<Non so… sentiamo.>> Temporeggia il direttore. Il pubblico sembra, in buona maggioranza, disponibile.

<<A voi della banca cosa importa se sparisce qualche migliaia di euro? Siete consci di sfruttare la gente abitualmente, no? Nel giro di un giorno di lavoro rifate il malloppo. Inoltre siete assicurati contro gli atti criminali.>>

<<Bene: vada al sodo, Santonastasio.>> Sprona un altro anziano. È quel vanesio del rigattiere che ha la bottega vicino a casa sua.

<<Adesso,>> prende ad illustrare Euterpe <<mentre il principe Aligio andrà a telefonare a quelli là fuori, noi tutti, in fretta…>>

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martedì, 23 ottobre 2007

STORIA DELLA BRUTTEZZA di Umberto Eco

Dopo il successo della Storia della bellezza (oltre 500.000 copie in 27 edizioni nel mondo), Umberto Eco riflette su un tema ben più rimosso e trascurato dalla nostra cultura: quello della bruttezza.

Vi dico la verità. Io questo libro non l’ho ancora esaminato, ma mi ha colpito questa considerazione: le varie manifestazioni del brutto attraverso i secoli sono più ricche e imprevedibili di quanto comunemente si pensi.

Il concetto di ricchezza del brutto mi pare una sorta di ossimoro.

Il brutto attrae. Diciamo la verità. Affascina. Un po’ come il male.

Dicono che questo libro conduca a un “itinerario sorprendente tra incubi, terrori e amori di quasi tremila anni, dove gli atti di ripulsa vanno di pari passo con toccanti moti di compassione, e al rifiuto della deformità si accompagnano estasi decadenti per le più seducenti violazioni di ogni canone classico”.

E poi che: “tra demoni, folli, orribili nemici e presenze perturbanti, tra abissi rivoltanti e difformità che sfiorano il sublime, freaks e morti viventi, si scopre una vena iconografica vastissima e spesso insospettata. Così che, incontrando via via su queste pagine brutto di natura, brutto spirituale, asimmetria, disarmonia, sfiguramento, in un succedersi di meschino, debole, vile, banale, casuale, arbitrario, rozzo, ripugnante, goffo, orrendo, insulso, nauseante, criminoso, spettrale, stregonesco, satanico, repellente, schifoso, sgradevole, grottesco, abominevole, odioso, indecente, immondo, sporco, osceno, spaventoso, abbietto, mostruoso, orripilante, laido, terribile, terrificante, tremendo, rivoltante, ripulsivo, disgustoso, nauseabondo, fetido, ignobile, sgraziato, spiacevole e indecente, il primo editore straniero che ha visto quest’opera ha esclamato: “Come è bella la bruttezza!”

Sopra sono riportati solo alcuni degli aggettivi con cui si parla e si rappresenta la bruttezza. Di ognuno di questi, il libro ci fornisce, con humour e profondità, più di un esempio – letterario e artistico.

“In ogni secolo, filosofi e artisti hanno fornito definizioni del bello; grazie alle loro testimonianze è così possibile ricostruire una storia delle idee estetiche attraverso i tempi. Diversamente è accaduto col brutto. Il più delle volte si è definito il brutto in opposizione al bello ma a esso non sono state quasi mai dedicate trattazioni distese, bensì accenni parentetici e marginali.”

Umberto Eco

Nato ad Alessandria nel 1932, Umberto Eco è Presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici presso l’Università di Bologna. Tra le sue opere di saggistica si ricordano: Opera aperta (1962), La struttura assente (1968), Trattato di semiotica generale (1975), Lector in fabula (1979), Semiotica e filosofia del linguaggio (1984), I limiti dell’interpretazione (1990), La ricerca della lingua perfetta (1993), Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994), Kant e l’ornitorinco (1997), Sulla letteratura (2002), Dire quasi la stessa cosa (2003). Nel 1980 ha esordito nella narrativa con Il nome della rosa (Premio Strega 1981), seguito nel 1988 da Il pendolo di Foucault, nel 1994 da L’isola del giorno prima, nel 2000 da Baudolino e nel 2004 da La misteriosa fiamma della regina Loana. Nel 2004 ha curato Storia della bellezza.

Storia della bruttezza (a cura di Umberto Eco)

Bompiani, 2007, pagg. 456, euro 35

Vi propongo, di seguito, un particolare articolo di Sergio Sozi scritto sulla base di una videointervista che Eco ha rilasciato a Gianni Riotta (direttore del TG1) qualche giorno fa.

E poi vi pongo un po’ di domande.

Come è stato rappresentato il brutto nella storia dell’arte? Con quali testi? Con che immagini? Con quali differenze nei secoli?

Se non sapete rispondere leggete il libro (anzi, leggiamo il libro).

Questa domanda è più facile: Il brutto di ieri equivale al brutto di oggi?

È corretto (o può aver senso) dire che il brutto di oggi è più brutto del brutto di ieri?

Massimo Maugeri

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Il politeismo della bellezza. Umberto Eco esce dieci minuti dalla tana

di Sergio Sozi

Umberto Eco, il giorno 12 ottobre dell’Anno Domini 2007, ha concesso un’intervista a Gianni Riotta di TV7 (Rai Uno, verso mezzanotte: l’ora delle streghe e dei… guru intellettuali). Il fatto fa notizia, conoscendo la riservatezza del geniale poligrafo alessandrino, dunque abbiamo trascritto per Letteratitudine qualche passo del colloquio, premettendo che la sua Storia della bruttezza esce ora in ventisette edizioni in tutto il mondo e quindi Riotta ne ha evidentemente approfittato – gatto col topo – per intrappolare il semiologo alla Fiera del Libro (Buchmesse) di Francoforte, dove lo studioso ha appena presentato al pubblico la sua nuova opera. Evidentemente il direttore della popolare trasmissione aveva attratto l’illustre ex Novissimo col formaggio di un dialogo stimolante. Ma ora, scherzi bonari a parte, veniamo all’incontro.

La polemica sui ”bamboccioni” del Ministro Padoa Schioppa apre il colloquio, ed Eco qui precisa che, sebbene molti giovani italiani siano effettivamente tali, ciò non è vero per tutti, dunque la definizione non è generalizzabile. Poi si passa ai problemi della ricerca umanistica, dove, precisa Eco ”Anche con pochi soldi si riesce a andare avanti”. Il problema dunque resta anche per Eco la sottofinanziata ricerca scientifica. Di seguito si affronta il libro: ”Una fenomenologia del brutto è estremamente più ricca e varia di una fenomenologia del bello.” Dal bello-brutto, si passa alla classica analogia bello-bene e brutto-male, un concetto risalente ai Greci, nonostante la bruttezza estetica di un buono come Socrate. Con il Romanticismo comunque, precisa Eco, si arriva a proporre il brutto-buono (Hugo) e viceversa il cattivo-bello. Oggi, infine, ”Ci troviamo di fronte ad un politeismo della bellezza: non c’è una bellezza unica e lo stesso avviene per la bruttezza. In questo politeismo, abbiamo delle bellezze che divengono bruttezze e delle bruttezze che diventano bellezze.” Esempi di belli attuali: Marilyn Manson e George Clooney ”Opposti ma entrambi validi per certi gruppi umani.”

E tocca alla televisione; Riotta, alludendo alla quotidiana attenzione televisiva per i drammi della violenza (Garlasco, Cogne, ma anche gli ammazzamenti terroristici e a sfondo politico), chiede ad Eco: ”Perché abbiamo bisogno oggi di questa riproduzione quotidiana in tv del brutto, di questa notte dei morti viventi televisiva?”. Qui la risposta dello scrittore è interessante, seppur discutibile: ”Non bisogna mai pensare che noi siamo peggiori dei nostri padri: i nostri padri erano sempre peggiori di noi: tu comincia a pensare ai Romani che andavano a vedere i cristiani divorati dai leoni, o alle code che nei secoli passati si facevano per poter andare a assistere alle impiccagioni o alle decapitazioni. Le tricoteuse in Francia, durante la Rivoluzione, facevano lì la maglia tutto il giorno, durante le esecuzioni. Quindi, per la folla bruta, per la gente di basso livello intellettuale, c’è sempre stato il bisogno di dare sangue e crudeltà. La televisione dà questo stesso materiale alla gente di basso livello intellettuale, solo che fa finta di darlo a quella di alto livello intellettuale.”

A questo punto Riotta obietta che, però, lui ha ”L’impressione che anche gli intellettuali siano attratti dalla cronaca nera”. La risposta di Eco è la seguente: ”Chiunque ogni tanto prova il piacere d’incanaglirsi; in più c’è una differenza tra il trash sanguinolento e la cronaca nera, cioè: vedere una testa che esplode e il sangue che sprizza, questo fa parte dello stesso gusto degli Antichi Romani che andavano a vedere i leoni e i cristiani; la cronaca nera… be’ lì interviene anche il gusto del poliziesco, dell’enigma: chiedersi ma il ragazzo è davvero colpevole o no?… e questo è anche un gusto intellettuale, c’è poco da fare. I maggiori consumatori di romanzi polizieschi sono gli intellettuali, solo che non lo dicono.”

Dunque, si chiede Riotta: tale diffusa bruttura televisiva genererà in noi un’educazione maggiormente democratica o una semplice assuefazione ai servizi che ci mostrano le immagini di stragi e orrori vari?

”Oggi siamo obbligati a vedere l’orrore là dove c’è nel mondo. Io non so”, tituba Eco, ”capiremo solo tra un secolo quale dei due elementi pesi di più, se la possibilità di rappresentare l’orrore ci ha resi più sensibili o più insensibili; e può anche darsi che la risposta sia che per certe persone sia stata un elemento di sensibilizzazione e quindi di risveglio morale, per altre invece sia stato un elemento narcotico. Forse la verità sta proprio in mezzo.”

Riotta, poi, passa alla Letteratura, citando la tremenda Giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, narrazione-testimonianza ambientata negli orrori del Cottolengo di Torino. Con una citazione da quel romanzo, infatti, Eco conclude la sua ultima opera storico-antologica. E dice: ”Questa pagina è pervasa da una immensa pietà. L’ho voluta come pagina finale proprio perché, dopo una lunga rassegna del brutto attraverso i secoli che può provocare anche qualche compiacimento nel lettore, questo richiamo alla pietà, al rispetto dell’orribile, quando l’orribile è sofferenza e condanna, mi è parso un modo molto giusto per concludere il libro.” Poi si va a finire.

Be’, secondo me l’intervista forse avrebbe potuto dare frutti migliori, ma Riotta, avendo inserito l’intervento di Eco nell’ambito di un successivo dibattito sul nuovo Partito Democratico, ha comunque cercato di conciliare le esigenze dell’attualità politico-sociologica – concernenti le tematiche di TV7 – con quelle inerenti lo specifico ruolo dell’illustre invitato. Certo, potremmo magari chiedere a Gianni Riotta di dedicare un giorno una puntata intera ad Umberto Eco, il cui pensiero complesso variegato e affascinante ha faticato in questa occasione ad emergere dal ruolo di opinionista – vestito che gli sta stretto, direi.

Tuttavia, grazie ad entrambi i colloquianti, di stimoli da dibattere penso che qui ne siano emersi molti. Per esempio la crudeltà nostra che è inferiore a quella dei nostri antenati Romani; la sovraesposizione al macabro televisivo giornaliero, che potrebbe anche migliorare la nostra moralità; il trash che è diverso dalla cronaca nera attuale; l’attrazione-repulsione per la morte che diviene per gli intellettuali un gioco giallistico; i plurisecolari canoni estetici oggi andati a briglie sciolte. Sarà proprio così?

Inoltre personalmente aggiungerei questa domanda collaterale: ma la nuova Letteratura italiana proprio non può fare a meno, oggi, di seguire, imitare, agganciare troppo strettamente il nostro reale incanaglimento collettivo? Romanzi come Il nome della rosa ci mostrano le infinite possibilità per la (buona) Letteratura di affrontare temi e interrogativi sempre attuali, pur senza parlare di angosce metropolitane, psicofarmaci, pistolettate, borghesia decaduta e stragi politiche. Cose, queste, che alla lunga annoiano, visto che stanno su tutti i giornali e su tutti gli schermi – oltretutto vestite di una onnicomprensiva trascuratezza linguistica grigia, lugubre e ammorbante.

Sergio Sozi

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AGGIORNAMENTO del 5 dicembre 2007 

Ieri, 4 dicembre 2007, il mondo della cultura lubianese era in fermento – ma in verita’ la cosa nei nostri ambienti si risapeva da una decina di giorni – per via del conferimento ad Umberto Eco della Laurea Honoris Causa in Lettere presso l’ateneo della capitale slovena.
Va detto che qui Eco fa molta eco soprattutto da quando il principale quotidiano ”Delo” (circa 60-70.000 copie in media: gli sloveni sono in tutto due milioni di cristiani, quasi tutti Cattolici), da quando quel giornale, dicevo, allego’ in omaggio la traduzione del ”Nome della rosa” (accadde qualche anno fa).
Dunque, ieri, alle ore diciotto, mi sono recato nella capiente sala conferenze ”Linhartova dvorana”, sita nel grandissimo complesso ad usum incontri culturali, conferenze, fiere dell’editoria e fiere varie (una specie di Lingotto torinese) che si chiama ”Cankariev dom” (”La casa di Cankar”, Ivan Cankar e’ uno dei maggiori narratori sloveni a cavallo fra Ottocento e Novecento). Avevo il biglietto per via di un mio caro amico e connazionale che insegna italiano all’Universita’ di Lubiana.
Trovo almeno 6-700 persone nell’anfiteatro della sala (una sorta di teatro, con tanto di sipario, galleria, platea e boccascena), il solito assedio di fotoreporter e telecamere; dunque mi sorbisco l’intera ”conferenza” dell’Eco (corroborata da immagini in diapositiva) in inglese. Solo in inglese! Domande alla fine della ”conferenza”: in inglese. Spiegazione delle virgolette: Eco, furbacchione, ha detto in inglese quel che tutti sappiamo come introduzione della sua ultima ”Storia della bruttezza”, niente piu’: citazioni di poeti, scrittori e pittori con Italo Calvino a concludere. La mattina stessa aveva ricevuto l’onorificenza e la sera ”allentava” ’sta boiata agli sloveni come se fossero cretini (mio suocero filologo classico, che c’era, ha detto, giustamente, che era una boiata).
Insomma, finisce la cosa (circa un’ora comprese le cinque sei domande del pubblico, in gran parte studenti, accademici e uomini di cultura interessati alla Letteratura italiana) ed io vado da Eco, il quale stava firmando su di un tavolinetto le copie ai ragazzotti. Gli dico, in italiano ovviamente: ”Mi scusi professore, io non ho libri da autografare, ma vorrei un giorno, magari, parlare con lei a proposito del ”romanzo”, per conto del blog Letteratitudine.”
Lui risponde: ”E cos’e?”’
”Un blog di letteratura molto visitato. Io sono un critico.”
”Ah… potrei lasciarLe questo indirizzo. Ha della carta?” E mi scrive sul depliant che io, tremebondo, gli porgo, un indirizzo di posta elettronica.
”Arrivederci e grazie.”
Ecco tutto.
Una fregatura. Per dirla alla GREGORIana maniera.
Avrei almeno immaginato qualcosa di piu’ che una serata pubblicitaria per i suoi libri Bompiani. Non c’e’ piu’ dignita’, ragazzi. Onesta’ e’ parola gia’ eliminata persino dal vocabolario dei grandi come lui. Uno che fa eco. Ma ricordiamoci uno dei miti di eco: quello della donna troppo ciarliera che Giunone condanna a parlare solo con la voce degli altri.
Anzi: se ne ricordi lui.
Sozi

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Umberto Eco a Lubiana in occasione della laurea honoris causa

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