venerdì, 14 dicembre 2007
FACCIAMO SILENZIO di Vladimir Di Prima
Cari amici, come sapete Letteratitudine è sempre dalla parte dei librai indipendenti e della piccola editoria di qualità. Nel post precedente ho avuto modo di presentarvi la Cadmo. Oggi vi presento Azimut, giovane case editrice romana nata nel 2005. L’occasione ce la fornisce il nuovo libro del giovane scrittore siciliano di Zafferana Etnea Vladimir Di Prima, “Facciamo silenzio”; libro uscito proprio per Azimut in questi giorni. Mi fa molto piacere potervelo presentare, perché Vladimir – oltre a essere mio conterraneo – è stato mio compagno di scuderia a Prova d’Autore. Ce ne parla Serena Chiarion, firma de “La Voce d’Italia”. Seguono: un estratto del romanzo (come al solito, per farvelo assaggiare) e il booktrailer.
Su Vladimir aggiungo che, oltre a essere scrittore, è un talentuoso illustratore e ha una grande passione per il cinema. Ha girato parecchi cortometraggi: in uno di questi è riuscito a coinvolgere personaggi del calibro di Lucio Dalla, Lando Buzzanca e Giancarlo Majorino. Il booktrailer del libro è opera sua ed è molto… “forte” e provocatorio: simboleggia il prolasso intestinale che subisce il personaggio tratteggiato nel libro. Secondo me farà discutere parecchio.
Il tema del libro, come avrete modo di appurare dalla recensione di Serena, è legato al concetto di silenzio.
Le domande che vi propongo per un eventuale dibattito sono le seguenti.
Quante parole non dette si celano dietro i nostri silenzi?
Quando il silenzio è utile? Quando, invece, diventa nocivo?
(Massimo Maugeri)
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Vladimir Di Prima, Facciamo Silenzio, Azimut Editore, pp 144, euro 10,00
Recensione di Serena Chiarion
Facciamo silenzio: ma sarà davvero silenzio?
Ognuno di noi si trova spesso a pensare cose strane mentre qualcuno ci parla, cose che non centrano nulla con quello che stiamo ascoltando o, perlomeno, sembrano non centrare.
A chi non capita, mentre il capo parla, di pensare alle conseguenze ed alle problematiche legate a ciò che ci sta dicendo, senza avere il coraggio di esprimerlo?
A chi non succede di avere pensieri strani e bizzarri quando ci troviamo davanti ad un interlocutore particolare e un po’ ridicolo?
Quanti pensieri nascosti rimangono in noi dopo un incontro… dopo aver interagito con qualcuno che amiamo, che ci è amico, che è importante per noi.
Ognuno di noi ha dei momenti in cui riflette sulle sue parole e sulle persone che ha incontrato, sui rapporti che ha vissuto e su quanto questi gli abbiano cambiato la vita.Vladimir Di Prima, nel suo nuovo romanzo Facciamo Silenzio, sceglie di sviluppare il tema dei silenzi che nascondono un’infinità di parole non dette, pensate e rielaborate attraverso un particolare dialogo-monologo con il computer che diviene il testimone degli ultimi significativi momenti del trentenne protagonista.
L’incipit del romanzo è davvero d’impatto: un malato terminale, dopo la fuoriuscita dei suoi intestini, disperde gli organi per la stanza in cui si trova…. Ed è così che si libera di tutto ciò che ha dentro, in senso fisico e metaforico: tutto ciò che si trova nelle sue viscere che, un tempo, si credeva fossero custodi dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni e delle nostre sensazioni.
Il resto del libro segna la liberazione del protagonista da tutto ciò che per sempre ha tenuto nella testa e nel cuore, di quelle parole dette e non dette, di quei momenti di profonda riflessione che egli ha vissuto, soprattutto grazie agli incontri che lo hanno segnato indelebilmente.Ma, in alcuni momenti, il computer gli parla semplicemente di lui, della sua infanzia, dell’attenzione con cui è riuscito ad osservare il mondo.
Ed il linguaggio usato è quasi trascinante: un fiume in piena che travolge ogni concetto razionale trasformandolo in qualcosa di intimo e personale che ci sconvolge ed affascina perché, in qualche modo, fa parte di ognuno di noi.
Pensate a cosa accadrebbe se tentassimo di trascrivere i nostri pensieri che nascondiamo dietro a brevi o lunghi silenzi… Per noi sono chiarissimi ma, in realtà, per gli altri, avrebbero davvero un senso?
Il protagonista è spesso cinico nell’analizzare sé e gli altri: crudi, ma incredibilmente realistici, i momenti della sua infanzia e della sua adolescenza. E il suo modo di vivere l’amore: tutto un decidere se chiamarla o meno… Ed i nomi che dà alle persone che ha incontrato nella vita: Fata Brevetti, gemelle Chewig-Gum, il padre Fidel, l’autistico e l’impiegato delle poste; il “dialogo” con quest’ultimo esprime in pieno il suo malessere nei confronti del mondo che lo circonda.
Meravigliosi i momenti in cui emerge una profondità concettuale e linguistica davvero toccanti:“Del resto i segni sono quelli: non vivi, non godi, non speri, addirittura non riesci più a leggere qualcosa che non sia la tua stessa cosa. Anche l’etichetta del pollo, o del pane, o di quello che tu hai sollevato per aiutarla nella spesa, ti reca un terribilissimo senso di incomprensione. Sei pieno. Marcio di tutti quegli orribili principii che la vita e i suoi fedeli impostori ti hanno fatto credere indispensabili, ma che in realtà servono solo a complicare il resto. Sono le piccole crisi che rovinano perché di quelle grandi il mondo neanche se ne accorge.”
Decisamente è un libro affascinante ed intrigante, anche se, in qualche modo, il finale lo conosciamo subito.Il linguaggio usato è crudo, pesante, forte; poca è la punteggiatura a significare la continuità, a volte non evidente, dei concetti espressi.
Ma questo romanzo testimonia quanto significativa sia la fine di ognuno di noi solo se la rapportiamo a ciò che è stato il nostro percorso di vita. E la liberazione del protagonista è totale e appagante perché ciò che doveva essere detto è stato detto.
Sicuramente è un libro da leggere anche se non rispecchia il classico romanzo con inizio, parte centrale e fine, che non ha dei personaggi che ci fanno sognare od innamorare. Ma è un romanzo vero, in cui bisogna immergersi profondamente e che, in fondo, parla proprio di noi.
Serena Chiarion
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Vladimir Di Prima è nato a Catania nel 1977. Laureato in legge, attualmente si sta specializzando in criminologia. Ha realizzato il cortometraggio Shalev hu haiam con la partecipazione di Lucio Dalla, Lando Buzzanca e Giancarlo Majorino. Ha pubblicato La teoria della donna fumante (Greco, 1999); Gli Ansiatici (2002), Catania 48ore (2003), Sessso Senso (2004), per le edizioni Prova d’Autore.
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Un estratto del romanzo “Facciamo silenzio”
(…) Quell’ultima sera avete parlato d’infanzia. È una cosa che più o meno hanno avuto tutti. Lei ti ha chiesto della tua, e tu gliel’hai sbattuta in faccia come quelle torte che volano nei film. Hai detto di aver frequentato asilo e scuole medie a Torino. Che a quel tempo lo chiamavano ricongiungimento alla madre. Lei ha detto, allora ti chiamavano terroncino? Tu hai detto che sì, che può essere che fosse per tua madre. Per tua madre cosa? lei ha detto.
Che tu avessi fatto le scuole medie a Torino, hai detto. Ancora una volta non vi siete capiti. Lei voleva sapere se ti chiamavano terroncino e tu perché avessi fatto le scuole al nord. Dopo un po’ hai risposto che sei stato il miglior terrone della sezione D alla scuola media Arnaldo Fusinato, poeta della patria e di ’sta minchia.
Sin da piccolo tu ripetevi un sogno. Ti sdraiavi sul prato oramai smunto, volgevi una mano sugli occhi, la mano che diventava lenzuolo e cominciavi a lievitare. Pian piano un paio di ali ti si allargava sulla schiena. Non scherzo, ci riuscivi davvero in quel volo d’incanto a lato di farfalle, api e altri insetti da giardino.
Poi però, all’improvviso, arrivava il calabrone nero come uno scoglio che precipita dall’alto rompendo la resistenza del cielo; le ali spiumavano rinsecchite da una vampa atroce e di colpo ti ritrovavi sopra il vagone di un treno, in braccio alla tua mummy che salutava con la mano Fidel, i nonni e quelli che c’erano da salutare, pure il solito capostazione, che come tanti si inteneriva e come tutti, alla prima curva, scompariva. Non era un addio, certo, solo un lungo, interminabile arrivederci.
La tua mummy irretiva gli occhi di rosso confondendoli nel bavero del cappotto abbottonato un quintale di volte. Il fischio del treno serrava il finestrino e il controllore cominciava a vidimare i biglietti muovendosi con lo stesso vento di un carabiniere.
Fidel mischiando tenerezza al suo vocione da generale diceva, non ti preoccupare bambino mio, tu sei grande no? due o tre mesi passano in fretta e poi lo sai che ti vengo a trovare.
Cosa vuoi che importasse, tu a malapena distinguevi il giorno dalla notte, il pranzo dalla cena, e non capivi mai quanto fosse inesauribile quell’intervallo per un bambino.
Guardali oggi i tuoi occhi, nel profondo stagliano ancora la sagoma zuccherata del vecchio traghetto. Dentro, infeltrito dai lavaggi del tempo, c’è un pezzo di te a salutare l’isola. La tua terra galleggiante. A sradicare le radici che in qualche punto restano sempre attaccate.
Il viaggio per l’umida terra dei lombrichi era lungo e appiccicoso.
Così chiamavi il Piemonte, l’umida terra dei lombrichi. Il cielo di quelle parti si allargava basso e sgoccioloso, pareva il coperchio di una pentola quando vi si rimane intrappolati all’interno.
Non c’era la tua montagna spannata di neve e fumo, e non c’era il mare a darti la sensazione di un orizzonte avvicinabile. Ma questo, a parte tutto lo smantellarsi di elementi familiari non aveva alcuna importanza. Lì c’era un lavoro, assemblaggio componenti plastiche, e la tua mummy doveva lavorare. Un giorno le avresti pure detto grazie per una fiammante macchina color grey mamalook.
Per migliore memoria ti ricordo che abitavate in uno scantinato senza finestre e che ogni settimana avevi le tonsille a pois e la febbre che faceva fionda lungo la colonnina del termometro.
Non ti puoi lamentare, sei stato un bambino fortunato, avevi molti giocattoli e un orso di peluche. Era bravo l’orso, ti proteggeva dagli orchi neri della notte, diventando esso stesso, a volte, l’orco che ti rubava il sonno.
Il viale di selciato che portava all’asilo Manzoni era pieno di bimbi pallidi, allineati, con nugoli di lentiggini disordinatamente disseminati sul naso e la scriminatura che sembrava venuta fuori da mezzo giro di compasso. Non era questo che ti colpiva o ti raccapricciava più di qualche lombrico agonizzante dopo aver perso l’intestino sotto la spinta sgarbata di qualche tacco; quei bambini erano stretti ai polsi da un padre e da una madre, da un maschio e da una femmina. Li ricordi sorridenti, ancora un po’ intorpiditi dal sonno e mezzi scemi per il troppo freddo.
Tu credo non facessi lo stesso. Tu, dentro quel freddo vivificante, ti ripiegavi a mezz’asta come una bandierina di carta. Una delle tue microbiche mani rimaneva orfana e, per evitare che morisse gelata, la tuffavi dentro la tasca di un giubbino verde oliva, carezzando meccanicamente con le dita il cappello di un puffo a cui per solidarietà avevi tagliato una mano.
Ogni tre giorni la tua mummy ti portava in una piovosa cabina di periferia. Dalla borsa tirava fuori un sacchetto di gettoni. Te li ricordi i gettoni, vero? Quei dischi a doppio solco, aspri e puzzolenti che se li mettevi in bocca sputavi per cinquant’anni. Di solito la tua mummy ne scaricava quindici, sedici; dal rumore parevano affondare in un pozzo profondo, l’eco era qualcosa di impressionante; poi componeva il numero, emetteva strani versi gutturali come da primate dell’era quaternaria e con un fazzoletto di carta ti poggiava la cornetta all’orecchio, un modo come un altro per proteggerti dai ruttastri degli ubriaconi che poco prima avevano sorseggiato alle loro puttane. Dall’altra parte del mondo Fidel rompeva l’indugio della linea attraverso un incoraggiante salto di voce lungo mille e cinquecento chilometri. Il resto erano quattro zoppicanti minuti frammezzati da silenzi spaziali.
Le maestre dell’asilo Manzoni, quelle irsute zitelle stagnate di naftalina, ti strappavano di mano i pennarelli nuovi e li davano agli altri bambini senza spiegarti il perché. Né che potessi capirlo, tu, un perché così grande.
Poi Fidel per le scuole elementari ti riporta nell’isola galleggiante mentre la tua mummy rimane a Torino a moltiplicare ore di straordinario per pagare l’affitto e mettere qualcosa da parte quando un giorno si deciderà la tua università. Alla deriva è il tempo della tua gestazione feticista, che senza doglie di femmina e con voglie da bambino partorisci a otto anni quando le gemelle chewing-gum sbatacchiano fumi pomeridiani in luogo di congetture post liceali. Una mattina come tante, mentre la maestra ti ha in braccio per farti attaccare un cartellone titolo festa dell’albero, le rompi nel polpaccio la spilla difettosa che regge il risvolto dei pinocchietti. Lei non si accorge di niente, fa caso solo a un piccolo rivolo di sangue che le macchia le calze e che lei asciuga come tutte quelle ferite che se ne vanno dopo una notte di sonno. Tre anni dopo, la scheggia trascurata completa il suo viaggio attraverso i muscoli, si ferma al cuore, prima glielo indurisce e poi glielo frantuma. Oggi la maestra Ciclamini ha un bellissimo appartamento di marmo, con tanti fiori freschi e almeno trecento mesi di vita mai svelati. Passandoci, ci giurano un po’ tutti: sì, sei stato il suo migliore alunno di sempre.
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Il booktrailer del romanzo “Facciamo silenzio”
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