sabato, 14 giugno 2008
GUIDA PRATICA ALL’ETERNITA’. Racconti tra cielo e terra di Fabrizio Centofanti
Vi presento una raccolta di racconti.
Il titolo è al tempo stesso dolce e ambizioso: Guida pratica all’eternità, racconti tra cielo e terra.
L’autore è Fabrizio Centofanti: poeta, scrittore, ma anche sacerdote diocesano che opera a Roma dal 1996, soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura.
Remo Bassini ha firmato la prefazione della raccolta. Potrete leggerla di seguito insieme al racconto Agatino.
“Donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via”.
Così Bassini descrive i personaggi di Centofanti.Persone da buttare.
E forse, da buttare è pure Agatino.
Mi piacerebbe dibattere su questo volume, partendo dalla prefazione di Remo. E mi piacerebbe discutere di Agatino: “un losco figuro mascherato da becchino del vecchio west con tanto di cappello a larghe tese.”
La presenza di Agatino crea paura, imbarazzo, diffidenza. Soprattutto nei confronti di chi si ferma alle apparenze, di chi guarda il nero (esteriore) degli uomini senza riuscirne a cogliere la luce… che pure, quasi sempre, c’è.
Ecco, vorrei che discutessimo anche delle apparenze. Quelle che ci condizionano. Quelle che sono capaci di far pendere le nostre decisioni da una parte o dall’altra.
L’apparenza inganna, dice il proverbio. Inganna nel bene, come inganna nel male.
Mi domando (e vi domando):
Fino a che punto bisogna fidarsi delle apparenze?
E fino a che punto è lecito abbassare le proprie barriere per tentare di vedere l’altro, oltre il nero della sua esteriorità, fino a coglierne la luce?
Massimo Maugeri
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PREFAZIONE di Remo Bassini
Pare di vederli, leggendo. Vanno a capo chino, hanno lo sguardo di chi è solo, disperato, affamato. Sono i personaggi-protagonisti di questi racconti. Sono donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via.
Siete gli “ultimi”, accontentatevi del regno dei cieli.
Non c’è spazio per voi in questo tempo di usa e getta, di computer dell’ultima generazione e di generazioni cresciute tra computer, line e la tivù “dei belli” e dell’effimero.
Ha fatto un lavoro storico e narrativo, don Fabrizio Centofanti, con questi frammenti di disperazioni e speranza.
Il lavoro storico – ma che compete (o così dovrebbe) a ogni intellettuale – è stato quello di annotare fatti e persone, cercandone il cuore, magari nascosto da un cappotto ricuperato chissà dove. Sono storie, queste, più vere del vero, che fanno male anche.
Sono microstorie – che tanto piacerebbero alla scuola delle Annales di Le Goff – che Fabrizio Centofanti ha scritto con tempi e ritmi di una narrazione a volte secca e dura, a volte, invece, vicina al lirismo.
Non ha usato la fantasia, Fabrizio Centofanti, ché la fantasia in certi casi depista e distorce. Ha usato i suoi ricordi, i suoi appunti, perché la memoria, si sa, è capricciosa. Ed eccoli, ora, questi racconti toccanti, che arrivano al lettore, lo commuovono, lo fanno pensare. Ci fanno pensare: ai disperati, certo, ma anche alla speranza; e il trait d’union tra questi due aspetti si chiama don Mario, la cui figura, sebbene mite, caritatevole, francescana, si staglia prepotente in questo mondo, sì, mondo di lacrime, ché è questa la dicitura adatta, giusta.
E ha saputo fondere, Fabrizio Centofanti, in queste sue scritture ri-pescate dalla memoria, le sue due anime: quella di chi vive pensando al Vangelo come un’altra Storia di disperazione e speranza da mettere in pratica, e quella dell’umile testimone che trascrive e racconta. Sono venuti fuori, da questa doppia anima, questi racconti: che trasudano umanità e che ci insegnano. Ci insegnano che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” non sono solo versi di una canzone di successo.
Perché la dignità “degli ultimi” sia per davvero. E non parole vuote, dell’usa e getta.
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AGATINO
Agatino aveva la barba nera e vestiva di nero. Questo gli era costato una pessima fama, a volte, come quando andò a trovare don Mario in ospedale, il quale don Mario, però, quando Agatino varcò la soglia della porta, non c’era. Chi c’era, e cioè un vicino di letto, vedendo entrare un losco figuro mascherato da becchino del vecchio west con tanto di cappello a larghe tese, chi c’era, dicevo, si spaventò. Assai.
Ma Agatino si preoccupava poco della sua fama, anzi pareva che facesse di tutto per avere aspetti e modi che potessero provocare paura, imbarazzo, diffidenza. In più, parlava da solo. Per strada, alla fermata dell’autobus, dovunque si trovasse, non mancava mai di fare rapidi botta e risposta con se stesso, come se dovesse trovare un accordo su difficili questioni che unicamente lui poteva capire e sviscerare.
Agatino era solo. Viveva in giro per le incombenze che raccoglieva qua e là per la metropoli e la sera andava a riposare nel dormitorio della Caritas di via Marsala, insieme con tipi come lui, neri e barboni, come ci fosse una specie di cittadinanza a parte, il lato oscuro di Roma, nerovestito e barbuto; come se tutti i lustrini e i sorrisi e i dialoghi a due o più persone avessero un loro rovescio di sguardi cupi, appesantiti dalla sommaria pulizia, e di discorsi tra sé e sé come i pazzi del paese.
Agatino era un uomo del buio, e veniva nel mondo della luce solo per causa di forza maggiore, per sbarcare il lunario con le sue incombenze da fattorino fuori sede. Nel territorio luminoso si sentiva straniero, come un topo in trappola; forse per questo parlava da solo, per esorcizzare un disagio invincibile, l’impressione di essere l’unico estraneo in una riunione famigliare. Gli altri, in generale, lo confermavano in questa sensazione. Perché a vederlo così, nero e barbuto, immagine cupa che farfugliava con se stessa, veniva veramente da considerarlo di un’altra famiglia, se non di un altro mondo, sconosciuto e inconoscibile, da cui sarebbe stato meglio, molto meglio, tenersi distanti.
Lui lo capiva, e ne soffriva. Pur stando dalla parte del buio, si rendeva conto che l’altra parte presentava dei vantaggi: innanzitutto un dialogo a due o a tre, più ortodosso del suo parlare da solo. Poi, la varietà dei colori, che poteva distrarre dalla nota scura che era la sua vita, sempre uguale a se stessa, con le incombenze raccolte in giro, le fermate dell’autobus, i sonni inquieti nel dormitorio della Caritas.
Ma i suoi colori li trovava altrove: le storielle che scriveva dappertutto, sulle ricevute postali, le pagine dei giornali, la carta in cui avvolgeva i modesti regali che non mancava mai di confezionare per i committenti. Barzellette, poesie, dialoghi in due battute, che finivano col riempire il vuoto della vita, col trasfigurare in sfumature sempre diverse la massa nera del vestito e della barba, degli stivali e del cappello. Questo, naturalmente, dal suo punto di vista. Gli altri continuavano a vedere, invece, l’Agatino scuro e cupo di sempre.
Un giorno, una beghina della parrocchia chiese di una persona che potesse lavorare nel giardino. Don Mario si rivolse ad Agatino, nella speranza che potesse farcela; lui si mise a dormire su una sedia a sdraio e pretese, alla fine, di essere pagato, senza aver mosso un dito. La donna s’infuriò e cominciò a urlargli sulla faccia. Agatino le rispose per le rime: “Zoccola, zoccola!”. Lei, figùrati, che zoccola non gliel’aveva detto mai nessuno, andò di corsa dal parroco a gridare: “O lui o io!”. Don Mario disse: “Lui”. Quando don Mario rispose “Lui”, l’anziana signora sbiancò, incredula.
La figura di quest’uomo nero rischiava, giorno dopo giorno, anno dopo anno, di trasformarsi in mito. Andava a pagare anche le bollette della nostra chiesa. Il prete gli consegnava le montagne di soldi spicci delle questue, che lui infilava in una cartella rigorosamente nera. Una volta, quando don Mario era stato bruciato ed era in coma in ospedale, l’uomo nero mi disse che mancavano dei soldi per pagare le fatture. Io mi infuriai, perché avevo contato le monete a una a una, e gli dissi di non provarci più, se non voleva essere cacciato. Lui se ne andò via, offeso. Non sapevo che l’avrei rimpianto, e tanto anche, quando fu sostituito da gente senza scrupoli che cercò in ogni modo di rubare il poco che avevamo. Non disse mai più che mancavano dei soldi; tornava con le ricevute piene di poesie e di barzellette, che a poco a poco tendevano a specializzarsi e a concentrarsi in serie tematiche.
La cosa strana è che quando cercammo qualche testo per ricordarlo degnamente, non trovammo più neppure un verso o una battuta, come se l’opera sconfinata che aveva composto giorno dopo giorno fosse misteriosamente evaporata. Lo trovarono seduto su una sedia del dormitorio della Caritas di via Marsala, morto. Volevamo organizzargli il funerale, ma i parenti, che non conoscemmo mai, non furono d’accordo.
Se ne andò così, senza una messa, a pagare le bollette della vita in un ufficio postale tutto nuovo, dove il nero del cappello, del vestito, degli stivali da becchino del far west è un colore come un altro, che non spaventa nessuno, dove si può parlare con se stessi senza essere pazzi, dove uno è finalmente libero di spendere la sua felicità di uomo del buio, ma segretamente amante della luce e dei colori del mondo, fosse anche l’altro mondo, un ufficio postale che non avrebbe mai immaginato, Agatino, così bello.
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