martedì, 18 gennaio 2011
150 ANNI DALLA NASCITA DI FEDERICO DE ROBERTO
Centocinquanta fa, il 16 gennaio del 1861, nasceva Federico De Roberto. Lo ricordo qui, nell’ambito di questa rubrica letteratitudiniana dedicata a “ricorrenze, anniversari e celebrazioni“.
Quando si parla di De Roberto, il pensiero va subito alla sua opera principale “I Vicerè“.
Ecco… mi piacerebbe che, in questa pagina, con il vostro contributo, venisse ricordato sia l’autore, sia l’opera…
Seguono le solite domande, volte ad avviare la discussione…
1. Che rapporti avete con le opere di Federico De Roberto?
2. Avete mai letto “I Vicerè”? Pensate che leggerete, o ri-leggerete, questo libro?
(quest’ultima, più che una domanda, è un invito)
3. Ritenete che “I Vicerè” contenga ancora elementi di attualità? Se sì, quali?
4. Se doveste selezionare una citazione tratta da “I Vicerè”, o da un’altra opera di De Roberto, quale scegliereste? E perché?
5. Qual è l’eredità che De Roberto ha lasciato nella letteratura italiana?
Siete tutti invitati a intervenire sia per rispondere alle domande, ma anche semplicemente per riportare citazioni, note biografiche, considerazioni, recensioni e… quant’altro possa contribuire a ricordare la figura di questo grande autore della letteratura italiana vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.
Di seguito, un’articolo di Sarah Zappulla Muscarà pubblicato sulla pagina cultura del quotidiano “La Sicilia” del 14 gennaio 2011 (ma non è escluso che il post possa essere aggiornato con ulteriori contributi).
Massimo Maugeri
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da LA SICILIA del 14.11.2011
Una chiave per «I Viceré»: bilancio amaro e sfiduciato di un secolo agonizzante
di Sarah Zappulla Muscarà
Centocinquanta anni fa, il 16 gennaio del 1861, nasce a Napoli Federico De Roberto. Presto però si trasferisce nella odiata-amata Catania dove, pur con lunghe parentesi a Milano e a Roma, trascorre l’intera esistenza. Allorché nell’agosto del 1894 l’editore milanese Galli pubblica il romanzo “I Vicerè”, Federico De Roberto è pertanto poco più che trentatreenne ma, fecondo e infaticabile sin dai verdi anni, si è già conquistata notorietà negli ambienti letterari in virtù di una pervicace militanza.
“Hai fatto un lavoro con ’sei para di…!’” entusiasta gli scrive il 3 ottobre Luigi Capuana. E alludendo ai tanti personaggi ancora vivi nelle cronache, a cui De Roberto aveva abbondantemente attinto, e nella memoria dei contemporanei: “Dall’”Illusione” ai “Vicerè” hai fatto non un salto, ma una volata lunga, meravigliosa. Oh come sono contento! Che piacere mi hai dato! Quanti ritratti perfettissimi! Quel Padre Blasco! quel Consalvo! quel Don Eugenio! Ma tu dovresti farmi un piacere per mettermi in caso di gustarlo meglio; dovresti mandarmi ‘una chiave’, con i nomi veri, perché parte non li rammento. Figuriamo che se ne dice costì! Quel Consalvo (stavo per dire quel ‘Marchese di S. Giuliano’) è una meraviglia addirittura! […] Bravo! Bravo!”.
E il 21 ottobre Giovanni Verga: “È una ‘machine’ poderosa che hai messo in piedi, e dei ‘cristiani’ di carne e d’ossa che mi sembra aver conosciuto. Anzi a questo proposito ti dico che ti sei fatto un bel cuscinetto costì a Catania, fra tutti cotesti Uzeda che si riconosceranno allo specchio, deputati, senatori o semplici minchioni che sieno!”. Una “vera e stupenda “trovata”" che avrebbe guadagnato efficacia da una severa, impietosa sfrondatura, da una “maggior parsimonia” di scrittura. Ma nulla del “gran quadro” tracciato da De Roberto è sacrificabile, contrariamente al giudizio di chi ha fatta sua, nelle opere più felici, la michelangiolesca “arte del levare”.
“I Vicerè” hanno il respiro possente, la forza sovrana, la maestosità soverchiante della grande narrativa europea da Leone Tolstoj a Thomas Mann a Hermann Broch. Stesi nel giro di pochi anni, hanno comportato un impegno e uno sforzo eccezionali che lasceranno il segno nel fisico dello scrittore, definito dal medico svizzero Paul Dubois, antesignano della psicoterapia, “uno dei più rari ed espressivi esempi dell’isterismo mascolino”.
Il primo romanzo del ciclo, “L’Illusione”, che ne è anticipata porzione, è apparso appena pochi anni prima, nel 1891. Vi è adombrata una giovanile passione per Giovannina Calì Paternò Castello, andata in sposa al marchese di Santelia, evocata nel personaggio di donna Teresa Uzeda Duffredi di Casaura.
Il terzo romanzo, “L’Imperio”, è la storia di Consalvo Uzeda e dell’Italia contemporanea, in cui lo scrittore dello sconcio disfacimento dell’aristocrazia, con corrosiva rapacità di sguardo, con smorfia ilarotragica, si propone di mettere a nudo la molteplicità di problemi e di grovigli della vita post-risorgimentale, la deludente realtà politica, sociale, etica dell’Italia parlamentare che darà luogo all’avvento del fascismo.
Il romanzo che dovrà “fare colpo”, il “libro terribile” che dovrà “fare l’effetto d’una bomba”, come scrive alla madre donna Marianna degli Asmundo, attenderà a lungo per vedere la luce, incompiuto e postumo, nel 1929.
Ma “una terribile bomba” sono già “I Vicerè”. Acre il pessimismo scientifico, velenosa la denuncia dell’improntitudine della storia, tragica la solitudine del potere. “La vecchia razza” aveva zolianamente intitolato De Roberto in origine il romanzo, saga (potente ma non epica) della famiglia degli Uzeda di Francalanza discendente dai Vicerè spagnoli di Sicilia. Nell’accezione insieme fisiologica, patologica, “di costume”. Degenerata sia sul piano fisico sia su quello morale, prepotente, corrotta, preda di fissazioni, manie, violente e repentine contraddizioni, abbacinata demenza: “Razza degenere”, “Razza di matti, questi Francalanza!”, tutti “Strambi!… Cocciuti!… Pazzi!…”.
“I Vicerè”, romanzo didascalico, collettivo, polifonico e policromo, s’inscrive nell’eredità ideologica di Verga insieme a quelle opere che dal “Mastro-don Gesualdo” a “I vecchi e i giovani” di Pirandello, a “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, a “Il vecchio con gli stivali” di Brancati, al “Consiglio d’Egitto”, al “Contesto” di Sciascia, oppongono alle “magnifiche sorti e progressive” la teoria dell’eterno ritorno di uomini e di eventi, sancendo l’immobilismo esistenziale e storico. Lontano tuttavia dall’essenzialità della scrittura verghiana, per quell’indugiare, con crudele distacco e feroce acrimonia, sulle deformità, follie, perversioni della famiglia egemone degli Uzeda di Francalanza, sul decadimento di una “stirpe esausta”.
Bislacchi, litigiosi, avidi, boriosi, arroganti, al pari degli antenati spagnoli, con bieco opportunismo, con camaleontico trasformismo, i Vicerè manterranno l’indiscusso privilegio del potere traendo profitto dagli accadimenti risorgimentali di cui mortificano la grandezza.
Personaggio “chiave” del romanzo e della sua filosofia Consalvo, in cui è palesemente riconoscibile Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, nel 1879 divenuto, a soli 27 anni, sindaco della città etnea e quindi deputato, sottosegretario, ambasciatore e ministro degli Esteri fino alla scomparsa, al tavolo di lavoro, nel palazzo della Consulta a Roma nell’ottobre del 1914.
Intellettuale inquieto, eccentrico, dalla personalità complessa, insicura e superba, a De Roberto, scrive Pirandello, “la letteratura italiana deve uno dei suoi più solidi romanzi, un’opera monumentale: “I Vicerè”". Romanzo del disincanto storico, della crisi della società meridionale e insieme bilancio amaro, sfiduciato, di una generazione, di un’epoca, di un “secolo agonizzante”.
(da “La Sicilia” del 14.1.2011 – pag. 22)
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“I VICERE’”: la recensione di Renzo Montagnoli
I Viceré è indubbiamente il romanzo più famoso di Federico De Roberto, un’opera piuttosto corposa che a stento ed eufemisticamente può rientrare in una collana di tascabili. Considerato da non pochi critici un autentico capolavoro (Sciascia addirittura scrive che dopo I Promessi Sposi è il più grande romanzo che conti la letteratura italiana), ma in un certo qual modo stroncato da Benedetto Croce (Il libro di De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore) è in effetti un romanzo complesso, anche strutturalmente, e presenta luci e ombre, di cui tuttavia le seconde non ne intaccano l’intrinseca valenza.
E il valore è indubitabile, perché I Viceré, nel descrivere le vicende dei numerosi componenti della nobile famiglia siciliana Uzeda, finisce con l’essere la devastante biografia di una nazione, un’immagine impietosa di ciò che siamo noi italiani, con una narrazione impregnata da una forte vena critica e ironica.
La storia in effetti è costituita dalla vittoria, in apparenza, della rivoluzione patriottica siciliana e dal suo pratico insuccesso, con un esito quindi impietoso e deludente di tutto il processo risorgimentale, perché le risultanze siciliane vengono di fatto estese all’intero paese. In questo senso De Roberto è stato un’analista del fenomeno non solo attento a tutti i suoi risvolti, ma anche profetico, come infatti sembrerebbe testimoniare l’attuale situazione italiana, di Stato di forma, ma non di sostanza.
Per quanto ovvio balza subito alla mente un altro capolavoro, quel Gattopardo pur esso in grado di anticipare situazioni successive, ma scritto molto tempo dopo I viceré ed è quindi logico supporre fosse stato letto e in un certo qual senso preso a spunto e ad esempio da Tomasi di Lampedusa.
Dice bene Matteo Collura quando scrive che “Nel cospicuo contributo dato dagli scrittori siciliani alla moderna letteratura italiana, s’impone un dato costante: la delusione per la mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento, il fallimento delle speranze dei meridionali nel compiersi dell’Unità d’Italia. Viene da lì gran parte dei mali che continuano ad affliggere questo Paese, la scarsa autorevolezza dello Stato, le divisioni e incomprensioni tra regioni del Nord e regioni del Sud e, propriamente oggi, il rischio dello scardinamento dell’unità nazionale.”.
Indubbiamente, basterebbe solo questa visione profetica per classificare I Viceré come un capolavoro, ma c’è dell’altro, quali la caratterizzazione dei personaggi, invero troppi, ma precisa e rappresentativa di modi d’essere e pensare, l’atmosfera quasi irreale di un corpo in decomposizione pronto però a trasmigrare in un altro, fermo restando l’obiettivo di conservare le proprie prerogative. Negli Uzeda c’è tutta una famiglia stranamente attuale, con vizi, furberie, astuzie, cialtronerie e perciò senza cuore. De Roberto non ha pietà per questi personaggi, ma non travalica mai il limite sottile fra avversione e odio, quasi da spettatore e cronista di fatti che avverte come emblemi di una realtà ben più grande.
Benedetto Croce non ha quindi compreso l’effettivo significato dell’opera, soprattutto quando dice che non illumina l’intelletto, forse perché aborre l’idea che quello stato di cui fa parte è una struttura altamente imperfetta che deriva dal fallimento delle idee risorgimentali, pregevoli, eccellenti nelle intenzioni, scomparse nella realizzazione.
L’opera è invece indubbiamente pesante, troppo lunga, e caratterizzata da un ritmo lento che induce a frequenti soste durante la lettura, difetto che tuttavia incide in modo trascurabile sull’effettivo rilevante valore.
Da leggere, senza dubbio.
Tags: federico de roberto, i vicerè, Sarah Zappulla Muscarà
Scritto martedì, 18 gennaio 2011 alle 21:04 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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