lunedì, 14 marzo 2011
L’UNITA’ D’ITALIA E LE DONNE NEL RISORGIMENTO ITALIANO: la Mariannina Coffa di Maria Lucia Riccioli
Come tutti voi sapete, il 17 marzo 2011 si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Vorrei dedicare la pagina che state leggendo (e che spero possiate contribuire a riempire) a questa ricorrenza così importante.
Se penso a questa nostra terra mi sovviene la figura della madre, dunque della donna. Ecco perché vi propongo di partecipare ai festeggiamenti concentrandoci soprattutto sulle figure femminili che hanno attraversato il Risorgimento italiano e – più o meno indirettamente – con la loro vita e il loro operato hanno contribuito alla nascita di questo nostro Paese.
In particolare ci occuperemo di una figura meno nota di altre a livello nazionale e anche per questo maggiormente meritevole di essere messa in risalto: quella della poetessa siciliana Mariannina Coffa (1841 -1878). L’occasione ce la offre la recente uscita del romanzo d’esordio di Maria Lucia Riccioli (nella foto accanto), intitolato “Ferita all’ala un’allodola” (Perrone Lab, 2011) di cui approfondiremo la conoscenza nel corso della discussione.
A voi, amici di questo blog, rivolgo l’invito di scrivere qualcosa (un pensiero, una citazione, o quant’altro) per contribuire alla celebrazione della ricorrenza…
Sulla festa del 150°, inoltre, mi piace segnalare questo bell’articolo di Alessandro Mari pubblicato su Tuttolibri del 12 marzo, intitolato: Italia forever giovane e forte.
E a proposito delle donne del Risorgimento italiano, ci tengo pure a segnalare questo libro di Bruna Bertolo: “Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’unità d’Italia” (Ananke, 2011).
Di seguito, il booktrailer del romanzo “Ferita all’ala un’allodola” di Maria Lucia Riccioli e gli approfondimenti firmati da Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
In chiusura, l’inno di Mameli offertoci da Roberto Benigni nel corso di una serata del Festival di Sanremo di quest’anno.
Massimo Maugeri
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(booktrailer realizzato dall’artista Maria Francesca Di Natale, Sonia Vettorato esegue le musiche di Chopin che accompagnano il video)
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MARIA LUCIA RICCIOLI E MARIANNINA COFFA: UN INCONTRO
di Simona Lo Iacono
Tutto inizia in un cortile. La mattina è di quelle buone, il sole saetta come sempre fa in Sicilia, balzando sui dirupi e le nuvole. A Noto, poi, dove Maria Lucia si ferma, raddoppia l’intensità e la sferzata, perché pare farsi materia sulla materia del barocco, e incurvarsi, o arricciarsi, o gonfiarsi nel vezzo di questi balconi che tremano, di questi basalti rapaci, ghignanti, cui mano d’uomo ha dato forma di animale, di maschera balorda, di pietosissima impastatura di bestia e cristiano.
Non sa ancora che si fermerà lì, nei pressi del San Domenico. La strada fatta da Siracusa le pesa sul cuore, sebbene la nuova scuola in cui è stata chiamata a insegnare le piaccia, perché a percorrerla si snuda di quella fatica che troppo spesso è vivere, s’immette in un assaggio di paradiso, in un’ anticipazione, fastosa e luttuosa insieme, del suo vizio di sempre, o – come pure le piace chiamarla – della sua dannazione:scrivere.
E tuttavia non è preparata a questo incontro che sa già di destino segnato, Maria Lucia, finora ha imbastito versi da angelo, e la poesia non è cosa che ti venga contro come questi segnali. La poesia è dentro, lo sa bene lei che l’ha pescata nel respiro, non è come un romanzo, che – a iniziarne la trama – ti perseguita come un dio ostinato e malfattore che comincia a cospargere la tua strada di indizi. Ma da oggi imparerà che la sua storia non è più solo la sua, che sta per irrompere il flagello della narrazione con tutte le piaghe d’Egitto, la gioia, la paura, la rabbia, la speranza. Da quando si ferma in quel cortile e vede le due statue, Maria Lucia non sa ancora – infatti – che nella sua vita è entrata Mariannina.
All’inizio non le era sembrato niente più che uno di quei monumenti che si dedicano per ozio e reverenza alle ombre, ai resti del secolo, ma poi no, s’era detta, no. Questo che l’attirava con un dolore pungente, di fattucchiera, era diverso.
Due busti, infatti, uno a Matteo Raeli, che se ne stava impettito nel cortile a rasentare lo sguardo sul mondo. E poi l’altro, indecifrabile quasi, misterioso, notturno. Una donna levigata dalle rare piogge, la fronte ampia, l’occhio riverso a scrutare oltre. E poi – ma è davvero così o sogna, Maria Lucia? – basso su di lei come per una preghiera. Forse , una richiesta.
Certo, si dice sventrata dal richiamo, certo che a raccontarlo la prenderebbero per pazza. Ma le pare un incontro di carne, quello appena avvenuto, non la fissità della pietra (su cui campeggia inciso il nome di Marianna Coffa Caruso, poetessa) contro il sangue. Non l’eternità del tempo faccia a faccia col suo, di momento, veloce e appena scoccato, ma uno spazio in cui le è facile distinguere un’unica strada, senza barriere di prima e dopo, senza inciampi né logiche, suo, si dice Maria Lucia, e con lei Mariannina: nostro.
Così comincia. Come un riconoscimento.
E sì, di questa donna sapeva, della sua vita dolente di letterata. Del matrimonio cui la famiglia l’aveva costretta ignorando il suo amore per Ascenso Mauceri. All’università forse, le pare ora di ricordare, s’era detta che doveva essere stato difficile per Mariannina essere scrittrice in pieno risorgimento, mettere al mondo figli di un uomo che non senti tuo, forzarti a una vita da moglie che gli altri vogliono senza libri, senza sogni, senza quella pioggia di passi che invece sentiva scalpicciare nel fondo dell’anima, e che doveva tradurre in versi.
Questo s’era detta.
Ma ora, ad averla davanti, Mariannina, dritta come un fuso , raggelata in un marmo, privata, anche dopo, del rossore che la faceva bellissima, del coraggio con cui aveva sfidato le barriere della mentalità e dell’apparenza, Maria Lucia ha pure una vampata di sdegno, una morsicatura che la punge. E decide: ridarle vita.
Così, inizia a scoprirla. Nelle ore d’archivio, dove trova carte dei notabili di sua maestà Vittorio Emanule II di Savoia, ultimo re di Sardegna e primo re d’Italia. O a Noto, dove s’inerpica per le strade su cui spassavano gli adepti del l”Accademia dei trasformati” di cui Marianna fece parte con il nome di “inspirata”. E a Siracusa, dove aveva frequentato il collegio “Peratoner”, o a Ragusa, dove per puro caso alza gli occhi e le vien detto: è lì, che dopo sposata, viveva la Coffa Caruso. La conosce?
Maria Lucia inizia a seguire le tracce di cui sempre è cosparsa la letteratura quando risponde al suo segreto: essere una seconda possibilità. Resuscitare. Redimersi dall’unico peccato: finire, morire. Opporsi all’indecenza del silenzio, dell’oblio.
E spalanca i giorni, Maria Lucia. Ferma i minuti. Si trova a sfiatare nella canna di un flauto magico come un’incantatrice di serpenti che ridesta i torpori. Non le è difficile perché Marianna è lei e non è lei, una distanza la separa, ma anche la colma, e capisce, Maria Lucia, che quella è nostalgia, e che per questo può chiamarsi arte: perché adempie. Perciò non è arduo pensare i suoi pensieri, rievocare le voci, ridare al suo precettore – Don Sbano – il tono della cantilena netina, o al marito – Giorgio Morana – il fiato roco di quella prima notte d’amore che ha vissuto come un dovere, o all’amato Ascenso le negazioni e le affermazioni della passione, i sensi morti dell’abbandono, i veleni della gelosia e del rimpianto.
Maria Lucia Riccioli irrompe con questo suo primo romanzo facendosi mediatrice e creatrice, affermando la pietà e l’amore, dando consistenza irresistibile alla memoria.
Chiusa la pagina con l’ultima scena, ancora ambientata in quel cortile dove tutto è iniziato, Marianna svola dalla pietra, liberata, quasi una navigatrice alla prora o all’albero di maestra. Taglia il vento, sfida le onde, ride. Dietro sta la felicità perduta, i maledetti sogni delle donne, la loro innocenza e tracotanza insieme: trovare in un uomo il proprio destino. Forse a qualcuna sarà pure riuscito, pensa Mariannina, ma a lei non è stato dato, invece, che questo tempo circoscritto e traballante, queste mani che adesso stringono altre mani, inchiostro, carta, una penna.
Se esiste un destino che si compie su questa terra, sembra dirci, non è che quello di compassione. Di chi viene finalmente raccolto dall’altro e raccontato.
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MARIANNINA COFFA: IL CORAGGIO DELLA FERITA
di Luigi La Rosa
Profonde e indimenticabili le suggestioni prodotte in me dalla lettura di Ferita all’ala un’allodola, il romanzo che Maria Lucia Riccioli dedica all’esistenza tormentata e leggendaria della poetessa netina Mariannina Coffa. Un libro che nasce dalle viscere: che delle viscere possiede l’urgenza, la necessità, il fuoco intimo. Un libro che colma una delle più grandi lacune della storia letteraria italiana: nonostante i preziosi contributi di Marinella Fiume e altri eminenti studiosi, ancora troppo poco nota è infatti la vicenda umana ed esistenziale della Coffa, intellettuale, artista della parola, poeta, patriota, oltre che spirito libero di indomabile perspicacia.
Alcuni sono i temi più importanti che mi piacerebbe prendere in considerazione in questa breve analisi del testo. Primo tra tutti: il rapporto centrale e irrinunciabile tra sogno e tradimento, tra innocenza e caduta.
Mariannina Coffa è figlia della società borghese del Risorgimento. Per via paterna e famigliare le appartengono privilegi e speranze che si aprono dinnanzi al suo futuro come un ventaglio di rosee promesse. C’è luce nei suoi giorni, come nel lustro del suo cognome risonante. Mariannina è figlia di tutto un mondo fintamente scintillante, che investe nel suo talento, nel suo splendore, nella sua intelligenza. Ma che pretende obbedienza. In cui tutto ha un prezzo. E sa trasformare i benefici in spine che trapassano le carni.
Il futuro, divenuto presente, ha ben poco degli sfavillii che la sorte sembrava annunciare, soprattutto dove: “Il respiro è un ppp, un pianissimo come quelli delle partiture impolverate che si è portata dietro da Ragusa. Perché, poi. In questa casa non c’è pianoforte, a stento si mangia. Mariannina vuole vedere il cielo, vuole parlare alla luna di notte, come faceva a casa Coffa. Vuole scrivere ancora, magari anche sulle lenzuola, alla cieca, e poi decifrare al mattino i versi del suo genio notturno, l’Angelo che la visita e le detta dentro. Ma stanotte no. Gli occhi sono chiusi, le orecchie sorde alla musica divina dell’Angelo. Un diavolo si sta mangiando le sue carni.”
Un tradimento imperdonabile l’avvicina alla figura di un’altra donna ferita e umiliata nei suoi sogni più genuini. Un’altra vittima del suo tempo e dell’incomprensione sociale. L’ennesima allodola ferita all’ala, precipitata sui freddi sentieri del silenzio e dell’afonia. Mi riferisco ad Annemarie Schwarzenbach, narrata con accenti di toccante poesia da Melania Mazzucco, nel libro biografico Lei così amata. La gemellanza che lega le due figure mi sembra davvero emblematica, e il fascino con cui la grande scrittrice romana rievoca i giorni dolenti di Annemarie rimanda a quello che alona di sublime malinconia la Mariannina siciliana.
“La chiuderanno nella sua camera, fra i mobili che ha comprato lei stessa, le sue tende, i suoi libri, le sue cose che nessuno avrà toccato. Ma l’entità-Annemarie non sembrerà riconoscerle: non saprà più cos’è una macchina da scrivere, una penna, un foglio di carta, una fotografia. Nella casa di Sils-Baselgia ci sarà un silenzio mortale, e in lontananza si spegnerà anche l’eco delle campane della chiesa.”
Mariannina e Annemarie tacciono, perché il destino sembra averlo loro imposto. Perché non c’è ascolto intorno. Perché le parole sono fuggite lontane. E’ il loro canto del cigno, e tutt’intorno nessuno si chiederà il perché di una simile caduta, le motivazioni di uno spreco di sensibilità tanto imponente. Riflessione che ci conduce, inevitabilmente, al secondo grande tema del romanzo di Maria Lucia Riccioli: l’antitesi complessa e insanabile tra artista e contesto sociale d’appartenenza.
Mariannina insegue una direzione che sembra fissata fin dal principio, dai primi anni di vita. Lungo la strada risplendente che il genio parrebbe spianarle si annidano incognite pericolose e avvilenti, rancori, invidie sotterranee. Struggente dalla prima riga all’ultima il passaggio che rappresenta l’ingenuo e innocente tentativo di ribellione dell’artista davanti alla bieca normalità del gregge.
“Da quanto tempo teneva la mano alzata? Serra si riscosse da quelle che bollò come fantasticherie e abbassò lo sguardo dalla predella su uno dei banchi mediani. La signorina Coffa Caruso voleva porgli una domanda. Che non avesse compreso il compito? Che la fanciulla volesse mettersi in mostra? Una risatina o due subito interrotte dalla mano alzata di Serra. Invidie e gelosie erano le serpi consuete che strisciavano nelle teste di ragazzine che il volere dei genitori aveva rinchiuse in questo angolo di Siracusa, a dormire e studiare testa con testa, gomito a gomito, la dotata con l’indolente, la volenterosa con la promossa a via di denari del padre medico o funzionario del governo.”
Maria Lucia Riccioli manifesta una consapevolezza rara, che è la stessa dei grandi romanzieri del passato. Come Tolstoj nella Karenina, così pure lei organizza tra le sue pagine la fitta maglia delle anticipazioni e forgia l’infanzia sognante della Coffa nella materia combattuta di quelle prime nuvolose mutevolezze, indice e profezia della ventura battaglia contro la società e il suo perbenismo.
Mariannina sarà domani una donna diversa perché è stata ieri una bambina segnata, e perché il fuoco è disceso in lei, fin dalla tenera età dei primi studi. Sarà una donna sola, perché sente che è nella solitudine che ci è dato percepire il respiro possente delle cose. E sarà anzitutto se stessa, perché non v’è tradimento più grande che quello nei confronti della verità e del cuore.
Ma anche di questo la vita la costringerà a macchiarsi: del tradimento dell’amore. Per questo, poi, non ci sarà pietà dei suoi giorni. Del suo dolore. La passione di Mariannina Coffa per il giovane Ascenso Mauceri, prestante Bellini di provincia, che la scrittura della Riccioli solfeggia con accenti di intensa sensualità, prima o poi è condannata all’oblio. Le dure leggi della rispettabilità borghese impongono una differente unione, un matrimonio che ha dell’inverosimile e dell’assurdo. Tuttavia, il giuramento della Coffa è indelebile, e possiede la forza dell’acciaio e della pietra. E’ qualcosa che niente potrà mai abbattere.
“Vero è che si è tentato di dividerci, e mia madre era più d’ogni altro impegnata a farmi sposa di quel tale, ma io sfiderò gli uomini e il destino, né mai sarò d’un essere che non ha altro merito che le sue ricchezze. Non dolerti per me, che presta ad ogni sacrificio saprò anche morire per esserti fedele. Addio – amami sempre. La tua Mariannina.”
L’ipotetica incrollabilità del patto amoroso si scontra con la realtà: pian piano l’amore tra il musicista e la poetessa dal fato infelice svanirà, perché nuovi obblighi, nuove impellenze – e soprattutto nuovi lancinanti dolori – si abbatteranno sui pochi giorni che il cielo sembra disposto a concederle. Controversie famigliari, ribellioni, abbandoni, lutti personali, discese quotidiane agli inferi del risentimento e della rabbia. Un inferno da cui non ci sarà nessuno scampo, se non grazie al potere salvifico della scrittura e al miracolo terapeutico dei versi inanellati in appelli strazianti e disperati.
Viene da chiedersi: cosa è successo nell’esistenza, cosa succede nel cuore di Mariannina Coffa? Ferita all’ala un’allodola manifesta d’un tratto la sua profondità, proprio nel punto in cui la vicenda si carica di tensione psicologica, e il dramma dell’una si tramuta nella parabola universale delle tante, le molte, tutte le donne che esattamente come lei subiscono la sistematica imposizione di una poetica di vita, il sigillo comportamentale che più si conviene, la schiavitù dei sensi contro cui non bastano più parole e lacrime.
Maria Lucia Riccioli ci regala un’opera d’indiscutibile valore, oltre che un’avventura dello spirito di frastornante bellezza. Leggere questo libro significa restituire voce all’assenza, corpo alla fuga, necessità all’impegno e lineamento a una donna eccezionale, che lascia il segno in un’impronta civile di rigorosissimo impatto. Inseguendola, ci accorgiamo che Mariannina sta parlando di noi. Di noi tutti. E della nostra tristezza. Ma pure del nostro coraggio, di quello che ostentiamo davanti ai propositi traditi, agli inganni non meditati, ai pentimenti che si tramutano in fiele, e che ci tocca mandar giù, goccia per goccia. La luce s’è abbassata, e sul fondo, ora, solo il silenzio rotto dal canto. In quel silenzio, le allodole sono tornate a volare.
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Scritto lunedì, 14 marzo 2011 alle 19:11 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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