giovedì, 12 settembre 2013
DAVID FOSTER WALLACE
Il 12 settembre 2008 moriva lo scrittore statunitense David Foster Wallace (nato il 21 febbraio 1962), autore di opere importanti come “La scopa del sistema“, “La ragazza con i capelli strani“, “Infinite Jest” (giusto per citarne qualcuna).
A cinque anni dalla scomparsa, vorrei ricordarlo riproponendo questo post.
Ne approfitto per segnalare quest’altro post, in tema, pubblicato su LetteratitudineNews.
Massimo Maugeri
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Post del 14 settembre 2008
Il 12 settembre si è suicidato lo scrittore americano David Foster Wallace.
Aveva 46 anni. Si è ucciso impiccandosi nella sua abitazione di Claremont, in California. Il cadavere è stato rinvenuto dalla moglie, Karen Green, alle ore 21.30.
Foster Wallace è diventato un autore di culto (anche se non mancano i detrattori), soprattutto in seguito alla pubblicazione dell’opera monumentale “Infinite Jest” (più di mille pagine… qui in Italia pubblicato prima da Fandango e poi da Einaudi).
Un altro scrittore che si aggiunge alla lista degli artisti della penna che hanno deciso di spegnere l’interruttore dell’esistenza (e potremmo anche discutere sul tema difficilissimo del suicidio).
Tempo fa lo stesso Wallace ebbe modo di sostenere: “Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili” (da Brevi interviste con uomini schifosi).
Quella che segue, invece, è una citazione tratta da “Infinite Jest”:
La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.
Rattristato dalla notizia della morte mi piacerebbe ricordare David Foster Wallace, il suo talento letterario e la sua opera principale: “Infinite Jest“, appunto. Qualcuno di voi ha letto questo libro?
Di seguito potrete leggere l’estratto di un’intervista – pubblicata su Repubblica del 23 dicembre 2000 – che Foster Wallace rilasciò ad Antonio Monda.
Massimo Maugeri
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da Repubblica — 23 dicembre 2000
di Antonio Monda
La consacrazione culturale del grande talento di David Foster Wallace avvenne con un ritratto sul New York Times pubblicato in occasione dell’uscita negli Stati Uniti di Infinite Jest. La dimensione monumentale del libro aveva sorpreso chi si aspettava in piena epoca minimalista un nuovo capitolo irridente dell’affresco americano iniziato con The Broom of the system (La scopa del sistema) ma l’uso entusiasta del termine “genio” usato ripetutamente da Esquire e i paragoni con Joyce suggerito dalla Midwest Book Review e con Poe dal New York Times Book Review, aprirono le porte ad una celebrazione mediatica nella quale venne proclamata la nascita del «piu’ eccitante e interessante talento della sua generazione». Ad incontrarlo oggi, Wallace appare un ragazzo dallo sguardo ferito, che vive con sospetto lo straordinario successo critico e non nasconde le sbandate di una vita irregolare che sembra aver trovato un po’ di pace nel ritiro nel piccolo centro di Bloomington, nell’Illinois. La sua ironia cela sempre il dolore, il suo giudizio tagliente una malinconia venata di incertezza, il racconto affascinato di personaggi più grandi della vita una concezione dell’esistenza che ha ben poco di grande, e che trova nell’aurea mediocritas una possibile risposta al mistero del vivere. Ha deciso di non scrivere saggi e articoli per almeno due anni, ma rivela di sentirne già la mancanza…
Lei crede al potere di redenzione dell’arte?
«Certamente, ma esito sempre nell’identificare pubblicamente le opere che hanno avuto un tale effetto su di me. E’ una forma di pudore, ma anche una constatazione: esistono libri, quadri, brani musicali o film che riescono a svolgere un determinato ruolo soltanto in particolarissimi momenti».
Quali sono i libri che l’hanno influenzata come scrittore?
«La lista sarebbe lunghissima. Le cito due romanzi di Manuel Puig che hanno avuto un ruolo fondamentale: Il bacio della donna ragno e Il tradimento di Rita Hayworth».
Lei si e’ ritirato in un piccolo centro che è difficile non definire «in the middle of nowhere». In questo lei è simile a Salinger, De Lillo, Pynchon… Come mai molti dei piu’ importanti scrittori americani hanno deciso di vivere in un isolamento quasi assoluto?
«Ogni caso ovviamente e’ differente, ma la mia impressione è che ci sia una crescente cautela, e a volte una reazione netta, nei confronti dell’esposizione pubblicitaria. Sempre più spesso si rischia di cambiare geneticamente il senso ultimo di una scelta di vita artistica. Per uno scrittore l’espressione artistica è una necessità, e ciò che lui crea è un fine, non un mezzo. Ho l’impressione che questo fenomeno sia soprattutto statunitense perché l’America è il paese dove è più evidente la cultura della celebrità, e dove è più smaccata la confusione tra apparenza e sostanza. Io provo nei confronti degli eventi sociali lo stesso tipo di reazione che ho quando viene scattata una foto con il flash: non riesco a vedere bene, mentre gli altri mi vedono sotto una luce falsa».
Come mai mescola costantemente personaggi reali come il presidente Johnson ad altri puramente immaginari?
«Molti di questi personaggi nascono da una conoscenza televisiva, quindi indiretta, se non addirittura irreale. Ricordo ad esempio che da bambino vedevo Johnson in televisione: si trattava di una presenza costante, della quale conoscevo le espressioni, la cadenza, i modi di muoversi. Ero affascinato dalla sua personalità, tuttavia non potevo certo dire di conoscerlo. Ritengo che non sia possibile fare una vera e propria distinzione, ma nello stesso tempo ciò ci deve portare a riflettere su cosa consideriamo realtà, e su quello che ci viene propinata come tale. Sempre più spesso assistiamo ad azioni o dichiarazioni fatte ad uso e consumo dei media, che pretendono di acquistare la dignità della realtà».
Ritiene che il linguaggio televisivo sia dannoso anche per la letteratura?
«Terribilmente, ma si deve estendere il discorso anche a realtà più nuove come Internet. Io insegno letteratura inglese, ed è deprimente vedere come ogni anno si registri meno passione, meno cultura, e conseguentemente una minore qualità nella scrittura».
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Tags: david foster wallace, einaudi, fandango, infinite jest, suicidio
Scritto giovedì, 12 settembre 2013 alle 19:50 nella categoria A A - I FORUM APERTI DI LETTERATITUDINE, EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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