sabato, 25 ottobre 2014
SALVARE MOZART, di Raphaël Jerusalmy
Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.
Protagonista del post è SALVARE MOZART, romanzo di Raphaël Jerusalmy, pubblicato dalle edizioni e/o.
Di seguito la recensione di Claudio Morandini).
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SALVARE MOZART, di Raphaël Jerusalmy, edizioni e/o (traduzione di Gaia Panfili)
“Salvare Mozart” di Raphaël Jerusalmy, tradotto in modo eccellente da Gaia Panfili, racconta lo scontro tra due diverse concezioni della musica (e della vita, in buona sostanza). Da una parte troviamo il protagonista Otto J. Steiner, che malato, sconfitto, burbero, recluso in un sanatorio cascante, confida i suoi umori alle pagine di un frammentario diario destinato al figlio lontano. Ci troviamo a Salisburgo, tra il 1939 e il 1940 (Salisburgo? Una voce narrante “burbera”? Non siamo lontani dai rimuginii di Thomas Bernhard): l’Austria ha aderito con allarmante entusiasmo all’annessione con la Germania di Hitler, e il nazismo imperversa ovunque. All’inizio Steiner, che vivrebbe circondato dalla musica, se potesse, se gli lasciassero il grammofono, e ascolta fino a consumarli i pochi dischi che gli sono rimasti, scopre di condividere l’amore per la musica con i nazisti – e questo lo preoccupa, lo riempie di dubbi. Prima del ricovero va ad assistere a un concerto (“Il ratto dal serraglio” diretto da Böhm, “un’interpretazione… brillante, poderosa, immensa”), si trova circondato da ufficiali nazisti, c’è anche Hitler in un palco. Perché perseguitati e persecutori condividono gli stessi gusti? Le differenze emergeranno chiare, definitive, più avanti, quando il kitsch dei nazisti e dei loro complici infetterà Salisburgo e il suo Festival, trasformandolo in “una sagra di militari in libera uscita e buzzurri impinguinati”, con direttori come Böhm e Léhar che brandiscono “le loro bacchette come randelli” e se ne stanno sul podio a dirigere “come caporali” (quest’ultima cosa la si dice di Heinz Hilpert, che però, a dire il vero, era regista, non direttore d’orchestra).
Agli antipodi del gusto di Steiner si trovano proprio i melomani di marca germanica, amanti di marcette e valzer, pronti a scattare sull’attenti allo squillo di una fanfara, prigionieri, per così dire, di una concezione militaresca della musica, incapaci di apprezzare le sfumature di un’esecuzione meditata e invece esaltati da interpretazioni tronfie, retoriche – lontanissimi da quel Mozart che per Steiner finisce per rappresentare l’ultima voce da preservare, l’ultima oasi di bellezza in un mondo in declino verso il brutto (e l’orrore). “Il nostro Mozart” scriverà verso la fine, “non il loro”: musica cioè che i gerarchi nazisti non sanno capire, anche se la ascoltano compunti, e che nemmeno i loro lacchè possono capire, anche se la sanno eseguire. Nelle sue proposte meno volgari ed effimere la musica tedesca è comunque intrisa di “lirismo esaltato, grandioso”, in nome di “una sorta di romanticismo esacerbato” di marca genericamente straussiana che al tempo stesso esprima “l’impeto del Reich” e si tenga lontano “dai patemi e dalla tetraggine” della musica non di regime. (continua…)
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