martedì, 14 aprile 2015
SOLI ERAVAMO – di Fabrizio Coscia
Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia.
Un libro, in questo caso, che non si occupa solo di letteratura, ma (più in generale) di arte… tornando, però, alla letteratura.
Possono un romanzo, una poesia, un quadro o una musica cambiare la nostra vita? Illuminarla di un significato che ci era stato nascosto fino a un attimo prima? Mostrarci una strada mai percorsa? Secondo l’autore di questo libro sì. A patto di lasciarci coinvolgere incondizionatamente dall’amore per l’arte.
Di seguito: un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine, in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.
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Fabrizio Coscia ci “racconta” SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore)
di Fabrizio Coscia
Ho scritto questo libro perché volevo guadagnarmi uno spazio di libertà, innanzitutto. Libertà dai generi, dai vincoli, dalle regole editoriali. E perché era da un po’ di tempo che provavo una certa stanchezza nei confronti della fiction, della terza persona, delle storie da inventare. Ho provato, allora, a mettermi nei panni del lettore, prima ancora che dello scrittore. E ho cercato una voce affidabile, credibile, da modulare. Sono nate così queste piccole storie che parlano di grandi scrittori, artisti, compositori, delle loro vicende biografiche e delle loro opere, raccontate da un personaggio-uomo (per usare una celebre definizione di Giacomo Debenedetti) che dice io, e che porta con sé tutto il suo carico di vissuto e tutta la sua esperienza di lettore emotivo: un lettore in carne e ossa e anima, che inframmezza i suoi ricordi, le sue sensazioni ai racconti degli episodi biografici. Ne è venuta fuori una sorta di romanzo di formazione, di autobiografia intellettuale, anche se in tono minore, qualcosa che però sfugge a una definizione univoca, perché, appunto, scritto in piena libertà di intenti. Si racconta, dunque, della tardiva e fatale fuga dall’oppressione matrimoniale di un Tolstoj ottantaduenne e di quella ribelle e adolescenziale di Rimbaud per l’Africa. Si racconta di un Kafka che s’improvvisa postino delle bambole per lenire il dolore di una bambina in un parco di Berlino; di un quadro di Edward Hopper che rimanda al finale di un racconto di Joyce, dell’incontro disastroso dello stesso Joyce con Proust, di un Leopardi ingordo di gelati, dei «suicidi imperfetti» di Virginia Woolf e Cesare Pavese, della fucilazione di Garcia Lorca e Isaak Babel’, dell’incontro probabilissimo tra il vecchio Casanova e il «Don Giovanni» di Mozart. E ancora: della vita e dell’arte votati consapevolmente al fallimento di Silvio D’Arzo e Robert Browning, della misteriosa vita erotico-sentimentale di Schubert e del «desiderio triangolare» che lega Brahms, Schumann e sua moglie Clara, della volontà di sparire completamente di Robert Walser, del doppio omicidio passionale di Carlo Gesualdo e di Gianciotto Malatesta.
E si racconta della vita e della musica di Bill Evans, sublime pianista jazz e martire dell’eroina, di una canzone dei Radiohead, dei quadri di Vermeer e Caravaggio e delle poesie d’amore di Keats, del mantello di Albertine, il personaggio della Recherche proustiana, e del canto ferito di Violeta Parra. E ciascuno di questi racconti è filtrato dalla sensibilità di un narratore che non esita a mostrarsi così com’è: non solo un decifratore di segni, un estensore di note, un compilatore di ecfrasi (ovvero quella descrizione di opere d’arte con cui da sempre – fin dai tempi di Omero – la prosa si cimenta, in una sorta di gara nel dire ciò che non può dire, nel raccontare le immagini, la musica o in generale l’altro da sé); ma anche e soprattutto una voce nuda, che si mostra così com’è, senza infingimenti. Tutti questi miei racconti rappresentano così altrettante tappe nel percorso di un viaggio interiore, al quale mi ha spinto da un lato la mia sconfinata ammirazione per questi artisti (esercizi di ammirazione, potrebbero, infatti, essere definiti), e dall’altro, forse, un presentimento di “fine dei tempi”, come se avessi voluto intonare un commosso, partecipato epicedio per un’idea di cultura che ha accompagnato la mia giovinezza e che vedo allontanarsi sempre di più dall’orizzonte formativo dei giovani con cui mi trovo ogni giorno, per il mio lavoro di insegnante, a parlare e a confrontarmi. Sarei felice, naturalmente, di sbagliarmi: mi piacerebbe addirittura che questo mio piccolo libro potesse invece risvegliare curiosità e nuovi ardori. In fondo, è semplicemente un libro che parla di altri libri, di quadri, di musiche, o delle vite di coloro che hanno scritto, dipinto, composto. Un tentativo di dimostrare quanto l’arte possa arricchire la nostra esistenza, ma anche lenire le sue ferite o illuminarla di significati nascosti e perfino mostrarci il suo lato meno addomesticabile e più insondabile. Un libro, dunque, che racconta la vita attraverso l’arte e l’arte attraverso la vita.
(Riproduzione riservata)
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da SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia
KAFKA, IL POSTINO DELLE BAMBOLE
Di fronte al pianto disperato di mia figlia, alla quale avevo strappato via da mano, per punirla di un capriccio, il libro appena regalatole – quel pianto struggente, catastrofico, indifeso, che solo i bambini sono capaci di produrre, come se tutto il dolore del mondo sgorgasse dalle loro lacrime – mi tornò in mente una volta una delle storie più bizzarre e commoventi che conosca. La storia di un altro disperato pianto di bambina, nel quale s’imbatté per caso in un parco berlinese, nel 1923, Franz Kafka. Lo scrittore si era appena trasferito a Berlino, dove viveva con la giovane polacca Dora Diamant, ebrea come lui, conosciuta quell’estate in una stazione balneare sul Baltico. Con lei – forse il suo unico, vero amore – Kafka avrebbe trascorso, a quanto pare serenamente, l’ultimo anno della sua vita, facendo progetti comuni, come quello di emigrare insieme in Palestina e di aprire un ristorante (suppongo vegetariano) a Tel Aviv.
Anche quel giorno Kafka e Dora erano insieme, al parco di Steglitz, dove passeggiavano spesso, quando incontrarono la bambina che piangeva. I due le si accostarono e cominciarono a parlare con la piccola, cercando di rassicurarla. Lui le domandò cos’era che la faceva tanto soffrire, e se si fosse persa.
«Non io, la mia bambola si è persa», gli rispose lei, tra i singhiozzi.
Sorpreso dalla risposta, Kafka s’inventò lì per lì una scusa per spiegare quella sparizione e cercare di lenire il dolore della bambina.
«La tua bambola non si è persa – le disse – È solo partita per un viaggio».
La bambina lo guardò diffidente.
«E tu che ne sai?» gli chiese, smettendo di piangere.
«Lo so. Mi ha mandato una lettera», le rispose Kafka, fingendo di essere un postino delle bambole.
«Ce l’hai qui con te?» gli chiese ancora la piccola.
«No, mi dispiace, l’ho lasciata a casa. Però domani te la porterò».
Era bastata quella promessa a far dimenticare alla bambina il dolore della scomparsa. Incerta se credere o no a quel signore dal sorriso gentile, alto e snello, elegante e dalla pelle olivastra come quella di un principe indiano, e sempre più incuriosita, la bimba decise di fidarsi.
«Allora ti aspetto qui, domani».
Kafka tornò subito a casa e si mise a scrivere la lettera della bambola. Dora, che per fortuna ci ha raccontato nelle sue memorie questo stupefacente aneddoto, dirà che quel giorno lo vide entrare «nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania».
Il giorno dopo Kafka ritorna al parco con la lettera e trova la bambina che lo sta aspettando, seduta su una panchina. E lui, con voce serissima e mansueta, le legge il messaggio della bambola. È molto dispiaciuta di averla lasciata, le dice, ma aveva bisogno di cambiare aria, di conoscere il mondo. Non è che non vuole più bene alla bambina: ha solo voglia di viaggiare, incontrare altra gente, fare nuove esperienze. E a questo punto succede qualcosa di sensazionale: Kafka, l’autore di capolavori che hanno cambiato il nostro modo di vedere la realtà, l’uomo che già sapeva di avere i giorni contati perché ammalato – morirà di lì a poco di tisi in un sanatorio nei pressi di Vienna, a 41 anni – si impegna a scrivere ogni giorno una lettera alla bambina, per aggiornarla su come sta e su quello che sta facendo la sua bambola. Glielo fa promettere dalla bambola stessa, nella lettera, e manterrà la promessa per le successive tre settimane. Venti lettere per venti giorni, scritte con la massima dedizione, con ascetico impegno, al solo scopo di rendere accettabile per la bambina l’angoscia dell’abbandono, il trauma della separazione. Un gioco serissimo, spinto fino al limite del possibile. Ogni giorno Kafka si reca al parco, si siede sulla panchina accanto alla bambina e le legge una lettera. La bambola cresce, comincia ad andare a scuola, a fare nuove amicizie, continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma ogni volta si frappone qualche ostacolo, qualche complicazione che non le permette di tornare. Kafka ritarda il momento dell’addio definitivo, costruisce divagazioni, sotterfugi, rallentamenti. Dora ricorda addirittura che aveva una «paura terribile» di non essere all’altezza di scrivere un finale autentico. In realtà ha paura che la scrittura possa non reggere l’urto della verità, che si riveli inefficace, incapace di creare un ordine che sostituisca «il disordine causato dalla perdita del giocattolo». Guarire il dolore della bambina è l’unico obiettivo che Kafka si pone in quei venti giorni, continuando a intrecciare quella implacabile, rigorosa menzogna che è la letteratura, nella quale il genio di Praga ha identificato tutto il suo essere e tutta la sua vita («Non posso né voglio essere altro che letteratura», scrisse nei suoi Diari). È come se di fronte a quel pianto di bambina – e alla possibile capacità di compensazione, di risanamento della parola – si giocasse la sua intera esistenza di scrittore.
Dopo molte riflessioni e incertezze, Kafka decise infine di far sposare la bambola. Nella sua ultima lettera descrisse il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio in tutti i dettagli, e perfino la casa dove i novelli sposi sarebbero andati a vivere. Alla fine, le ultime parole che la bambola scrive alla bambina sono queste: «Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro».
Quel che mi sorprende, in questa storia di Kafka e della bambina nel parco, è il fatto che non abbia in fondo proprio nulla di kafkiano. È una storia piena di tenerezza e di umanità, con tratti perfino patetici. Per non parlare del finale immaginato nelle lettere, così consolatorio e convenzionale, col matrimonio della bambola. Niente di più lontano dall’arcano e crudele mondo di Kafka, fatto di punizioni efferate e condanne inesplicabili, metamorfosi orrende e strani incroci, esecuzioni e macchine di torture, messaggi mai arrivati e divieti incomprensibili. Eppure, quanta profonda saggezza si nasconde in questo episodio di vita tardivo! Forse, a pensarci bene, l’aspetto più kafkiano dell’intera vicenda è proprio la sua imprevedibilità, e la capacità di rivelarci una verità nascosta, che il pianto disperato di mia figlia mi aveva fatto appena intravedere, tutta consegnata nell’ultima frase dell’ultima lettera scritta dalla bambola e portata dal postino Kafka: «Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro».
Alla fine, dunque, il miracolo della scrittura si compie. I venti giorni non sono passati invano e le lettere – che la Gestapo sequestrerà a Dora Diamant, privandoci per sempre di un tesoro inestimabile – hanno adempiuto al loro scopo, preparando il distacco. La piccola, infatti, accetta finalmente la sparizione della bambola, la rinuncia. E accetta l’ineluttabile necessità che ci spinge avanti, ci provoca strappi, abbandoni, conflitti, paure.
Perché nel pianto della bambina nel parco che ha perso la sua bambola preferita – così come nel pianto di mia figlia che si è vista portar via da suo padre il libro illustrato che lui stesso le aveva appena donato – c’è in fondo l’infelicità di chi si affaccia alla vita. Un’infelicità che va presa molto sul serio, e che va condivisa, cercando un accomodamento, un varco, una transazione possibile: «Vedi tu stessa», scrive, non a caso, la bambola. Come a dire che non può esserci alternativa al riconoscimento della necessità del dolore. La bambola persa, il libro negato non sono infatti che le prime prefigurazioni di ciò che ci verrà tolto. È per questo che Franz Kafka, tra gli autori più impenetrabili della cultura occidentale, dedicò gli ultimi giorni della sua vita di scrittore a inventarsi semplici lettere di una immaginaria bambola per consolare una bimba sconosciuta. Perché sapeva che la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca. E sapeva che quel dolore, quel vuoto, ci riguarda tutti. Ci interroga tutti.
(Riproduzione riservata)
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Fabrizio Coscia, Napoli, 1967. È insegnante, scrittore e giornalista. Ha collaborato al quotidiano «Liberazione» e al settimanale «Il Diario». Scrive da anni sulle pagine culturali del quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo Notte abissina (Avagliano, 2006) e il racconto «Dove finisce il dolore», nella raccolta antologica Napoli per le strade (Azimut, 2009, Premio Girulà 2009).
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Scritto martedì, 14 aprile 2015 alle 20:00 nella categoria SAGGISTICA LETTERARIA. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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