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Archivio del 10 settembre 2017

domenica, 10 settembre 2017

DONATELLA DI PIETRANTONIO vince il PREMIO CAMPIELLO 2017 (con “L’Arminuta” – Einaudi)

DONATELLA DI PIETRANTONIO vince il PREMIO CAMPIELLO 2017 (con “L’Arminuta” – Einaudi)


Donatella Di Pietrantonio, con “L’Arminuta” (Einaudi), ha beneficiato di 133 voti sui 282 inviati dalla Giuria dei Trecento Lettori Anonimi. Secondo classificato: Stefano Massini, con  “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori), 99 voti. Terzo classificato: Mauro Covacich, con “La città interiore” (La nave di Teseo), 25 voti. In quarta posizione: Alessandra Sarchi, con “La notte ha la mia voce” (Einaudi), 13 voti. Al quinto posto: Laura Pugno con “La ragazza selvaggia” (Marsilio), 12 voti.

In esclusiva per Letteratitudine  Donatella Di Pietrantonio ci ha parlato de L’ARMINUTA (Einaudi) offrendoci questo racconto delizioso e toccante

* * *

di Donatella Di Pietrantonio

Ero bambina, abitavo con la mia famiglia in un piccolo borgo del teramano, ai confini con la provincia di Pescara. Sopra di noi il Monte Camicia, così vicino da non poterne vedere la vetta. Era una contrada remota, non arrivava mai nessuno fin lì, il sentiero che portava alle case era battuto solo dai pochi abitanti. I parenti venivano in occasione della trebbiatura in estate e dell’uccisione del maiale in inverno. Erano quelli gli eventi più importanti dell’anno.

La sera, davanti alla fiamma vivace del camino, gli adulti raccontavano storie, ma vere. Nel debole chiarore del lume ad acetilene noi bambini ascoltavamo, seduti su bassi sgabelli di legno. Una volta li sentimmo parlare di una famiglia povera e numerosa che aveva ceduto l’ultimo nato a una coppia di parenti sterili. Dicevano che lu cìtile era fortunato perché quelli che lo avevano preso tenevano la roba. Molti ettari di terreno, numerosi capi di bestiame nelle stalle, il casolare rimesso a nuovo. Abitavano vicino al paese e gli avrebbero inzuccherato la bocca al piccolino, così diceva una mia zia acquisita.

“Stai attenta tu, con quella lingua lunga” ammonì poi voltandosi dalla mia parte.

Cosa intendeva, che potevo essere data pure io? Aveva suggerito più di una volta a mia madre di prendere provvedimenti nei miei confronti, “non sta bene che essa risponde”. Rispondere agli adulti equivaleva a mancargli di rispetto.

In estate conobbi un cugino di mio padre, molto più giovane di lui. Sembrava triste, sotto il cappello la fronte già segnata da una ruga profonda a forma di emme. Era venuto a trovarci insieme ai suoi genitori e non gli somigliava affatto. Loro molto scuri di carnagione e capelli, lui pallido e con la testa bianca, dietro gli occhiali le iridi di un azzurro così chiaro da sembrare trasparenti. Al mio stupore per quel suo aspetto gracile, da vecchietto precoce, mio padre rispose tranquillo:

“Non gli somiglia no agli zii, mica è il figlio. Gliel’hanno dato certi parenti alla lontana, quando teneva una decina d’anni. A essi le creature non gli venivano”.

La rivelazione mi tolse il sonno, trasformò ai miei occhi un evento eccezionale in pratica comune. Prima quel neonato di cui parlavano nelle sere d’inverno, poi il cugino Settimio.

Il suo nome raccontava quanti erano nati prima di lui nella famiglia che poi l’aveva ceduto, ma il suo soprannome era “occhi bianchi”. Mio padre non era legato a lui come agli altri cugini, che trattava quasi da fratelli. Settimio era considerato un diverso, un malato, uno che mai avrebbe potuto dare una mano nei campi. Pochi minuti di esposizione al sole erano sufficienti a ustionarlo. Veniva sempre lasciato a casa, sia nella prima che nella seconda famiglia, “sennò si coce”, dicevano. Era albino, ma non potevo saperlo. Sapevo invece che altri due fratelli erano nati dopo di lui, ma erano stati tenuti in famiglia. I suoi non l’avevano dato in quanto poveri o troppi, ma per la sua bianchezza e inabilità al lavoro. I genitori adottivi l’avevano preso lo stesso, erano già un po’ in là con gli anni e un figlio lo volevano a tutti i costi. Come bastone per la vecchiaia, diceva mia madre, sarebbe andato bene pure “occhi bianchi”.

Lo vedevamo di rado, Settimio, solo a qualche cerimonia che riuniva il parentado. Matrimoni, funerali. All’aperto portava sempre il cappello. Provavo pena per lui, con quella emme di tristezza indelebile sulla fronte. La storia sua e di quel neonato agitava i miei sonni. La condizione di figli non era sicura. Per restare figli occorrevano dei requisiti e io non ero più certa di possederli tutti. Ero troppo magra, per esempio. Un nostro vicino diceva che prima o poi il vento si sarebbe infilato sotto la mia gonna e sarei volata via, così leggera. Ma soprattutto l’eccessiva magrezza dava l’impressione che anch’io fossi troppo debole per aiutare nei lavori domestici.

“Tua figlia è buona solo per la scuola”, mio nonno paterno lo rinfacciava spesso a mia madre.

Sono trascorsi decenni da allora. Il vento non mi ha portata via e i miei genitori mi hanno sostenuta negli studi. Di tanto in tanto ho chiesto notizie di Settimio, che non incontravo quasi mai. Si era sposato e aveva avuto due figli, un maschio e una femmina. Deve averli molto amati, i parenti lo criticavano per questo: “sta sempre appresso a essi”. Solo al mare non poteva accompagnarli, anche con il cappello era troppo rischioso.

Nonostante tutte le attenzioni se n’è andato qualche tempo fa, per un tumore della pelle. La testa bianca era ormai giusta per la sua età e sulla fronte la ruga a emme si era distesa nella falsa serenità della morte. “L’Arminuta” è dedicata anche a lui.

(Riproduzione riservata)

© Donatella Di Pietrantonio

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(continua…)

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