lunedì, 2 aprile 2007
SULLA PUBBLICAZIONE DI OPERE TEATRALI IN LINGUA ITALIANA (di Isabella Rinaldi)
Minuscole compagnie si autoproducono, ospitate nei teatrini degli oratori di periferia e, nel disperato tentativo di richiamare pubblico, limitano il repertorio ad autori noti.
Gli autori scelti sono sempre quelli più facili vicini alla cultura anche di oggi, diciamo che i grandi classici, che tali sono per ovvi e meritati motivi, sono sempre in scena, mentre ci sono autori meritevoli che hanno una eco minima e presto vengono dimenticati.
Non essendo un’esperta, né un’assidua frequentatrice di teatri, posso solo lamentarmi, con la voce (scarsa) della quivis de populo appassionata lettrice, perché nemmeno l’editoria degna di nota la poetica del teatro.
Chi, come me, ha praticato da entrambe le parti l’editoria (come lettrice e traduttrice prima e come scrittrice poi), tristemente conosce i problemi economici che influenzano la pubblicazione.
Produrre un libro, per una casa editrice, ha un costo molto alto.
Le piccole case editrici che vorrebbero diffondere cultura e impegno, sono strangolate dalla distribuzione e dalle richieste delle librerie, che, nella logica del commercio (è un ossimoro) devono esporre i prodotti che vendono, cioè che vadano incontro alle richieste del pubblico pagante.
Dunque, per tornare al teatro, un’amante di questo particolarissimo genere, dopo aver esaurito nell’infanzia e nell’adolescenza tutti i classici, deve avere buone gambe per perlustrare tutte le librerie, specialmente quelle che vendono libri usati (per tacer di quelli antichi).
Che fortuna! A me piace camminare!
E camminando, amando il teatro e perlustrando ogni infimo scaffale dei grigi bugigattoli – dove si vendono intere biblioteche personali di colti trapassati – ho scoperto, circa quindici anni fa, la produzione del signor Jean Tardieu (1903 – 1995).
Jean Tardieu
*
Autore poco prolifico, ma con linguaggio eclettico, Tardieu scrive poesie, narrativa, lavora per la radio e, ciò di cui parlo adesso, scrive piccoli pezzi di teatro da camera, negli anni Cinquanta, quando in Francia il teatro aveva un’importanza che qui da noi non ha conquistato neppure nelle frequentatissime cantine degli anni Settanta.
Dunque, le opere da camera di Tardieu sono brevi atti unici, che realizzare, per via delle scene sempre scarne indicate dall’autore, costerebbe poco davvero.
Eppure nessuno lo fa.
Nessuno, nemmeno gli amanti del teatro dell’assurdo, pare abbia pensato a recitare questi piccoli, brevi, godibili capolavori.
E allora intervengo io, che ve li racconto, dopo averli faticosamente (e inutilmente) cercati nell’unica edizione italiana mai realizzata (Sansoni, 1956) – infatti li ho comprato in Francia, edizioni Gallimard 1992, ristampa della prima edizione del 1947 (io vi dico colo che ho cacciato un grido, quando ho visto il libro sullo scaffale, di una buia e fredda libreria, durante un buio e freddo pomeriggio di gennaio, ad Arles N.d.R. –Nota della Rinaldi).
Per Letteratitudine, che mi ospita, avrei tanto voluto fare una traduzione, almeno parziale, almeno di uno dei piccoli atti unici del Teatro da Camera, ma non ho ancora avuto il tempo di limare l’orrida bozza che avevo predisposto di uno dei miei pezzi preferiti, e dunque, piuttosto che tormentarvi anche con una traduzione approssimativa, preferisco invogliarvi a fare una gita oltr’Alpe.
Posto che di Tardieu non ho amato le poesie, né mi sono soffermata sui libelli per la gioventù con i quali pure in gran parte contribuì a pagarsi l’affitto, posto inoltre che, per la giovine età mia (giovane è in effetti un eufemismo, avendo io passato la trentina, e avvicinandomi ad ampie falcate al temuto mezzo del cammin, ove non rischio tuttavia di smarrire la via retta, non avendola ancora mai intrapresa) non ho esperienza diretta delle fumose sale di teatro dell’assurdo di un tempo, e mi limito a immaginare tutti quei signorini e quelle signorine di nero vestiti, con capelli corti e baschetto nero (ho visto troppe sophisticated comedy americane, temo).
Tornando a Jean Tardieu, segnalo dunque la sua attuale assenza dal mercato italiano e vi racconto perché se ne sente la mancanza.
Perché chi sostiene che Vallettopoli sia un frutto dei tempi moderni, dovrebbe riflettere sull’umana natura, che ben poco è mutata in questi anni senza guerra (senza guerra in casa nostra, intendo).
La prostituzione, il ricatto, la viltà d’animo sono tristi prerogative dell’Uomo.
L’assenza di morale nel comportamento è solo enfatizzata e resa più evidente dalla maggior libertà di costumi.
Niente di nuovo sopra il palco, dunque.
Ed è per questo motivo che vale la pena di leggere con i nostri occhi freschi questi atti unici, che raccontano di un tempo solo apparentemente lontano.
Il teatro di Tardieu è metafisico: crea domande e lascia solo intuire le risposte, stimolando nello spettatore (ehm… nel lettore) reazioni che vengono dal profondo.
E il teatro metafisico (la definizione non è mia, e peccato, perché mi piacerebbe tanto reclamarne la maternità) è solo lo spunto di riflessione, è la scusa per concederci un momento di sguardo esterno sulla natura umana.
Siamo ancora come erano questi burocrati di cinquant’anni fa?
(Sì).
Dobbiamo porci domande differenti, ora che sono cambiati i tempi, ora che gli abiti sono diversi, ora che da fuori i costumi sembrano tanto lontani da questi?
(No).
E via di seguito.
Tardieu, dunque, come fa il suo più fortunato “collega” Jonesco, parte da situazioni quotidiane, e per questo apparentemente lontane dal lettore del Duemila, per distruggere, battuta dopo battuta, gesto dopo gesto, l’apparenza, e rivelare che la sostanza è (sempre, ahimè) la stessa.
Se Tardieu vi diverte, è perché siete di buon umore.
Se vi rende cinici, è perché lo siete sempre stati.
Se vi lascia indifferenti è perché… è perché i lettori, oggi, hanno poco da dire e le corde che verrebbero stimolate dal teatro metafisico, in molti lettori non ci sono più.
Ci meritiamo i Cento Colpi di Spazzola? (Questo non l’ha chiesto Tardieu, per la verità).
Cordialmente,
Isabella Rinaldi
(1) Avete acquistato una poltronissima al Teatro Strehler, di recente? Io sì, ho fatto un mutuo ventennale.
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Isabella Rinaldi è nata a Roma il diciassette maggio, lavora a Milano dove abita con suo figlio, un cane e un gatto. Ha collaborato per quattro anni con varie case editrici in qualità di traduttrice, lettrice, editor e organizzatrice di eventi e poi, stremata dall’assidua frequentazione con troppi scrittori, si è dedicata al più riposante mestiere di praticante notaio. Ha pubblicato diversi racconti su riviste e antologie, nel 2005 è uscito il suo primo romanzo HEY, MEN! (Addictions – Magenes editoriale) ripubblicato da TEA nel 2006.
Attualmente sta lavorando al secondo romanzo.
Il teatro è morto e, come direbbe Woody Allen, anche io oggi mi sento poco bene.
Si dice che nel nostro Paese il teatro sia poco seguito e pochissimo amato (1)
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