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Archivio del 21 gennaio 2008

lunedì, 21 gennaio 2008

LA KRYPTONITE NELLA BORSA di Ivan Cotroneo

Voglio presentarvi il nuovo romanzo di Ivan Cotroneo, scrittore nato a Napoli nel 1968.

Cotroneo è anche il traduttore per l’Italia delle opere di Michael Cunningham e Hanif Kureishi. Scrive per il cinema, la televisione e la radio. Con Bompiani ha già pubblicato Il piccolo libro della rabbia e i romanzi Il re del mondo e Cronaca di un disamore. La kryptonite nella borsa è il suo terzo romanzo.

Vi presenterò il romanzo e, di seguito, avrete modo di leggere un brano del libro (ne approfitto per ringraziare la Bompiani per avermi concesso l’apposita autorizzazione).

Naturalmente vi invito a discuterne e a interagire con l’autore (che spero possa partecipare alla discussione). Poi vi propongo una sorta di gioco da portare avanti insieme al dibattito.

Poiché La Kryptonite nella borsa descrive la Napoli dei primi anni Settanta, vi invito a descrivere i “vostri” luoghi così come ve li ricordate negli anni in cui è ambientato il libro di cui discuteremo.

E poi, un altro tema su cui si potrebbe discutere è quello della solitudine dei bambini.

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Davvero ottimo il nuovo romanzo di Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa – (Bompiani, 2007, pagg. 205, euro 14,50).

Nella Napoli degli inizi degli anni Settanta, Peppino, un bambino di sette anni, esteticamente sgradevole (se non proprio bruttino), vede il mondo attraverso le lenti dei suoi occhialini con l’asta rotta (poi riparata con il nastro adesivo) e il filtro naturale dell’appartenenza a una famiglia molto caratteristica, una di quelle che oggi sarebbero definite con l’ausilio di un aggettivo di nuovo conio: “disfunzionale”.

Peppino è anche un bambino solitario, spesso vittima di episodi di bullismo perpetrati ai suoi danni da alcuni compagni di classe che non fanno della sensibilità il loro cavallo di battaglia. Un bambino che deve fare i conti con i risvolti di una vita difficile da interpretare. Sua madre Rosaria, per esempio, è depressa ai limiti dell’immobilismo a causa del tradimento del marito. Il padre, dal canto suo, usa come alcova la Fiat 850 blu avion di famiglia senza essere a conoscenza del fatto che la moglie sa e tace (e per questo si ammala). E proprio per via di questo male oscuro che paralizza la madre, confinandola sotto le lenzuola di un letto, Peppino si trova a vivere in una sorta di famiglia allargata con tanto di nonni e zii ventenni. Questi ultimi – Titina e Salvatore – lo portano in giro per una Napoli psichedelica e colorata, dove vanno di moda pantaloni a zampa d’elefante, feste alternative negli scantinati e collettivi femministi; e dove circolano alcol, droga e pasticche allucinogene (che persino il ragazzino – sebbene inconsapevolmente – si troverà a ingurgitare).

E poi c’è Gennaro, altro personaggio chiave del romanzo: un ragazzo dotato di immaginari superpoteri che derivano, evidentemente, da reali superproblemi. Gennaro crede di essere Superman e scorazza per la città partenopea – abbigliato con calzamaglia blu elettrico, pullover a colo alto e una mantellina rosa da parrucchiere sulle spalle – in cerca di kryptonite nelle borse delle passanti. Perché solo la kriptonite è in grado di fermare Superman. Di certo non un automezzo. Forse è questo che pensava Gennaro poco prima di finire sotto un autobus, o forse – molto più tristemente – desiderava spegnere l’interruttore di una vita solitaria e insostenibile per via di una sospetta omosessualità latente.

Gennaro muore, ma risorge nelle fantasie di Peppino; perché Peppino ha bisogno di una guida, di un punto di riferimento, di qualcuno in grado di badare a lui un po’ meglio degli zii “alternativi”, o dei nonni anziani, o dei genitori assenti. Così Gennaro gli appare nei momenti topici della sua vita di ragazzino, sempre prodigo di consigli, di esempi, di filosofia spicciola; ma soprattutto sempre pronto ad ascoltarlo nel rumore silenzioso e sordo del contesto famigliare. E in uno di questi momenti Peppino si troverà a volare sopra le spalle di SuperGennaro e a contemplare questa Napoli cotronea che è al tempo stesso stravagante e volutamente stereotipata; e che emerge dalle pagine con la forza e la peculiarità dei modi di dire, delle espressioni tipiche, dei luoghi, delle strade, persino dei nomignoli attribuiti alle persone (che finiscono con il prevalere sui nomi reali).

In definitiva, Ivan Cotroneo, usando un linguaggio parlato e credibile, ci offre un romanzo originale, ricco di racconti e aneddoti correlati, ma ricco anche di ironia, di connotazioni comiche e risvolti tragici. Un romanzo che fa pensare senza essere tedioso, che fa sorridere senza essere volgare, che fa commuovere senza essere mieloso.

Merce rara di questi tempi.

Massimo Maugeri

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Da La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo

Quando Peppino aprì gli occhi e vide, nel buio della sua stanzetta, la sagoma allampanata di Gennaro seduta ai piedi del letto, che gli sorrideva tranquillo con i suoi denti sghembi, non ebbe affatto paura.

Prese gli occhiali dal comodino, se li infilò con attenzione, raddrizzò la stanghetta rotta e lo guardò bene, per essere sicuro di non sbagliare. Sì, era proprio lui.

“Ciao Gennaro. Come stai?”

“Come mi vedi. Bene.”

In effetti, agli occhi di Peppino, Gennaro non stava affatto male. La calzamaglia blu era quella di sempre, così come la sua maglia a collo alto non particolarmente pulita. La mantellina rosa era annodata stretta sotto il collo, con un bel fiocco sistemato, e Gennaro la scostò dal petto con studiata noncuranza, molto elegantemente.

Il suo sguardo era attento, e perfino allegro.

Non aveva ingessature, né segni sul volto. Non sembrava riportare nessun effetto secondario in seguito allo scontro frontale con l’autobus numero 111 barrato, a parte, forse, una nuova pettinatura: fosse stata o meno una conseguenza dell’impatto, ora teneva i capelli tutti tirati all’indietro, che non gli stavano nemmeno male. Peppino decise di porgli subito la domanda che gli premeva, senza girarci troppo intorno.

“Genna’, senti una cosa… Io non capisco… Ma tu, non eri morto?”

“Io? E chi te lo ha detto?”

“Mamma… zia Titina… tutti.”

“La gente parla solo per parlare.”

“Ma quelle dicono che il pullman ti ha investito.”

“Il pullman mi ha investito, questo è vero. Esso non si è fermato. Ma io non sono morto.”

“E allora chi hanno messo nella bara in chiesa?”

Gennaro in un vago gesto di insofferenza un po’ femminile sollevò la mano destra, nella quale, Peppino si accorse solo ora, teneva una sigaretta accesa. Voleva dire, con quel gesto: Lascia perdere queste sciocchezze.

“Bambino, non devi credere a tutto quello che dice la gente. Io sono morto, ma non sono morto.”

Peppino lo guardò in silenzio, mentre Gennaro aspirava una boccata dalla sigaretta e soffiava un po’ teatralmente il fumo nella sua stanzetta.

“Genna’, penso che non ho capito un’altra volta.”

Gennaro sospirò paziente, poi fece volare via la sigaretta, che finì sul pavimento dall’altro lato della stanza.

“Peppino, tu lo sai che ho i superpoteri. Sei l’unico che mi ha sempre creduto.”

“Sì.”

“E per questo, sei l’unico che può sapere. L’unico che mi può vedere. Io sono morto per tutti ma non per te. I miei superpoteri mi hanno salvato.”

Peppino si rimise a posto gli occhiali che gli stavano scivolando sul naso. In effetti, quadrava. Se uno aveva i superpoteri, non poteva certo bastare un autobus dell’Atan in servizio dalla stazione centrale a piazza Municipio a eliminarlo. Eppure altre cose non sembravano a posto. Perché nascondersi a tutti? E perché adesso Gennaro parlava cercando di darsi un tono da signore, evitando il dialetto e aggiustandosi il collo della maglia in continuazione? La morte sembrava avergli dato importanza, una nuova concezione di sé, più alta, più complessa, schifiltosa e perfino un po’ snob.

“Genna’, ma io ti vedo diverso…”

“E perché, prima mi vedevi uguale agli altri?”

“No, ma… Quando hai cominciato a fumare? Non mi ricordo che…”

“E infatti prima non fumavo. Ho cominciato dopo. Finché ero vivo, non mi piaceva. Ma da qua le cose sono un po’ differenti. Che vuoi capire, tu…”

Peppino lo osservava, e più lo osservava, più si convinceva che doveva credergli.

“Genna’, ma quindi a finale avevo ragione io. Tu sei veramente Superman.”

Gennaro sorrise.

“Certo che sono Superman. Però sono Superman napoletano.”

“E ci sarai sempre per me? Mi aiuterai?”

“Praticamente sono qua per questo. Ogni volta che hai bisogno di me, se non tengo troppo che fare, tipo sventare una rapina a Forcella, o impedire uno scippo alla Pignasecca, o sconfiggere Lex Luthor il genio del male a Materdei, io ti verrò a trovare per vedere come stai.”

Peppino sorrise. E pensare che proprio quella mattina, nella III A della Scuola Elementare Adelaide Ristori, in mezzo ai suoi compagni di classe che lo prendevano in giro, si era sentito solo. Sua madre, inavvicinabile, restava sempre stesa a letto, nella stanza buia dove cercava di sfuggire al mal di testa. Suo padre era in continuazione al lavoro, dove ultimamente gli orari sembravano allungarsi e dilatarsi sempre di più, senza nessuna regola precisa. E lui si era sentito abbandonato. Che stupido era stato, non ci poteva pensare! Come faceva a sapere che quella stessa notte avrebbe capito di essere il bambino più fortunato del mondo, l’unico ad avere sempre Superman a disposizione!

Vabbe’, quasi sempre. Se non c’erano rapine a Forcella o alla Pignasecca.

“Come faccio a chiamarti?” chiese Peppino.

“Col mio nome. Superman, o Gennaro de Cicco, va bene lo stesso.”

“E mo’ che facciamo?”

“E che vuoi fare? Non facciamo niente. S’è fatto tardi, perciò ci corichiamo. Tu dormi tranquillo, che ci sono qua io che veglio su di te. È la mia missione.”

Peppino si sfilò gli occhiali e li appoggiò di nuovo sul comodino. Si tirò la coperta sotto il mento.

“Buonanotte.”

“Buonanotte.”

Nel silenzio, Peppino sentiva il peso di Superman sul materasso vicino ai suoi piedi. Se li allungava, poteva toccare l’esterno delle sue gambe, il suo corpo fatto di quel materiale misterioso che resisteva a tutto, e lo avrebbe salvato da qualsiasi cosa. Chissà se gli avrebbe insegnato a passare attraverso i muri, o a sentire il respiro delle formiche, o lo avrebbe aiutato con i compiti, o gli avrebbe rivelato il significato di tutte le cose che non capiva. Era buio, ma non aveva paura.

Sapeva che Gennaro poteva vedere comunque con la sua vista speciale.

Si sentì protetto, forse per la prima volta nella sua vita. Si voltò su un fianco e riprese a dormire.

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