venerdì, 17 ottobre 2008
RACCONTAMI LA NOTTE IN CUI SONO NATO di Paolo Di Paolo
Nel gennaio del 2007 Nicael Holt, ventiquattrenne australiano, mette all’asta la propria vita su eBay. È un fatto sensazionale, mai successo prima, i giornali ne parlano, il fatto fa molto discutere e le implicazioni di dibattito si estendono a diversi campi di interesse. Perché un ragazzo giovane, con molti amici, una fidanzata e una famiglia “normale” sceglie di rinunciare a tutto, di disfarsi di ciò che è stato e di ciò che ha vissuto? Nicael potrebbe iniziare un viaggio alla ricerca di sé e di orizzonti più liberi e avventurosi. Invece rimane nella sua camera, accende il monitor del portatile che gli sta di fronte e inizia a vendere pezzo a pezzo – in lotti numerati e distinti – i suoi giorni, la sua memoria, le sue emozioni, i luoghi dei suoi passaggi, tutto ciò che è stato.
È questo l’espediente di cronaca dal quale muove Raccontami la notte in cui sono nato il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo, giovanissimo scrittore (classe 1983), ma già autore di libri importanti [Un piccolo grande Novecento con Antonio Debenedetti (Manni 2005), Ho sognato una stazione con Dacia Maraini (Laterza 2005), Come un’isola Premio Mastronardi Autore Under 30 (Perrone 2006) Ogni viaggio è un romanzo (Laterza 2006)].
Di questo libro (qui le recensioni che finora ha ricevuto) ce ne parla più in dettaglio Andrea Di Consoli, il quale – peraltro – ne approfitta per avviare una polemica.
Direi di strutturare questo post in due parti. La prima, dedicata al libro, dove potremo discutere approfittando anche della presenza di Paolo Di Paolo, che parteciperà al dibattito; la seconda, dedicata alla polemica che lancia Andrea nell’articolo che leggerete di seguito.
Prima parte
Lucien, il personaggio di questo romanzo, ha ventiquattro anni e un lavoro come redattore in un giornale di provincia. Giorni divisi tra lezioni svogliate da studente modello di filologia romanza e amici che, più di lui, vivono la solitudine e la libertà di chi, diciottenne, se ne è andato di casa per studiare. Lucien, no. È solo leggermente fuori sede. Di sera torna alla sempre-casa prendendo il sempre-treno che da Roma lo porta al rifugio letargico e alla sicurezza paesana dei castelli poco fuori città.
Un giorno, mentre è alla ricerca di un libro illustrato nel grande mercato virtuale di eBay, inciampa nella vita di Filippo: inquieto fumettista universitario fuori sede all’Università di Padova. Iniziano a conoscersi e a scriversi regolarmente rivelandosi e scambiandosi pezzo a pezzo le proprie vite fino al giorno in cui Lucien propone all’amico di prendersi la propria.
Muovendosi tra Roma, Padova, Parigi, Lisbona e New York, accompagnati dalla presenza dolce e inquieta dei fantasmi di Magritte e Capote, Lucien e Filippo vengono travolti da un succedersi di vicende bizzarre e inaspettate, da spezzare il fiato.
Dal fatto di cronaca e dalla lettura del romanzo sorgono una serie di domande.
Qual è il prezzo dell’esistenza? È possibile rinunciare alla propria? È possibile dare un prezzo a ciò che siamo stati? E come fare? Qual è il momento esatto in cui una vita inizia? Dove abbiamo cominciato a essere chi davvero siamo?
Voi che ne dite?
Seconda parte
Andrea Di Consoli parla di questo libro in termini lusinghieri, ma – come anticipato – ne approfitta per avviare una polemica. A un certo punto Andrea scrive (e sembra quasi una sorta di disperata denuncia): “I lettori italiani sono ottusi, e lo dico ben sapendo di danneggiare anche me stesso“. E poi (sintetizzo): “Siamo nell’epoca dell’uguaglianza: un libro vale l’altro, tutti gli scrittori sono scriventi, nessuno è diverso dall’altro. Tutti uguali, tutti nello stesso brodo, tutti più o meno falliti. E se non hai l’approvazione della massa (non dal popolo, che è altra cosa, e che pure c’è, sia anche a livello di elite, ormai) vuol dire che non vali niente.”
Ora… che nessuno si senta personalmente offeso da queste dichiarazioni, che sono rivolte a un lettore generico. Ne ho parlato con Andrea: l’obiettivo – appunto – non è offendere, ma lanciare un dibattito.
Ma perché Andrea scrive queste frasi?
Leggete il pezzo. Poi, dite la vostra… con decisione, se credete; ma – mi raccomando – nei limiti del tono e dello stile che caratterizza questo blog.
(Grazie).
Massimo Maugeri
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Raccontami la notte in cui sono nato di Paolo Di Paolo
recensione di Andrea Di Consoli
Raccontami la notte in cui sono nato (Giulio Perrone editore, 109 pagine, 10,00 euro) di Paolo Di Paolo, scrittore e critico romano classe 1983, è un libro sorprendente. Non è certamente un romanzo, anche se non si capisce bene perché il romanzo debba essere considerato, essendo assai logorato, il polo di riferimento di ogni narrazione (la forma centrale); da questo punto di vista, quindi, con la stessa esattezza, potremmo dire che non si tratta né di un saggio, né di un diario. Insisto col dire questo perché in Italia si è fatto scempio di tutto ciò che non è romanzesco (con l’emergere prepotente di tanti lettori-zombi frustrati dei cosiddetti romanzi di genere); nessuno più legge poesie, diari, brochure, riviste letterarie, poemetti in prosa, racconti, romanzi brevi, reportage narrativi, frammenti e così via. Tutti scrivono e tutti vogliono leggere romanzi, magari “corposi”, “avvincenti”, “che si leggono d’un fiato”, e che, ovviamente, “ti fanno sognare” (e che sono adatti a vincere premi letterari). I lettori italiani sono ottusi, e lo dico ben sapendo di danneggiare anche me stesso. Torneranno i tempi in cui un libro come Quasi una vita di Corrado Alvaro vinceva, con il suo diario spietato sul fascismo, il premio Strega? Pensavo a queste cose mentre leggevo il bellissimo libro di Paolo Di Paolo. Mi dicevo: com’è possibile che un ragazzo di appena venticinque anni riesca a scrivere queste cose? E com’è possibile che gli ottusi lettori italiani leggano solo romanzi di baby-scrittori in cui emerge una gioventù a prova di lacrime, televisiva, stereotipata, senza stile, senza profondità (e senza dolore: dolore vero)? Mi sono stancato, come scrittore e come uomo, di dire: quel che decide la massa, è giusto. E se dico queste cose non è per moralismo, ma per convinzione. Quasi rimpiango l’epoca delle ideologie imperanti, quando si era lettori onnivori, e si discuteva generosamente di tutto, finanche di un film bulgaro sottotitolato in tedesco. Siamo invece nell’epoca dell’uguaglianza: un libro vale l’altro, tutti gli scrittori sono scriventi, nessuno è diverso dall’altro. Sono francamente sfinito, da questa realtà, da questo comunismo capitalistico: tutti uguali, tutti nello stesso brodo, tutti più o meno falliti. E se non hai l’approvazione della massa (non dal popolo, che è altra cosa, e che pure c’è, sia anche a livello di elite, ormai) vuol dire che non vali niente. Il mercato editoriale è diventato talmente violento, che ogni discorso del genere viene tacciato di moralismo, stupidità, livore. Eppure conviene farlo, questo discorso, a costo di sembrare ridicoli. Ovviamente sarebbero tante le cose da dire; per esempio che la fiction imperante in letteratura non è altro che un’estensione parassitaria (una specie di ignoranza acculturata) del dominio televisivo; e che il livellamento verso il basso di tutti gli stili, di tutti i punti di vista e di tutti i sentimenti e le idee, è il sintomo di una malattia che potrei sintetizzare in questo modo: trionfo di un nichilismo consumistico, per cui “tanto dobbiamo tutti morire”, perciò tanto vale leggere cose che intrattengono, perché “la vita è già di suo così triste”. Invece la vita non è triste per niente; semmai è forte, intensa, insostenibile, misteriosa. Il mondo del libro ha aperto le braccia a tutti: alla Foschini, alla Bonaccorti, a Serena Grandi, a Lino Banfi, a Cucuzza, alla figlia di Giuliano Gemma, a Rita Rusic, a Valeria Marini, al figlio di Antonello Venditti, alla Clerici, e così via. Si aprono le porte del teatro, del cinema e della televisione per gli scrittori italiani? Il cinema e la televisione, si dice, hanno “uno specifico”, un altro linguaggio. Invece la Letteratura no: la Letteratura è una cloaca pubblica (“avanti, si accomodi!”). La Letteratura in televisione non funziona, si dice. E certo che non funziona, se a parlarne sono sempre e solo persone improvvisate e disinformate! Almeno Gigi Marzullo, che pure ha pubblicato libri, porta gli scrittori in televisione, e di questo bisogna dargliene atto. Allora, senza farla troppo lunga, si abbia di nuovo il coraggio di parlare di Letteratura; sì, di qualcosa di riconoscibile, di superiore (qualcosa che ha una millenaria tradizione alle spalle). Pure, non si sottovaluti il fatto che scrittori come Paolo Di Paolo sono in primis critici e studiosi, a differenza degli scriventi di massa, che di solito non leggono niente di niente, se non quelli che ritengono “competitor”. Non basta la vita, per scrivere; non basta guardare la televisione, per scrivere; e, soprattutto, è umiliante farsi riscrivere il libro da un editor. A questo problema, infine, se ne aggiunge un altro, ovvero il fatto che i lettori ottusi (e l’ottusa editoria) cercano ansiosamente scrittori sempre più giovani, “carne fresca” da maciullare. Mai i “ggiovani” erano stati così corteggiati (e sfruttati). Tutti corrono a leggere in massa il romanzo di un “pischelletto” o di una “pischelletta” in posa, mentre vengono abbandonati nell’ospizio della Letteratura italiana I Grandi Viventi “da tremila copie” (più o meno): Bonaviri, Consolo, Magris, Camon, Cordelli, Vasile, Vassalli, Doninelli, Guerra, Sanvitale, Arbasino, Pariani, Zanzotto, Rugarli, Giudici, Rea, Erba, Paris, Albinati, Montesano, Ceronetti, e così via. Prendiamo proprio il caso di Paolo Di Paolo, del suo libro Raccontami la notte in cui sono nato. E’ il libro di un giovane, di uno che, con intelligenza, con lirismo, con malinconia, sente che qualcosa non va, nella sua vita. Il protagonista del libro, Lucien, non si percepisce come giovane, ma come uomo; non fa parte, cioè, della casta privilegiata dei “ggiovani” (gli unici ad avere, secondo la comunicazione di massa, un nuovo punto di vista sulle cose). Lucien è un uomo (un uomo giovane), che vende la sua vita, e che, perdendola, la ritrova. Lo stile di Di Paolo non è “nuovo” (non c’è slang, non c’è trama a effetto, non c’è violenza pulp, ecc.). Il suo è uno stile antico (io ci ho sentito la voce di due scrittori novecenteschi: Cesare Pavese ed Enzo Siciliano: non il Presidente della Rai, ma lo scrittore, che nessuno mai legge). Il libro di Di Paolo è una raffinata passeggiata interiore, un attraversamento incantato e spietato in un’adolescenza che si fa maturità. Ed è un omaggio alla madre, colta poeticamente nel momento in cui si aggira per la città con lo scrittore in grembo. Ecco, Di Paolo sente la giovinezza come limite (certi malumori, certe ansie, certe timidezze che feriscono). Lui non dice: “Io sono giovane, e con me inizia il mondo”. Lui non è come tutti questi ottusi che hanno paura della maturità, e perciò cercano di cibarsi (vampirescamente) del sangue dei giovani. Lui non è come il Giovane Scrittore Analfabeta che è sempre in cerca di successo mediatico. Di Paolo realizza – con uno stile straordinario, con intelligenza e con maturità – quello che fu l’auspicio di Benedetto Croce (un altro vecchiaccio da buttare nel secchio): “I giovani hanno un solo dovere, quello di diventare subito vecchi”. Ed era proprio Pavese, citando Shakespeare, a dire: “Ripeness is all”, la maturità è tutto. Non è un caso che Di Paolo abbia sempre cercato padri letterari, ovvero la tradizione della letteratura, perché solo chi trova dei padri potrà diventare a sua volta padre, tenue faro nella notte.
Andrea Di Consoli
Tags: Andrea Di Consoli, giulio perrone, paolo di paolo, raccontami la notte in cui sono nato
Scritto venerdì, 17 ottobre 2008 alle 22:38 nella categoria SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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