venerdì, 31 ottobre 2008
L’INFANZIA È UN TERREMOTO di Carola Susani
Parliamo di terremoto. Lo facciamo oggi, a poco meno di due mesi da una ricorrenza importante: il centenario del terribile, devastante terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. L’occasione ce la fornisce questo bel libro di Carola Susani: “L’infanzia è un terremoto” (Laterza, 2008, euro 9, pagg. 142). Un libro che si presta a diversi livelli di lettura.
Di seguito potrete leggere la recensione di Miriam Ravasio (in esclusiva per Letteratitudine) e gli articoli di Francesco Gambaro e Giovanni Russo, apparsi rispettivamente su Repubblica-Palermo e sul Corriere della Sera.
Vorrei che discutessimo di questo libro della Susani e degli argomenti a esso correlati. Già un primo punto di domanda potremmo trarlo, forse, dallo stesso titolo del volume, che si presta a una doppia interpretazione: quando e perché l’infanzia è un terremoto?
E poi…
Il terribile terremoto del Belice, avvenuto quarant’anni fa, è solo un ricordo?
Che tipo di tracce ha lasciato (se ne ha lasciate)?
Gambaro scrive: “A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere”.
E l’arte? E possibile immaginare una connessione tra “arte” e “ricostruzione”? Tra “arte” e l’esigenza di “riemergere dalle rovine”?
Miriam, nella sua recensione, ha estrapolato dal libro queste frasi/domande: “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi”.
Già. Cos’è l’arte? A chi interessa davvero?
Questo e molto altro si evince dall’ottimo volume della Susani. Come scrive Giovanni Russo “L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti”.
Vi invito a discutere di questo libro, magari prendendo spunto dalle domande poste sopra. L’autrice parteciperà al dibattito (Miriam mi aiuterà a coordinarlo).
Infine vi ricordo la già citata ricorrenza: il centenario del terremoto di Messina.
Qualcuno di voi mi ha chiesto di ricordarlo, di parlarne insieme.
Credo che questa sia l’occasione giusta.
Massimo Maugeri
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“Il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria”
di Miriam Ravasio
L’infanzia è un terremoto di Carola Susani è un testo difficile da recensire, perché è un insieme di cose diverse: biografia, ricerca, analisi, storia, politica ed anche un diario di viaggio. I luoghi sono quelli privati della memoria e quelli pubblici del disastroso terremoto della Valle del Belice.
Scritto più per capire che per dire, l’autrice ritorna ai suoi primi anni, quando i genitori, due architetti veneti, si trasferirono nella baraccopoli del Belice, impegnati attivamente nel progetto di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Lo stile ricorda Savinio, perché è il lettore, che con i suoi strumenti di conoscenza, ricompone l’esperienza, colmando lo spazio temporale che dista dai fatti, 1968 -1972 e dalla loro rivisitazione, oggi. Sta lì, nella nostra memoria il senso del vuoto che muove quel bisogno di verifica che, a molti anni di distanza, spinge l’autrice al “ritorno”; ad intraprendere il viaggio, in compagnia del marito e del figlio. Lei, ora mamma, ricorda i giochi con i bimbi siciliani, i pasti della mensa comune e i discorsi dei grandi, che immaginiamo estenuanti e infiniti. Perché lì, si sperimentava una nuova idea di città, ideale e utopica, che voleva eliminare il centro e la periferia, ricchezza e povertà, azzerando il passato (già azzerato fisicamente dalla natura).
Dalle rovine di Montevago, e poi da Gibellina e dal Cretto di Burri, si avvia il racconto di Carola Susani, con una riflessione sull’arte, sulle idee, sul delirio entusiastico dell’utopia. Le “rovine” schiacciate nella terra dal peso immenso dell’opera di Burri, sono descritte da due diversi punti di vista; quello dell’autrice, che nel Cretto riconosce l’intento poetico e quella degli abitanti che al contrario vivono la grande colata bianca come un inganno al ricordo, alla vita stessa che in quel luogo non sarà più, mai più. “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi.”
Gibellina come la coda lunga di Yale? E l’Ises (istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione) attrattore dei sogni e delle utopie di un mondo in movimento? Sì, fu così. “ L’infanzia si diletta di trionfi. E’ vero questa non è tutta l’infanzia, l’infanzia non disdegna la commozione, le tenerezze, l’amore. Però nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine”. A quale infanzia si riferisce Carola? A quella dei suoi quattro, cinque, sei anni o a quella delle idee assolute, che lei bimba, ha lucidamente riconosciuto nei “nostri adulti”che sacrificando la creatività dell’arte all’ideologia originarono solo teoria e poi esperienza spericolata: il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria.
Nomi noti, della politica, ma non solo, di ieri e di oggi, si intrecciano in relazioni complesse: un giovane Don Rigodi, il colonnello Dalla Chiesa, Bruno Zevi e Ulriche Meinhoff. Il sessantotto e il suo mito stanno lì, sorprendentemente, nella Valle del Belice, nel racconto e nella ricostruzione di quella esperienza; nei frammenti, diversi, esposti come in una mostra a tema, che potrebbe anche essere itinerante perché il pensiero che animava la Comune fu, appunto, comune a molti e, nella sua versione architettonica lo fu per molto tempo ancora.
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Un’infanzia nel terremoto
di Francesco Gambaro
Quarant’ anni fa, il 14 e il 15 gennaio, il terremoto. Ore 2,34 minuti e 3 secondi, 8° grado e dopo 12 secondi 9° grado. Ore 17,43: l’ ultima scossa di 9° grado ebbe la durata di 52 secondi. Della valle del Belice rimase poco. Montevago, Gibellina e Salaparuta quasi interamente distrutti. Di Poggioreale rimasero in piedi alcuni muri. Crolli e morti anche a Santa Margherita Belice, Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi.
Carola Susani ne “L’ infanzia è un terremoto” sostiene, correttamente, che dopotutto il numero dei morti fu contenuto rispetto all’enormità del devastamento territoriale e urbanistico. La memoria riporta i feriti, le braccia dei soccorritori che tiravano come corde altre braccia dalle macerie, dal fango, dal freddo ventoso. Quelle ferite hanno tardato a rimarginarsi tra i sopravvissuti della valle del Belice, si sono moltiplicate e sono state trasmesse ai figli. Negli anni successivi quei feriti hanno continuato a vagare come zombie tra le baracche di Salemi, o cani spaventati tra le enormi piazze di Gibellina nuova, che architetti forestieri hanno voluto mutare in un paese di pianura. A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere. Avvinghiata a queste memorie Carola Susani tenta in questo libro una scommessa difficilissima: quella di coniugare la sua visione di bambina di quattro anni – venuta in Sicilia insieme ai suoi genitori architetti per partecipare, con Lorenzo Barbera e Danilo Dolci, alla ricostruzione del Belice – con quella della scrittrice matura e osservatrice. I puntuali sopralluoghi – «il ramo matriliniare della mia famiglia ha preso l’abitudine d’incontrarsi in agosto, anche per pochi giorni, in Sicilia» – hanno data vita a un’inchiesta nutrita di testimonianze ma, soprattutto, nutrita dei suoi occhi di bambina. Una scommessa difficilissima e atipica, perché testimoni, protagonisti e autrice si conoscono, sono come una grande famiglia allargata e l’inchiesta diventa un romanzo i cui nomi sono quelli veri e i fatti quelli realmente accaduti. Da questo libro lo storico potrà recuperare dati precisi – dalle ragioni fratricide della scissione e della fine del Centro studi Valle del Belice (dalla rottura insomma con Danilo Dolci qui decrittata bipolarmente), alla costruzione della diga dello Jato, per anni considerata dalla popolare ignoranza causa di danni aggiunti a quelli del terremoto, alle contestazioni del diritto all’enfiteusi. È tuttavia nei dettagli percettivi che si coglie una specie di oro documentario: cosa oppone, per esempio, Gibellina a Montevago e, di conseguenza, i rispettivi abitanti? Il Cretto di Burri, poco amato anche dai gibellinesi – che pure resta un esempio inarrivabile di lapide alla memoria di una cosa e non di una persona – opposto alla soglia di un palazzo distrutto di Montevago dove ancora, incartapecoriti, giacciono giornali e scarpe di quarant’anni fa, non usati ma erosi dal tempo. Ma se Montevago è l’anti-Gibellina è anche perché è riuscito a ricrescere su se stesso, a riavere i suoi ricordi, i suoi bar: «Il bar ha un odore di ricotta dolce bruciata che su di me ha l’effetto di una vertigine. Divento euforica, è l’Urbar della mia coscienza. Odore di stanzoni enormi e banconi minuscoli. Odore di lusso e povertà. Odore di: questo è quel che abbiamo, è tutto, altro non c’ è». Il cuore della Susani e il cuore del suo libro sono in questi scarti emotivi: se la documentazione pesa, pesano di più le emozioni. Tutto quello che si scrive sulla Sicilia finisce per impastarsi di retorica. Ci sono i progetti che non sono andati in porto, quasi che fossimo esperti in progetti che non devono andare in porto. Ci sono idee che non vanno in porto, ma che vengono trasformate, nostro malgrado, in altro. Carola Susani, traendo i conti e raccontando «com’è andata a finire», a un certo punto scrive: «Dopo l’ estate del ‘70 c’era stato il lungo presidio davanti a Montecitorio che aveva portato all’approvazione della legge che esonerava dalla leva i residenti in zona terremotata. Questa vittoria, che nella percezione del Centro studi di Partanna era minima, che smorzava il conflitto ed eludeva la questione vera, cioè l’applicazione della legge per la ricostruzione e lo sviluppo, forse è stata vissuta con maggior sconforto, anche se con minor dolore, del tradimento di Tanassi. Come capita quando si dà inizio a qualcosa, quando si agisce, che le cose prendano la loro strada e l’esito sia imprevisto, così il rifiuto della leva per i giovani del Belice era uno strumento di lotta per la ricostruzione e lo sviluppo, fallisce lo scopo e diventa una pietra miliare nel processo che porta all’introduzione in Italia dell’ obiezione di coscienza». Successi trasversali, che pure hanno impedito di continuare la lotta. Anche se le baracche non ci sono più, Gibellina è diventata una città d’arte, Montevago ha una bella biblioteca, Vita non ha più giovani e possibilmente non festeggerà i suoi cinquecento anni, Salemi non saprà approfittare del suo deserto senza cammelli: «Non sarà un caso – conclude la Susani – che nella mia memoria gli eventi terribili si concentrino. Alla fine i miei genitori cedettero, rinunciarono a fare i pendolari, si risolsero a stabilirsi a Palermo, cercarsi un lavoro più sicuro». Parabola del Sessantotto.
(articolo pubblicato su Repubblica del 09 gennaio 2008, pagina 1, sezione: PALERMO)
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Arte e rovine: il Belice trema ancora. Le illusioni degli intellettuali, la solitudine delle nuove città
di Giovanni Russo
Con Carola Susani, l’autrice di L’infanzia è un terremoto, sono tornato, dopo quarant’ anni, nei paesi e nei luoghi del terremoto del Belice. Ero arrivato il giorno dopo. A Partanna, al centro di uno stanzone affollato di feriti che serviva da ospedale, era distesa su una brandina una donna appena estratta dalle macerie. Accovacciati intorno ai fuochi, sui bordi delle strade, nelle piazze, bivaccavano gli scampati, con negli occhi le immagini della tragedia e il terrore che la terra ricominciasse a tremare. Tra le rovine ancora calde si aggiravano i sopravvissuti ricoverati nelle tendopoli che cercavano di recuperare un po’ dei loro beni davanti alle case spaccate, alle travi contorte. I terremotati a Gibellina, Montevago, Salaparuta, Santa Ninfa tornavano a cercare la «roba». Questa vita che ferveva tra i ruderi, questo affannarsi come formiche che razzolano tra i detriti finì dopo qualche giorno, e calò il silenzio. Quando anni dopo sono andato a Gibellina e a Santa Ninfa dove avevo fatto amicizia con l’allora giovane parroco don Riboldi, ho provato le stesse sensazioni che mi ha dato la rievocazione poetica e l’inchiesta intelligente e appassionata della Susani. Per scrivere un libro sul Belice terremotato, è ritornata con il marito e la figlia a Montevago e a Partanna dove aveva vissuto da bambina in baracca con i genitori architetti, venuti dal Veneto per collaborare alle iniziative per la ricostruzione e lo sviluppo del centro studi di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. L’autrice riferisce i suoi incontri con chi, come sua madre, continua a lavorare nel Belice per attuare i progetti dell’Unione Europea, e descrive le rovine di Montevago che «ci si parano davanti piatte orizzontali tra i lampioni e la chiesa, il grande piazzale di marmo». Viene fuori la solitudine di queste città nuove ma morte quasi come le rovine. Con l’occhio adulto vede anche gli errori e le illusioni che animavano i volontari, rincontra gli amici dell’infanzia, i collaboratori di Lorenzo Barbera, confronta con lui le sue impressioni. A Montevago l’accompagna un amico della madre, Giuseppe Triolo, che è tornato nel paese natale per lavorare ai progetti dell’ Unione Europea. Giuseppe critica l’opera di Burri Il Cretto – una colata bianca di cemento che copre le macerie di Gibellina – che invece piace all’autrice, perché la ritiene una sorta di monumento funebre per ricordare che qui una volta c’era una città. Ma per Giuseppe, per i figli dei terremotati è come se avesse espropriato la loro identità. Gibellina è disseminata d’opere d’arte, da Burri a Consagra, per iniziativa del sindaco Ludovico Corrao. Susani ci dà l’eco delle polemiche da lui suscitate per aver trasformato la città distrutta in un luogo d’incontro d’artisti. Anche a me quelle sculture d’avanguardia sembrarono sovrapposte su una tragedia e ad essa estranee. Barbera e Dolci riaffiorano come certe ombre dei gironi danteschi. Erano loro gli animatori delle lotte per la ricostruzione, ma poi si divisero. Dolci considerava le manifestazioni di protesta come testimonianza dei bisogni dei terremotati e non voleva che le assemblee si trasformassero in un giudizio popolare, in un processo allo Stato. L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti. Emergono i nomi di Bruno Zevi, di Evtuscenko, le illusioni degli intellettuali e fatti inquietanti come l’arrivo nella baraccopoli di due bambine tedesche, le figlie della terrorista Ulriche Meinhoff, la presenza ambigua della mafia. Tutto è raccontato con partecipazione, ma anche con giudizio critico e ironia, come quando rammenta a proposito dei comunisti «uno sformato di riso a forma di falce e martello che era immangiabile». C’è il ricordo dei bambini, che giocano sulle rovine: «Nelle città morte ci sguazziamo, la decomposizione non ci fa paura. A Partanna, a cinque anni, io e Luca disegnavamo scheletri addobbati con crinolina e cappelli a larghe tese», perché «nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine». Intanto gli adulti preparano le pratiche, o progettano le case dei nuovi paesi ispirandosi ad un’idea urbanistica che voleva eliminare la distinzione fra centro e periferia per far cessare le divisioni di classe, «né ricchi né poveri». Il risultato dell’utopia dell’ Ises (l’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione), sono i palazzi anonimi, tutti uguali, e gli stradoni di marmo. L’ autrice rievoca le battaglie per non pagare le tasse e per non fare il servizio di leva, i colloqui con il colonnello Dalla Chiesa che allora comandava i carabinieri in Sicilia, e le false promesse del ministro della Difesa Tanassi. La trasformazione della società dopo il terremoto ha cancellato quel mondo contadino e ha portato la valle del Belice nell’era postindustriale ma, per merito de L’infanzia è un terremoto, quel mondo scomparso ci resta nel cuore.
(articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 16 gennaio 2008, pag. 41)
Tags: carola susani, l039infanzia è un terremoto, laterza, Miriam Ravasio
Scritto venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:51 nella categoria SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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