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venerdì, 23 gennaio 2009

RECENSIONI INCROCIATE n. 6: Francesco Forlani e Lidia Riviello

recensioni-incrociate.jpgNuova, particolarissima, puntata delle “recensioni incrociate”.
Dico particolarissima perché oggetto dell’ “incrocio”, stavolta, sono un’opera di narrativa e una silloge di poesie.
I due autori/recensori invitati sono lo scrittore Francesco Forlani (redattore storico di Nazione Indiana e de La poesia e lo spirito) e la poetessa Lidia Riviello.

I libri oggetto delle recensioni sono “Autoreverse” (di Francesco Forlani) e “Neon 80” (di Lidia Riviello).

Il volume della Riviello beneficia di una nota di Edoardo Sanguineti e offre, per dirla con le stesse parole dell’autrice, “materiali sparsi, volutamente accennati e provvisori. Accennati e provvisori come sono stati gli anni Ottanta, nei quali, io bambina e adolescente, mi iniziavo come potevo e soprattutto mi “cominciavo” a scrivere. Il neon era la non-illuminazione che rendeva le nostre città, uffici, i centri commerciali, gli ingressi dei palazzi dei non luoghi, scenografie ripetitive di uno scenario un tempo spento, ora acceso dalle nuove tecniche di illuminazione. Un piatto e lineare “luogo standard” dentro il quale prendevano vita eccentrica i feticci delle nostre società di consumo. Se ci sono stati dei non luoghi ci sarà stata una luce radicalmente “autonoma e immortale” a isolare tempo e spazio. Con questo “gas nobile, inerte, quasi incolore”, si spegneva il sole”.

I protagonisti del romanzo di Forlani (vi invito ad ascoltare l’intervista che l’autore ha rilasciato alla trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre) si chiamano Angelo e François. Si sono conosciuti alla reception dell’Hotel Roma, l’albergo dove Cesare Pavese si è suicidato. Lì Angelo, immigrato meridionale, fa il portiere di notte e François ha prenotato per la sua ultima notte in Italia la camera “di Pavese”: era qui alla ricerca dell’unica registrazione, forse dispersa, con la voce dello scrittore. I due fanno amicizia e, come in un vecchio nastro, le loro voci si alternano e si incrociano: si raccontano dei rispettivi paesi, delle loro vite, delle occasioni avute e di quelle perse… ma i loro discorsi tornano sempre a lui, a Pavese, alla sua scrittura, ai suoi amori infelici. Come quello per Constance Dowling, l’attrice americana alla quale fu legato e la cui figura è divenuta per François altrettanto ossessionante della voce dello scrittore. E poco per volta la vita di Pavese diventa sempre più presente nella quotidianità dell’albergo, permeando le storie di dipendenti e ospiti, tra amori e matrimoni, eventi apparentemente misteriosi, speranze e tradimenti…” (nota al libro).

Due testi diversi, legati dalla comune esigenza della ricerca.

Vi invito a interagire con gli autori ponendo loro domande. E poi, come sempre, tenterò di organizzare discussioni “collaterali” sui temi trattati dai libri proposti. Così vi chiedo…

Come sono stati, per voi, gli anni ‘80? Come li ricordate? Quali sono stati i pro e i contro? (libro della Riviello)

Ascoltare la voce di uno scrittore, di un poeta… udirne il suono… può consentire di conoscere meglio le sue opere? Oppure c’è il rischio che, in qualche modo, quell’ascolto possa esercitare una funzione “sviante”… (libro di Forlani)

Seguono le recensioni incrociate.

Massimo Maugeri

——————————-

“NEON 80″ di Lidia Riviello - Casa editrice Zona, 2008 - euro 10 - pagg. 60
recensione di Francesco Forlani

C’est à partir du jour où l’on peut concevoir un autre état de choses qu’une lumière neuve tombe sur nos peines et sur nos souffrances et que nous décidons qu’elles sont insupportables.

L’Être et le Néant” (1943), Jean-Paul Sartre

Il neon (o neo) è un elemento chimico della tavola periodica degli elementi, che ha come simbolo Ne e come numero atomico 10. Gas nobile, quasi inerte, incolore. Il neon possiede una distintiva incandescenza rossastra quando è utilizzato in un tubo a scarica o nelle lampade dette, appunto, “al neon”. È presente in tracce nell’aria (definizione wikipedia).
Tra i punti deboli dei movimenti avanguardistici in Italia ne va segnalato uno in particolare: neo. E’ un punto debole perché con un colpo al cerchio e uno alla botte, si finge nuovo partendo dal vecchio. In questo libro prezioso, Neon 80, di Lidia Riviello (casa editrice Zona), come solo un libro di poesia può e sa esserlo, accade invece che i due tempi e dunque i mondi che quei tempi sottintendono, si scontrino tra di loro, e nella fragilità dell’oggetto – cosa di più fragile che non una poesia?- si entra solo a patto di fare attenzione, esercizio di consapevolezza.
Molti ricorderanno come, sul finire degli anni Settanta, le illuminazioni delle case degli italiani si annientarono in nome del risparmio energetico. E di colpo le cose si intubarono, come nelle corsie degli ospedali, nelle aule di scuola, anticipando il secolo a venire della medicalizzazione delle vite e delle relazioni. La pellicola non era più il supporto dell’imagerie collettiva ma un involucro, un muro per quanto trasparente tra le le persone e le cose. La mutevolezza dei tempi, il trasformismo degli anni Ottanta, come in certi apparecchi elettronici dell’epoca, indicava la funzione, mute e spingeva le voci più forti a starsene zitte, mute. La voce di Lidia Riviello non tace. Si algoritma, si espande, che nemmeno ne senti l’odore da subito, ma poi ti impregna e nella geometria dei versi ritrovi la tua voce – la composizione si avvale di fughe e contrappunti prevedendo ad ogni apertura del discorso una chiusa che ti lascia senza voce, senza parole.
“Società perfetta, di tutti, dei morti soprattutto, dei morti con nessuno in casa” recita un verso, e la couleur della poetica è annunciata. E’ dello stesso colore del ghiaccio. Lo vedi.
Si dice di un verso, spesso, di come esso sia toccante. E a volte mi chiedo se sia possibile toccare un verso – i poeti si sa hanno poco tatto, in generale – e come per i gas, sembra che sia difficile. Ecco allora che la parola poetica di Lidia Riviello si inguaina, s’impellicola, e di colpo la vedi, la tocchi, la spingi in ogni angolo della memoria. E’ una parola critica, dissidente, ma che mai diserta il mondo. Nemmeno quando questo sembra senza senso. Quando il mondo non si lascia più decodificare, vedere, esperire, cosa resta?
- Vedo il finale- e non so decifrare nessun segno di dissidenza sui muri- la parola non resta fedele alla parola data

Uno dei dischi più venduti nell’ottanta fu Tubular Bells, di Mike Oldfield. Sicuramente non il migliore del polistrumentista, ma del resto anche gli anni Ottanta non sono stati un decennio memorabile.

Come in un quadro di Magritte, l’oggetto appariva sospeso e allo stesso tempo slegato dalla realtà. Come se il poetico Fluxus – la straordinaria performer Lidia Riviello appartiene piuttosto a questa tradizione che non a quella dei professori della neo-avanguardia – la vena aurea della sperimentazione, sociale e poetica, si fosse recisa.

L’ottanta,
(così li chiama Lidia Riviello, lungo tutta la silloge, ndr)
è un anno singolare
merce confusa al disastro, la tenerezza
sotto quota annuale di corruzione
noi in fuga dagli altari della patria e dai padri
davanti il muro rosa colossale delle madri in attesa

“Neon 80″, di Lidia Riviello è un’opera oltre che preziosa, necessaria. Per capire innanzitutto come e perché la luce avesse smesso di illuminare, e l’esperienza, perfino della felicità, che può essere tale solo se condivisa, isolata dal collettivo e piegata a mero fatto privato.
“non c’è neon che si sia spento senza un perchè ”
Vorrei allora concludere questa mia nota con un appunto e una voce.
L’appunto concerne il suono della parola neon e contaminazione sonora con il francese néant. Etimologicamente, la parola ha la sua origine nel latino volgare, ne gentem, ovvero nessuno. In Francia si trova sulle carte d’identità per indicare la totale assenza di segni particolari. Signes particuliers: néant. Louis Aragon scriveva che bisognava “guardare in faccia il “nulla” (néant) per saperlo sconfiggere (pour savoir en triompher).
Viviamo un’epoca di Re-vival (redivivi) e di Re-minders. (Rammendi). E solo una poetessa poteva narrare lo strappo che c’era stato tra i due decenni, il Settanta e il Novanta. Solo un verso, in ogni senso raccontare la ferita, il taglio – nell’Ottanta i miseri abitanti dell’Italia, a novembre, studiavano i segni lasciati sulle pareti dal terremoto per confidare o meno nella solidità delle proprie abitazioni scosse. E’ un grazie, di nulla, gridato a quei miseri anni.
La voce, è quella di Lidia Riviello, che nella Cronologia finale dell’opera dice:
Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite. Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento. Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma solo a quelli di restauro.
Francesco Forlani

—————-

“AUTOREVERSE” di Francesco Forlani – L’Ancora del Mediterraneo, 2008 - euro 13,50 – pagg. 157

recensione di Lidia Riviello

E’ il 1948, quando con lo swing all’italiana Addormentarmi cosi’, le signorine pallide che indossano gonnelline di pura lana “italica, mugugnano teneri sensi di colpa, diventando rosse come mai erano state le loro madri ( forse meno…?) ai primi contatti “bocca a bocca”, “morendo insieme” al compagno di balera, “labbra sulla labbra”. Chi aveva voce cantava per configurare un paese che ancora non c’era, chi non l’aveva stava a guardare un’Italia fatta di guerra che non riusciva a dormire. E poi c’era chi, di voce, ne aveva avuta in quantità “esistenziale” per parlare e soprattutto per scrivere, ma forse in parte se ne vergognava e due anni dopo se ne sarebbe andato via da quel mondo “senza finire l’anno”. Questi era Cesare Pavese.
E’ il duemilasette, quando Francesco Forlani indossa una vita, quella del sopradetto e sempre discusso, Cesare Pavese, e va alla ricerca della sua viva voce, in un romanzo, “Autoreverse” che sconvolge i canoni della rituale e convenzionale biografia. Spesso le biografie sono gonfie, come se l’autore, identificandosi nel personaggio di cui “tradisce” la storia/vita, si sostituisse a questi, provocando fuoriuscite di altre vite che bloccano il traffico delle parole. Sottolineando contorni che il “bio-grafato” aveva impiegato tutta la vita ad assottigliare, oppure trascurando, con narcisistica interpretazione, l’essenziale esistenziale cosi’ essenziale per quella vita/opera. Forlani non occulta nessuna vita di poeta, sa che tutto è stato scritto ma nulla è stato ancora ascoltato. La voce del poeta è inascoltata, perché dice quello che non sempre scrive, sfugge ai recintori, scusate, recensori, ed è piena di errori. Sgrammaticata, perché vorrebbe solo cantare, tradisce l’immaginario dei lettori/uditori che vorrebbe le voci dei poeti sempre in “stato di grazia” ed invece eccole nella permanente resistenza alla idealizzazione, al plagio. Eccole in serie le voci dei poeti: rauche, sofferenti, sgraziate, piene di tosse, riottose, che dicono no, infantili, stridule, oppure cosi’ mute da lasciarti senza poesia. E piene di una vita di cui la poesia è solo al servizio.
La voce è quel corpo che non cede al tempo, contraria all’immagine convenzionale, allo streotipo in vita e in morte, al “pettegolezzo” che tanto Pavese temeva, perché quelle del pettegolezzo, della mondanità reiterante, sono le voci del campo, del cortile. La sua era una voce fuori campo. Ed è questa che cerca Francois, lo scrittore che viene da Parigi, che Forlani sceglie come suo “alter reggo” giocoso, intuitivo, gentile, ma che non ha remore a effettuare incursioni a sorpresa ovunque vi sia sentore di un Pavese mai sentito prima, di un altro Cesare. Cerca la voce originale, autentica, l’unica registrazione, forse persa, del poeta, un documento, dunque, ma presto si rende conto che per arrivare a trovare la voce di Pavese deve attraversare tutta Torino, città che ti sfugge e ti “stanca”, che se non la tieni ti lascia. Senza ansia di protagonismo ma con una sete struggente segue le tracce che partono dalla sua idea di Pavese, che è piu’ di un’idea, è un desiderio. Mosso da desiderio arriva in un profondo Nord fatto di un profondo Sud all’ Hotel Roma di Torino, dove Pavese si suicido’ nel 1950 e dove Francois vuole passare la sua notte. Nella stanza 313 udrà forse “la voce di dentro” di Cesare? Dentro una sola stanza Moby Dick, La bella estate, La luna e i falo’, il cinema, la “spassosa musica americana”, le donne che nascono da dentro e che prendono forma lasciando sguardi di approdo.
All’Hotel Roma ci lavora un uomo semplice, diretto ed enigmatico allo stesso tempo, l’altro alter reggo di Forlani, Angelo di Casapulla (Caserta) che ha “la voce di fuori”, le chiavi in mano. E’ il portiere di notte dell’albergo, che subito smitizza lo slancio figurativo e l’identificazione fra finzione letteraria e condizione umana di Francois: la stanza non è piu’ la 313, quella in cui il poeta si lascio’, ma la 346. La ricerca, “uaglio’ ” è lunga, la strada afosa, il poeta senza voce. Fra i due s’instaura una istintiva complicità, un dialogo fino al termine della notte, un intreccio di due opposte e cosi’ animate vite. Nonostante le due ricerche si snodino autonome, sul disco dell’epoca nostra e dell’epoca di Pavese, suonano le loro narrazioni in prima persona.
In realtà anche Francois e Angelo cercano la loro voce disseminata nelle caotiche pulsioni dell’Esperienza. Le donne, le avventure del dialogo, la conoscenza dell’altro. Francois segue corsi d’inglese, punta la luce sul volto di una donna, cerca attraverso documenti, amici di Pavese, lettere del poeta stesso, ricostruzioni, registrazioni del premio Strega (che Pavese vinse nel 1950) di rintracciarne il corpo vitale . Tutto questo con desiderio ma anche discrezione, perché Pavese è imprendibile. Tutti parlavano di lui e lui non si è fatto “prendere”.
Angelo ama il corpo delle cose, si disfa delle cose che non lo appassionano, sa di affaracci e crimini e misfatti della sua terra e si ritrova dentro un giallo vero e proprio, e s’innamora pure della bellezza, della straniera, di un’altra voce che non lo nasconda ma lo accolga cosi’ com’è: Angelo Cocchinone, ed è il primo a dire che questo Hotel Roma, noto per la morte del poeta, è un luogo di cui liberarsi e liberare Pavese, ché su questo dramma si è fatto del marketing. Sia Francois che Angelo devono liberarsi e liberare, attraverso il racconto in prima persona, una terza persona: Cesare.
Ma chi aiuterà infine Francois a trovare ( se la trovera’) la voce di Pavese incisa su nastro?La Rai teche? La storia letta dai giornalisti? L’editore che attende lo scoop? Pavese stesso? Francois riporta Pavese dentro casa, fuori dalla stanza del dolore. Lo libera dallo stereotipo dagli inde-fessi critici annoiati del tempo, dalle attrici americane volubili. Come la Dowling, Constance senza sostanza.
“Se mai riuscirò a sentire la voce di Pavese come farò a descriverla?”. Sarà questa domanda che il nostro si porra’ infine al termine della notte di questo romanzo. Difficile Francois, difficile. Perchè quando lo scrittore cerca l’uomo trova ancora, sempre, il poeta.
Lidia Riviello


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Scritto venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:47 nella categoria RECENSIONI INCROCIATE. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

113 commenti a “RECENSIONI INCROCIATE n. 6: Francesco Forlani e Lidia Riviello”

Come ho scritto sul post questa è una nuova, particolarissima, puntata delle “recensioni incrociate”… dato che i protagonisti dell’incrocio sono l’autore di un testo di narrativa e l’autrice di una silloge di poesie: Francesco Forlani e Lidia Riviello.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:53 da Massimo Maugeri


Dò il benvenuto a entrambi… anche se Francesco (effeffe) è già intervenuto altre volte qui su Letteratitudine.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:54 da Massimo Maugeri


Vi invito a interagire con i due autori e a partecipare alle discussioni collaterali sui temi trattati (o sfiorati) dai due libri che presentiamo.
Ripeto, dunque, le mie domandine…

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:56 da Massimo Maugeri


Come sono stati, per voi, gli anni ‘80? Come li ricordate? Quali sono stati i pro e i contro? (libro della Riviello)

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:56 da Massimo Maugeri


Ascoltare la voce di uno scrittore, di un poeta… udirne il suono… può consentire di conoscere meglio le sue opere? Oppure c’è il rischio che, in qualche modo, quell’ascolto possa esercitare una funzione “sviante”… (libro di Forlani)

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:57 da Massimo Maugeri


Caro Massimo,
rispondo subito alle tue domande perchè, ancora una volta, mi entusiasmo per una tua proposta. Mi entusiasmo perché nel 1980 avevo sedici anni e leggevo( quasi) tutto di Pavese.. E’ una strana coincidenza.. Pergiunta nell’estate del 1980 avevo avuto una discussione proprio su Pavese: mi si rimproverava di “far finta” di conoscerlo e non lo conoscevo abbastanza. Ho un bellissimo ricordo di quella estate( non legato a Pavese, però) e ricordo bene la discussione, perché me n’ero andata a letto e, piangendo, dicevo: “Non é vero che non lo conosco abbastanza..”- Comunque mi ero meritata la “lezione” perché ero molto presuntuosa.
Ho ascoltato le voci dei due scrittori di cui proponi qui le “recensioni incrociate”( da Fahrenheit Radio Tre): io preferisco sempre leggere il testo degli scrittori. Sì, posso ascoltare le loro spiegazioni e la loro voce può sembrarmi più o meno “simpatica”, ma alla fine non so nulla del libro che hanno scritto, perché il libro resta sempre “un’altra cosa” rispetto alla persona che lo scrive( l’idea non è mia, si sa).
L’ascolto, quindi, può esercitare una funzione “sviante”.
E’ utile ascoltare per la curiosità che “il raccontare il proprio libro” può suscitare in chi ascolta, nel senso che si é portati a leggerlo. Questo sì.
Il desiderio di ascoltare la voce di Pavese ce l’avrei anch’io, di sicuro.
Però, come scrive Lidia Riviello nella sua recensione, “quando la scrittura cerca l’uomo trova ancora, sempre, il poeta”; e, sempre lei, ci ricorda le parole scritte da Pavese l’ultimo giorno in quell’albergo: “Non fate pettegolezzi”.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 19:17 da roberta


Cara Roberta,
mi piace sempre tanto ciò che scrivi.
Anche quest’ultimo sospiro di Pavese.
E mi piace molto anche questo incrocio tra narrativa e poesia.
E’ bello che si sovrappongano e si mescolino attraverso due interpreti tanto appassionati.
Bravi!
Un abbraccio

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 20:30 da Simona Lo Iacono


@Simona
Cara Simona,
grazie. Figurati quanto mi fa piacere che me lo dica tu.
Non abbiamo sentito la tua “voce”, ma abbiamo modo di avvicinarci a te leggendo il tuo libro.
Sì, le parole di Pavese( a proposito di quanto sono importanti le parole) stanno lì, così piene di “affetto”. Che dolore per la scomparsa di questo scrittore: io ne soffro ancora.
Un abbraccio anche a te.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 20:41 da roberta


Anche a me è piaciuto molto il tuo commento, cara Roberta.
È davvero bello il collegamento che sei riuscita a trovare (e l’aneddoto che hai raccontato). Grazie.
Sono sicuro che questo post si svilupperà in maniera interessante… anche con la partecipazione di Francesco e Lidia.
-
Un saluto a te a Simona e a tutti gli amici.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 20:42 da Massimo Maugeri


Ciao, Massimo caro:)
Certo: è un post molto bello, come sempre.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 20:43 da roberta


@Massimo:
Massimo, scusa se rubo un pò di spazio qui, ma non so in quale altro spazio scrivertelo:
ti ho scritto una mail all’indirizzo: letteratitudine@gmail.com.
Va bene?

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 21:17 da roberta


Cara Roberta
ma lo sai che il titolo del mio romanzo lo debbo proprio a una poesia di Pavese tratta da “La terra e la morte”?
…sei riarsa come il mare,
come un frutto di scoglio
e non dici parole.
-

A Lidia Ravello, che è meravigliosa cantrice degli “strappi”e delle “ferite”, tanto simili a quelle di Pavese, e a Forlani, che ancora cerca – come a scovare il richiamo di una sirena inabissata – la sua voce, vorrei chiedere quanto i versi di questo poeta abbiano inciso nella loro formazione.
Grazie (un abbraccio, Roberta)

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 21:20 da Simona Lo Iacono


oppsss: Riviello.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 21:22 da Simona Lo Iacono


carissimi vi scrivo andante adelante, nomade, per cui non potrò seguire se non domani il post. Intanto vorrei ringraziare tutti. In primis Massimo per l’invito e soprattutto per aver accettato “l’anomalia”di questo tiro incrociato, di poesia e prosa. E quindi quanti sono intervenuti e quanti, spero, interverranno.
Una risposta intanto la vorrei dare a Simona . La poesia, il respiro di Cesare Pavese, è stato all’origine del progetto. Una chiave si trova proprio nei dialoghi con Leucò, nel dialogo tra Odisseo e Calypso, ma devo dire che è il metro pavesiano, il ritmo del verso che ha condizionato molte delle pagine di Autoreverse. Se poi sia riuscito o meno l’esperimento non sta a me dirlo, hèlas!
effeffe

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 21:35 da effeffe


Un poeta che legge le sue poesie per me è fuorviante, anche se presenta una recitazione perfetta. Posso dirlo anche perchè a me è capitato di leggerne di mie e mi sono accorto che sono più comprensibile quando leggo quelle di altri autori. Aggiungo che la poesia dovrebbe sempre essere letta a voce, ovviamente con un tono basso, e che per sua stessa natura impone diverse riletture; quindi la sonorità ha una sua valenza nella misura in cui uno l’ascolti e la riascolti.
Sarò vecchio, ma amo aprire il libro (di poesia o di narrativa), leggere una pagina o quattro versi, prendere il lapis e farmi un appunto a piè di pagina, sia per evidenziare alcune caratteristiche sia nel caso che mi sorgano dubbi interpretativi.
Insomma, la mia lettura, sebbene abbastanza veloce, finisce con il diventare un lavoro, ma a volte assicuro che è veramente un lavoro piacevole, un incanto in cui ci si immerge inconsciamente e dal quale non si vorrebbe più uscire.
Nello scrivere la recensione della biografia di Dylan Thomas mi è capitato con una sinsola poesia, talmente magica che già in inglese mi aveva rapito e che la traduzione rendeva superflua. Questa è la poesia: la magia improvvisa a cui dolce è abbandonarsi.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 22:19 da Renzo Montagnoli


che tubular bells sia o meno il miglior disco di mike oldfield è opinabile. quello che è certo è che non è dell’80 ma del 1973

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 23:24 da enrico gregori


Oops… avevo scritto un commento ma è saltato.
Enrico, io sono del 1973 e DEVE essere per forza un anno speciale!
:-)
Torniamo seri… la morte di Pavese, quella di Tenco, di Primo Levi col suo volo inspiegabile… non sono solo scomparse terribili di esseri umani, ma anche perdite e strappi sulla tela della letteratura, della musica…
Riascoltare un poeta amato è amarlo da un altro punto di vista. Sarebbe come riuscire a vedere nel passato della persona che ami, prima che ti conoscesse. Straniante. Ma forse emozionante.
Il post si presenta succoso: poesia e narrativa.
Anni Ottanta. Melania Mazzucco scrive una cosa bellissima di questo periodo: che non ne visse affatto l’aspetto edonista. Spensierato.
Io ero bimbetta, ma ricordo le pagine sull’omicidio Dalla Chiesa (l’ho scritto anche sul post dedicato al 1982, quello scritto da Alajmo), quel senso di leggerezza pop che io non vivevo ma che leggevo dalle pagine di Cioè. I cartoni animati giapponesi. Le merendine del Mulino Bianco dalle sorpresine a forma di scatola di fiammiferi. Sono flash, forse lampi al neon.

Postato venerdì, 23 gennaio 2009 alle 23:53 da Maria Lucia Riccioli


Anni 80 il ricordo và a Giovanni paolo il papa-uomo simbolo della pace fra gli uomini, grande figura d’amore negli anni in cui si è cominciato in Italia a parlare seriamente di aids, ricordo i giornali con fotografie impressionanti dei malati americani,tutto annunciava la nuova peste come un flagello che ci avrebbe colpiti. la morte di John Lennon e la sua imagine immortale, di più prosaico ricordo le belle e cotonate con la pistola in mano Charlie’ Angels, di cui mi domandavo come facesse a non scompigliarsi la chioma durante le azioni rocambolesche per catturare i cattivi, la classifica del supertelegattone e il libro di Umberto Eco “il nome della rosa” letto tutto d’un fiato.
chissà, mi verrà in mente altro…magari addormentandomi,
io avevo quindici anni nell’80: mi piaceva molto anche Saranno famosi, Leroy il ballerino di colore e Martelli che suonava il pianoforte e pensavo che bello se facessero una scuola così anche in Italia….Se l’avessero fatta ci avrei iscritto mia figlia adesso.
cari saluti

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 00:46 da francesca giulia


per gli ‘80 sono anni decisamente squallidi, soprattutto se paragonati con la pesante eredità dei ‘70 e dei ‘60. anni leggeri, poco significativi. secondo me dell’onda lunga degli anni ‘80 ne risentiamo anche adesso.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 01:23 da mattia


io credo che sentire parlare un artista della parola possa avere una sua utilità. forse non aiuta a capir meglio le opere, ma aiuta a capire meglio l’uomo. e capendo meglio l’uomo si finisce con il comprendere meglio le sue opere.
spero di non essere stato contorto.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 01:24 da mattia


auguri agli incrociati per i loro libri e complimenti per le belle e originali recensioni

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 01:25 da mattia


grazie a te Mattia
intanto una piccola precisazione per Enrico.
L’errore, la faille, la scivolata su Mike Oldfield, dovuta alla sola imperfettibile memoria, è stata causata dalla sovrapposizione mentale dei due album, Tubular Bells e Crises. Confusione dovuta in parte alla pubblicazione dell’album Tubular Bells II di dieci anni dopo gli ottanta. L’album Crises che impose nell’83 a tutto il mondo il nome di Mike Oldfield (il singolo moonlight shadow fu una vera hit) era sicuramente minore, su questo concorderai con me, rispetto al precedente originale TB del “73. L’icona in copertina attraversa i ventanni (tubular bells II) è degli anni 90, forse , chissà, anche per le ragioni da me evocate. Comunque grazie per la precisazione. Ti devo una birra.
effeffe

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 01:39 da effeffe


caro Massimo provo a rispondere alla tua domanda più che legittima. Bisogna dire che non esiste per fortuna una regola valida per tutti, in letteratura. Non è vero che la voce – il protagonista del mio romanzo cerca proprio il respiro, il suono, a prescindere dalle parole al punto di sperare di trovare anche registrazioni accidentali della voce di Pavese- corrisponda sempre all’opera di un autore ma il più delle volte sì. E lo credo a tal punto che ormai, ove possibile, quando su Nazione indiana propongo un autore contemporaneo cerco sempre di allegare un documento audio che ne riproduca la voce. Quando senti la voce di Sciascia la senti immediatamente in relazione all’opera dello scrittore siciliano e la stessa cosa ti capita con Calvino o Pasolini, Celine Camus. Per i poeti poi il discorso si fa più complicato. Non tutti i poeti riescono attraverso la propria voce a dare un corpo supplementare al testo. Basti prendere Ungaretti e Montale, e immediatamente ne cogli la sostanziale differenza. Detto questo, se è vero che un testo deve poter vivere anche senza la voce del suo autore, è altresì vero che un poeta in grado di lavorare sulla dimensione orale della propria poesia non sottrae al testo qualcosa. Al contrario lo fa esplodere su altri campi. Così, per esempio la voce (e l’opera) di Lidia Riviello.
effeffe

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 09:00 da effeffe


Sono d’accordo con effeffe… il testo ha una sua vita autonoma rispetto all’autore e può persino trascenderne la fisicità e la sua stessa esistenza: pensiamo all’Odissea o all’Iliade. Se Omero fosse solo un nome per qualificare una schiera di anonimi aedi, i due poemi avrebbero comunque la loro esistenza trasmigrata in migliaia di altre opere d’arte, nella mente e nel cuore degli infiniti ascoltatori e lettori.
La voce dell’autore è un surplus, un plusvalore, io direi un sovratesto: qualcosa che al testo si sovrappone fornendoci una nuova inedita straniante prospettiva.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 09:26 da Maria Lucia Riccioli


Massimo, a mio avviso, nessun accostamento è possibile tra la fisicità di un autore e la sua opera. Tentare questa operazione mi sembra un artificio tanto inutile quanto spiegare l’inconscio o i comportamenti a partire dalla fisiologia.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 10:34 da eventounico


Bello il post,belle le recensioni e sicuramente saranno belli anche i libri.Le domande di Maugeri sono molto invitanti

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 10:45 da Marco Vinci


Gli anni 80 sono gli anni dei miei 20 anni e dunque credo che per me sia impossibile non ricordarli con affetto.Cosa resta di quegli anni?Se lo domandava anche Raf in una canzone,ricordate?Forse poco,o niente. però credo che quello degli 80 sia stato un decennio meno nocivo di altri.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 10:47 da Marco Vinci


sono d’accordo con Mattia. La voce di un autore,ma anche le sue espressioni,le sue movenze fossono fornire indizi per capire ciò che scrive. e poi c’è la curiosità, il motore principale che spinge alla conoscenza.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 10:49 da Marco Vinci


@evento unico
eppure dirsi a voce le cose, è importante. Non si tratta di fare accostamenti, o di introdurre un legame di causalità in letteratura – per cui una bella voce, ma poi cosa significa avere una bella voce, condizione e determina un’opera e viceversa. Sicuramente non è un artificio, certamente in una voce c’è qualcosa di più che non le migliaia di reazioni che ne fanno un fenomeno meramente fisiologico. Basti pensare all’importanza della “vocazione” per un letterato (ma in fondo per chiunque).
effeffe

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 10:51 da effeffe


anni ottanta (ovvero dei quattro venti, traduzione libera en français)
effeffe

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 11:00 da effeffe


sto per varcare la frontiera (allez, vos papiers) dunque lascio il testimone a Lidia per intervenire . Se trovo una french connection, magari rientro.
ciao a tutti
effeffe

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 11:02 da effeffe


Grazie mille a tutti gli intervenuti: Roberta, Simona, Enrico, Renzo, Francesca Giulia, Mattia, Maria Lucia, Eventounico, Marco Vinci.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:24 da Massimo Maugeri


@ Francesco Forlani (effeffe)
Grazie per i tuoi interventi e… buon transito in Francia.
-
(adesso un paio di domande per Francesco e Lidia)

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:26 da Massimo Maugeri


@ Francesco Forlani
Da dove nasce il tuo interesse per la figura di Pavese? Perché lo hai scelto come “protagonista indiretto” del tuo romanzo?

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:35 da Massimo Maugeri


@ Lidia Riviello
A tuo avviso, qual è stato il miglior pregio (se c’è stato) degli anni Ottanta?

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:36 da Massimo Maugeri


@ effeffe
conoscevo mike oldfield fin da quando era chitarrista/bassista nel gruppo di kevin ayers e il suo primo album solista “tubular bells” fu un evento. credo che in un certo senso possa essere considerato un capolavoro innovativo se non altro perché il muisicista suona tutti gli strumenti nella registrazione operata con le sovraincisioni. Un’opera, peraltro, composta e abbozzata dentro casa con un piccolo impianto di registrazione. A livello di gusto personale, però, quello che preferiso è “Ommadawn”. Ma questa è un’altra storia.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:37 da enrico gregori


@ Francesco Forlani
Sarebbe possibile postare, tra i commenti, un brano a tua scelta tratto da “Autoreverse”?

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:40 da Massimo Maugeri


@ Lidia Riviello
Analogamente… sarebbe possibile postare, tra i commenti, una o più poesie a tua scelta tratte da “Neon ‘80”?

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:42 da Massimo Maugeri


@ Francesco (effefe) e Enrico
Confesso di conoscere Mike Odfield solo di nome (e per sentito dire). Se dovessi decidere di acquistare un suo cd, quale mi consigliereste?

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:43 da Massimo Maugeri


Auguro buon sabato sera a tutti.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 14:43 da Massimo Maugeri


@ massimo:
credo che i primi tre siano i migliori:
tubular bells
hergest’s ridge
ommadawn
per me come peschi vai bene. forse hergest’s ridge è il più “difficile” e ommadawn il più immediato

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 15:08 da enrico gregori


Mi dispiace che lo scrittore sia partito per la Francia( beato lui).
Volevo chiedergli qualcosa circa un nome..Nell’intervista a Radio Tre ha detto che una sua allieva a Parigi quando si presentava aggiungeva sempre al suo cognome “Flan”+ “comme le gateau”( non trovo l’accento circonflesso). Nel libro non ho capito chi fa una cosa del genere e perché; forse il portiere?
Grazie.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 16:44 da roberta


@ Sergio Sozi:
la tua mancanza si sente sempre, quando “sparisci”.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 16:45 da roberta


Ringrazio Simona per il suo abbraccio e anche Massimo perché ha chiesto ai due scrittori di inserire brani dai loro testi. Così li leggiamo.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 16:48 da roberta


Post interessante. Mi riservo di intervenire nei prossimi giorni. Buon w.e.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 17:22 da Martina


Trovo che sia già una grande concessioone, da parte di uno scrittore, rilasciare interviste (anche in questo spazio) e rispondere a domande di chiunque voglia porgerle.
Lo dico perché è già abbastanza difficile che tutti quelli che leggono un libro lo capiscano, cioè ne capiscano davvero il significato( la maggior parte delle persone, infatti, “proietta” se stessa e continua a crogiolarsi sempre sulla propria personalità, anziché su quella della storia che legge o su quella dello scrittore- è una trappola in cui si cade spesso-). Figurarsi se poi uno scrittore deve pure “spiegare” a voce le sue intenzioni.
Mi viene in mente, a questo proposito, un’intervista di Minoli alla Yourcenar ( nel 1987, poco prima che lei morisse) nella trasmissione “MIXER”: Minoli faceva la sua intervista con intelligenza e la Yourcenar gli rispondeva all’inizio garbatamente, ma poi( se non ricordo male) gli aveva detto: “Ma lei continua a farmi domande cretine?”- o qualcosa del genere.
Per “sentire la voce” intendo dire questo modo di sentire lo scrittore, se non ho capito male il senso degli interventi sopra.
Se, invece, come dice Francesco Forlani, il poeta “lavora sulla dimensione orale della propria poesia”, allora forse è un altro discorso, se legge ad alta voce il suo testo. Molière recitava nelle sue commedie, quindi “recitava se stesso”. Così è un’altra cosa, mi sembra.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 17:23 da roberta


Scusate , solo ora mi è stato possibile accedere ad internet, e resto affascinata e travolta ( talvolta accade per fortuna) dalle vostre osservazioni, dalle parole , come assedio di rose gialle, grazie massimo, grazie a tutti, a roberta che vorrebbe leggere i nostri testi e a francesco che mi ha lanciato l’amo che amo e mi ha invitata alla recensione incrociata… devo recuperare il tempo e rispondere alle vostre domande , inoltre inviarea massimo delle poesie da Neon… !

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 18:28 da Lidia


reduce dalla più rapida delle mie incursioni in francia, durata un’ora sul triptyque bardonecchia Modane bardonecchia e tornato in monolocale eccomi in post – azione per cercare di rispondere alle domande che sono sorte lungo il thread e che devo dire ho trovato “mirate”.
comincio con Enrico.
quindi anche tu reputi crises un album minore? Con un amico noto critico musicale si diceva qualche tempo fa che nello strano passaggio dalla sperimentazione al pop molti gruppi ci avevano guadagnato. Nel caso di Mike Oldfield penso sicuramente di no. E concludo. Durante il mio quasi ventennale esilio francese ho frequentato Richard Pinhas conosciuto come Heldon(vd youtube). che ne pensi?

@ simona volevo dire che spero di leggere il suo romanzo quanto prima

@ roberta, il riferimento alla mia ex allieva era per la particolarità con cui la protagonista, helena si presenta e si fa presentare. Helena con la acca. Mi ha sempre affascinato questa storia, per motivi biografici ( dicevo sempre Francesco Forlani, comunista, per non essere affiliato all’ omonimo Arnaldo ) ma anche per l’interpretazione che ogni individuo fa del proprio nome, ovvero di qualcosa che ti è stato attribuito e di cui cerchi di appropriartene. Così come i tic ( ci sono pagine memorabili di deleuze Guattari su questa rivolta della faccia alla fissità della maschera) o le appartenenze geografiche. il mio personaggio angelo cocchinone è per esempio ossessionato dal desiderio di essere nato nel paese vicino al suo, casagiove e non casapulla. Ecco perché citavo la dolcissima mme Flan nell’intervista.

Per quanto riguarda la dimensione didascalica dell’intervista allo scrittore (non amo questa parola, hèlas, preferisco essere uno che scrive, tra l’altro dei libri) ti assicuro che in situazioni come questo forum è più probabile che l’autore capisca qualcosa in più del proprio testo che non viceversa. la mia fiducia nei lettori è infinita, ti assicuro, e mi fa piacere confrontarmi innanzitutto da lettore e poi con i lettori, proprio per fare meglio o magari più semplicemente, in modo più consapevole la prossima volta.

Sulla questione dell’oralità in poesia è un tema che mi appassiona oltremodo. Ultimamente sto facendo dei micro esperimenti (photoshoperò) su nazione indiana dove a d esempio la lingua che uso (idioletto) sarebbe poco efficace se separata dalla sua esecuzione. Questo però è solo un esempio e mi piacerebbe che Lidia, performer, lettrice di testi alla radio, a teatro, dicesse la sua.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 19:08 da effeffe


ringrazio anche maria lucia , marco, mattia, renzo simona e francesca giulia (juliette è una voce significativa in autoreverse oltre che protagonista di una canzone scritta insieme a marco rovelli, la comunarda vd youtube au cas où)
e per rispondere a Massimo sulla genealogia dell’interesse per Pavese, dirò in breve com’è cominciata. Ero ancora a Parigi e con i ringe ringe raja,gruppo napoletano con cui lavoriamo dai tempi dell’università volevamo fare un omaggio ad alcuni scrittori che si fossero cimentati con la canzone. Calvino (dove vola l’avvoltoio, oltre il ponte, il padrone del mondo) pasolini (cosa sono le nuvole, i ragazzi) dario Fo (ho visto un re, vengo anch’io) e pavese. Perfino celine. Cesare Pavese come scrive Mila era appassionato di canzoni (Milly il primo grande amore era cantante e ballerina) e il verso della sua poesia ha un ritmo che si iscrive quasi naturalmente nella forma canzone. Leo Ferrè aveva per primo infranto il tabù della canzone traducendo e musicando la poesia l’uomo solo (l’homme seul). Noi facemmo lo stesso con un’altra poesia da lavorare stanca e riportata “a memoria ” nel romanzo. Il chitarrista ernesto nobili, pavesiano di ferro, aveva contribuito in modo fondamentale al progetto. quando l’anno successivo persi tutto (casa, lavoro e soprattutto fiducia nelle mie energie) e fui estradato per motivi economici a torino pochi mesi prima lavorando sulle canzoni avevo cominciato a pensare a un progetto di romanzo. e così mi sono letto o riletto testi scoperti da ragazzo e leggendo le due biografie, quella di Fernandez e di lajolo, mi sono confrontato con delle anomalie che mi hanno condotto a meglio indagare sulla figura di Constance Dowling. Volevo riscattare l’americana dal torto subito dai critici secondo cui era stata la causa della morte di pavese. Perché solo riscattando lei avrei riscattato l’amore che il poeta provava per lui. in realtà autoreverse è un’interrogazione su questa problematica. lo stesso pannello dell’hotel roma, che ti appare dalla stazione di Porta Nuova, se lo vedi dall’altraparte (si tratta di un’insegna al neon che illumina i chiaroscuri dei portici) ti appare in una nuova luce. Amorletoh (amore lieto).
effeffe

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 19:27 da effeffe


per concludere il triptyque che spero vivamente non scoraggi i tuoi lettori, provo a copiaincollarvi un passaggio che riguarda il personaggio evocato (e amato) dal tostissimo conduttore del programma (fahrenheit)
si parla di madame.

lato A: la signora

«Puttane qui non ne voglio vedere, ci siamo spiegati?» ci aveva intimato il direttore, Paolo Lubbia, durante una riunione del personale.
Non so da quand’è che le stazioni sono diventate stazioni, le piazze di fronte ricettacolo di ladri e puttane, gli alberghi circostanti delle camere a ore e le
strade tutte intorno una corte di miracoli e di sex shop.
Guardo la scena, l’ennesima che vedo fare al mio capo, e pur essendo dalla sua parte non posso trattenermi dal pensare a loro, alle puttane. Il volto è una faccia, spenta, una maschera di cenere dove sai che da qualche parte c’è ancora luce, una fiamma che vive. E lo capisci dagli occhi che vedono, hanno visto e vedranno tutto l’indicibile.
Nel sorriso appena accennato ci trovi una traccia di sole, un fuoco che ti incendia lo sguardo, se lo incroci, una remota possibilità di salvezza.
In certi gesti, ai tavolini dei dehors sotto i portici, nel modo di parlare al cellulare, di accavallare le gambe, infilare gli occhiali da sole, di sollevare la
tazzina del caffè inutilmente elegante, scorgi quel che resta di antiche ambizioni. Non doveva essere diversa, la vita? Certo, ci sono pure delle puttane, come dire, felici, ci mancherebbe altro. Se fosse per me, un mestiere così lo registrerei alla Camera di Commercio, professione: puttane gaudenti.
Alle stazioni, però, le puttane non trasmettono affatto allegria. Gettate fuori da ogni albergo, insultate dall’indifferenza o dalle mani pesanti sul culo, poste come un timbro da nuove dogane. Occi su una chiappa e dente sull’altra.
Anche sulle loro labbra scorgo il principio di un grido, lo stesso che ti fa dire no in una giornata uguale a mille altre, un urlo che non somiglia a nessun’altra cosa e ti strappa il sorriso, se ne hai ancora uno. E allora capita che la vita se ne accorge e miracolosamente ti porge qualcosa di differente, magari un marito pirla made in Italy e pure ricco. O chissà, una persona perbene.
Ma per Madame vale un altro discorso, un trattamento diverso. L’ho capito fin dal primo momento in cui l’ho vista, in pieno apprendistato. Il passo fe-lino che al suo passaggio si porta dietro ogni cosa, a cominciare dallo sguardo di chi la incrocia per strada. Mi colpì innanzitutto la postura, antica, da ma-
trona romana, poi l’incedere lento della parola dopo una pausa, la risata fragorosa, il rimmel distratto.
E ogni volta che veniva da noi era una sequela di riverenze e attenzioni del personale, da Ahmed al direttore. Senza che nessuno me lo dicesse apertamente, avevo subito intuito che lei era l’eccezione. Del resto il direttore non faceva nemmeno mistero del legame che aveva con lei.
Quando la vidi entrare in albergo per la prima volta era un 27 del mese. Giorno di paga. Il primo stipendio. Mastroianni non le aveva nemmeno
chiesto di riempire il formulario e di porgergli un documento, come si fa normalmente per registrare le presenze.
Sola, la vidi salire le scale fino al terzo piano – benché avesse una sessantina d’anni, portati magnificamente, disdegnava l’ascensore – e da sola la vidi
scendere l’indomani mattina. Non sono nemmeno sicuro che avesse pagato. Di certo non prese nemmeno un caffè. E sola, sempre più sola, la vedevo ar-
rivare, come per compiere un rito, il 27 di ogni mese, tutti tranne agosto. Non ho mai osato chiedere al mio capo chi è veramente, e che cosa ci azzeccano le sue visite con il 27. E non mi va di chiederlo a Helena, che le rifà puntualmente la camera. La regola comunque non si prestava ad alcuna
ambiguità: puttane in albergo, no.
Ora, Madame era vestita come una puttana, aveva un profumo acre e forte, da puttana, dei modi da puttana, sorseggiava persino il caffè come una put-
tana. Insomma, un po’ puttana lo doveva essere per forza. E a parte la malinconia che di tanto in tanto le scorgevo sul viso, quando, accorgendomi della sua presenza dal profumo, alzavo gli occhi dal banco, mi sembrava tutto sommato felice. Una vera puttana felice.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 19:39 da effeffe


Lidia carissima… benvenuta a Letteratitudine.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 22:32 da Massimo Maugeri


@ Effeffe
Caro Francesco, grazie per l’aneddoto sulla “genealogia dell’interesse per Pavese”. Davvero bello.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 22:34 da Massimo Maugeri


E grazie per l’ottimo brano dedicato a Madame.
-
Continueremo il dibattito nei prossimi giorni.
Per il momento auguro buonanotte e buona domenica a tutti.

Postato sabato, 24 gennaio 2009 alle 22:36 da Massimo Maugeri


@effeffe: grazie ! Anch’io ti leggerò con gioia, incuriosita dal brano che hai riportato! Mi è piaciuto moltissimo!

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 10:52 da Simona Lo Iacono


Molto originale l’idea di mettere a confronto un testo di narrativo e un testo di poesia. Riuscito l’intreccio. Interessanti le domande. Complimenti.

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 12:56 da Mario


Grazie mille, Mario. Spero che il dibattito – anche in riferimento alle domande che ho posto – possa ripartire lunedì.

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 22:10 da Massimo Maugeri


@ Lidia Riviello
Cara Lidia, aspetto altri tuoi interventi:-)
(se puoi, s’intende).

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 22:11 da Massimo Maugeri


Cara Roberta, che mi dice:
”@ Sergio Sozi:
la tua mancanza si sente sempre, quando “sparisci”.”
Ed anche tu mi manchi molto, cara amica di penna. Sono stato in Italia per pochi giorni, sai, a Spello (PG), dove vivono i miei e le mie due sorelle, dunque non ho pensato a collegarmi e ad intervenire qui, perche’ assorbito interamente dal rivedere persone Storia storie e cose che – anche – mi mancavano dalla fine di agosto del 2008. La vita e’ la vita, Roberta: i suoi profumi e la sua palpabilita’, i suoi colori antichi, non me li lascio sfuggire, ne’ li sostituisco con altro.
Inoltre sto lavorando assieme all’editore per la pubblicazione di un mio racconto al quale tengo anzicheno’: vorremmo infatti realizzare un volumetto molto curato e ”appetitoso” sia sotto il profilo storico-politologico-sociale che sotto quello prettamente artistico – poiche’ quella storiella di fantasia ha dei risvolti del tipo di quelli che ti ho elencato.
Ora sono tornato a Lubiana da due ore. Mia figlia Laura dorme. Io ho baciato prima la mia Verončica e poi lei dormiente. L’ho guardata un attimo. E mi sono sentito di nuovo a casa, proveniente da un’altra casa. Stessa familiarita’ a seicento chilometri – e due lingue – di distanza. Vivo per questo. Per non dimidiarmi come il Medardo del ”Visconte dimezzato” ma realizzare e sentire dentro e fuori di me la mia-nostra armonia… un’armonia che vedo solo nei pesci in mezzo al mare… io uomo collinare ed umbro.
Ciao, cara
Ciao a tutti, cari
Sergio

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:27 da Sergio Sozi


Per i Sig.ri Lidia Riviello e Francesco Forlani,
non abbiatevene a male ma non ho ancora letto niente di questo ”post”. Faccio ammenda e ben presto conto – tempo e lavoro letterario permettendo, ohibo’! – di esaminare le vostre opere per come son state qui presentate.
Cordialmente
Sozi

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:31 da Sergio Sozi


Luca Gallina,
ciao caro. Ti voglio bene.

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:32 da Sergio Sozi


Per quanto concerne le domande del prode e bel Maugger sugli anni Ottanta,
io li sintetizzo cosi’: Millenovecentoottanta, Sergiolino Sozzettino ha quindici anni il giorno tre marzo e sisente molto triste, innamorato (innamorato di tutto come sempre) e solo. Lolli, Guccini, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, la Marini, la Ferri, Bowie, i Doors, Renato Zero, i Sex Pistols – e il Greco, il Latino, il Manzoni – stanno attorno a lui. Lui non sta attorno a loro ma dentro di se’ e con la vita. Un gran chiacchierone, Sozi. Cosa di famiglia. L’Italia mi sembrava un sogno di bellezza tradito dalla mia miope provincia umbra. Ancora troppi innamoramenti mi avrebbero separato dalla pienezza, che viene solo quando ci si incammina sulla poderosa e tenue strada del declino. La mia. Alla quale sono orgogliosamente affezionato sin da quando ho capito di averla intrapresa a causa della Natura – dopotutto l’unica Dea del mio Lararium.

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:43 da Sergio Sozi


P.S.
…a pensarci bene ci sarebbe stato anche l’evimetal… ma quello e’ discorso a parte perche’ riguarda direttamente un mio caro e profondo amico – di allora e di ora, anche se non lo sento da decenni. E’ altra cosa, si’, l’evimetal. Meglio Manzoni? Ehhh… ai posteri l’ardua sentenza…

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:45 da Sergio Sozi


Noooo… non ci credo che ti piace l’heavy metal, Sergio. Ma davvero?
Pensavo ti piacessero solo i “Ricchi e poveri”:-) (scherzo, eh)
E con questa battuta vi auguro buonanotte e buon inizio settimana.

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:53 da Massimo Maugeri


C’ERA (imperfetto) anzi direi CI FU (passato remoto) e dico poi ANCHE, L’EVIMETAL, DELINQ… EHM CARO MASSIMETTO!
Grrr…
‘notte bello, stai bene? Non ti sento da una vita…
S.

Postato domenica, 25 gennaio 2009 alle 23:59 da Sergio Sozi


Io sono un vivaldiano della prim’ora. Ed un vagneriano della seconda. Un beethoveniano sin dai primissimi anni di vita. Un metall… ehm dicevo un metalmeccanico della vita. Poi. Eh eh eh. ciao, va’, vecchio amicone.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 00:01 da Sergio Sozi


Mi scusino di nuovo gli autori ai quali e’ dedicato il ”post”. La divagazione era stata ”innescata” dal patron Maugger e dunque si scherzava un ‘’secondino” insieme. Tornando seri: interverro’ quanto prima a proposito. Pardon.
Sozi

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 00:13 da Sergio Sozi


(Maugger: ammetti e paga lo scotto, su, sii elevato, sublime giovin signore e di’: ”chiedo perdono per aver innescato la divagazione con l’incolpare il Sozi di evimetallaggine acuta, non lo faro’ piu”’. Eh eh eh…).

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 00:19 da Sergio Sozi


Gli anni 80.
In genere vengono considerati come anni evanescenti.gli anni del cosiddetto edonismo reganiano.Anni leggeri, che hanno lasciato poco segno. Eppure è accaduto un evento fondamentale che li rivaluta tutti.Un evento epocale: il crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989).Cosa ne pensate?Siete d’accordo ?

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 10:00 da Martina


A Effeeffe
Secondo lei che posizione occupa oggi Pavese nella storia delle letteratura italiana? E’ considerato in maniera giusta o troppo marginale?Io a volte penso che sia stato un po colpevolmente dimenticato…..

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 10:02 da Martina


anni 80? no grazie. dopo i fasti dei 60 e dei 70, gli 80 non possono che essere un decennio inguardabile. un pò meglio degli anni che stiamo vivendo ora però

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 11:47 da actarus


Ascoltare la voce di uno scrittore, di un poeta… udirne il suono… può consentire di conoscere meglio le sue opere? Oppure c’è il rischio che, in qualche modo, quell’ascolto possa esercitare una funzione “sviante”
……
dobbiamo decidere se l’opera dello scrittore deve essere considerata senza riferimenti o con riferimenti alla vita dello scrittore stesso. nel primo caso l’ascolto della voce deve ritenersi inutile, nel secondo potrebbe dare indicazioni utili.
saluti

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 11:50 da actarus


Chi l’ha detto che Pavese è stato dimenticato? Segnalo un concorso letterario indetto dalla Stampa e dal premio Grinzane Cavour dedicato a Pavese e che dimostra tutto il contrario:
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200811articoli/33427girata.asp

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 12:12 da Claudio C.


Anni 80 come “anni di fango”
Non so se può essere utile………
…..
“La locuzione “anni di fango” è a volte adoperata per designare il periodo di storia italiana che coincide con gli anni ottanta del secolo scorso. Si tratta di un’evidente imitazione della più diffusa espressione anni di piombo. In essa è contenuto un palese giudizio negativo su un decennio in cui la società italiana, malgrado il raggiunto benessere economico e l’inizio dello sviluppo tecnologico culminato negli anni novanta e duemila, soffre pesantemente a causa di una classe politica particolarmente corrotta, e talvolta collusa con organizzazioni malavitose come la mafia.

L’espressione deve il suo successo soprattutto al giornalista italiano Indro Montanelli, che intitolò “L’Italia degli anni di fango” il volume della sua Storia d’Italia dedicato agli anni 1978-1993, un periodo che inizia pressappoco con l’elezione di Sandro Pertini a Presidente della Repubblica e si conclude con la scoperta di Tangentopoli e l’avvio dell’inchiesta mani pulite. Il libro è il seguito de “L’Italia degli anni di piombo” (1965-1978), dedicato agli anni settanta. Entrambi i volumi sono stati scritti in collaborazione con il giornalista Mario Cervi.

L’espressione è entrata nel linguaggio comune a designare un lungo periodo di tempo contrassegnato da eventi particolarmente negativi.”
(wikipedia)

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 12:24 da Rita Montelepre


Martina,
giusto: la fine degli anni Ottanta introdusse quella grande novita’ del crollo dei regimi comunisti, questo dato non va passato sottogamba.
Ciao, cara
Sergio

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 14:17 da Sergio Sozi


@Martina
a parer mio – ma non sono il solo a crederlo – l’opera di Pavese è stata oscurata- diciamo meglio, trascurata, in questi anni. Quanti in Italia possono dire di aver letto i dialoghi con Leucò? Il che non significa avere il libro in casa. E comunque sia,nel conflitto tra le due anime einaudiane, Calvino e Pavese, è la poetica del secondo a soccombere.
effeffe

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 15:43 da effeffe


Caro Effeffe,
devo ammettere che, se di lotta fra quelle ”due anime” si fosse trattato, io sarei felice che abbia prevalso quella ”calviniana” (con tutto il rispetto per Pavese, naturalmente)…
Saluti Cari
Sozi

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 15:49 da Sergio Sozi


A volte la Storia e’ giusta: Moravia per esempio ha fatto la fine che meritava (l’oblio di meta’ della sua troppo estesa e discutibile produzione). Pavese pero’ e’ un altro paio di maniche: a differenza di Pincherle, il piemontese pubblicava solo le sue cose migliori e questo va riconosciuto senza alcun dubbio.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 15:53 da Sergio Sozi


scusa sergio (insieme poi facciamo ferrovie dello stato FFSS)
ma su Moravia non sono affatto d’accordo. E non per partito preso né per pregiudizi- positivi- legati all’impatto della sua opera nella critica del tempo.
I romanzi di Moravia- per non parlare della sua azione politica e culturale – non solo hanno resistito alla prova del tempo, ma credo che si attualizzino ogni volta, ad ogni nuova lettura. Basti pensare a un solo dato, ovvero a come grandi registi abbiano sentito la necessità, nel corso di cinquant’anni di confrontarsi con la sua opera :

La Provinciale en 1952 par Mario Soldati avec Sophia Lollobrigida.
La Ciociara en 1960 par Vittorio De Sica avec Sophia Loren et Jean-Paul Belmondo.
Le Mépris, adapté en 1963 par Jean-Luc Godard avec notamment les acteurs Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Fritz Lang…
Le Conformiste, adapté en 1970 par Bernardo Bertolucci avec Jean-Louis Trintignant et Stefania Sandrelli.
L’Ennui, adapté en 1998 par Cédric Kahn

per non dimenticare.Mauro Bolognini Agostino e la perdita dell’innocenza nel 1962 e nel 1963 La noia con la regia di Damiano Damiani a cui seguiranno nel 1964 Gli indifferenti di Francesco Maselli.

Si potrebbe poi citare la sua amicizia con Pasolini (sarà lui a pronunciare l’orazione funebre) o Nuovi Argomenti, rivista che ancora oggi anima il dibattito culturale italiano. Ma credimi, al di là, di tutto questo ci sono i personaggi e le storie di Moravia, che come pochi altri ha dato una dimensione europea al romanzo italiano.

Per quanto riguarda poi la questione da me sollevata su Pavese vs Calvino, non so risponderti. Non so dirti, veramente, cosa pensarne. la storia ha voluto che calvino raccogliesse il testimone lasciato da pavese, questo è l’unico dato.
effeffe

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 16:58 da effeffe


Gli anni Ottanta sono stati Federico Fellini e Jerry Calà, Sapore di mare e Amarcord, la fine della commedia sexy e le prime cose di Nani Moretti.Gli anni Ottanta erano un bel periodo perchè avevo vent’anni e non torneranno. In ogni caso preferisco i Settanta, per infiniti motivi cineletterari…

Gordiano Lupi

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 17:28 da Gordiano Lupi


E’ vero che Moravia ha pubblicato troppo (ma chi giudica il troppo?), ma resta un buon romanziere. Possiedo molti suoi libri che ho letto ventenne e che adesso non rileggerei (questo è vero), ma li ricordo con affetto. E poi quanto cinema italiano si è ispirato a Moravia? Non è assolutamente un autore dimenticato. Pavese è superiore, sono d’accordo, è un altro tipo di autore, forse meno commerciale e più poetico. A mio parere sono due grandi, per motivi opposti.

Gordiano Lupi

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 17:31 da Gordiano Lupi


nella nota riportata da un sito francese, riscontro solo ora l’errore su Gina Lollobrigida diventata Sophie. Mais c’est merveilleux! non trovate. La femme parfaite
effeffe

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 19:23 da effeffe


Ciao, Gordiano e Effeffe,
certo, certo, per carita’: nessuna polemica! E’ solo una questione di gusti – riguardante soprattutto il Moravia degli anni Ottanta, che venne reputato da molti, fra i quali io stesso, un autore di livello del tutto inferiore a quanto aveva scritto negli anni dai Trenta ai Sessanta. Avrebbe potuto evitare di immiserire la propria fama quand’era vecchio, ricco e famoso, ecco tutto. Se gli inglesi ti rifiutano altre opere per cinque anni dopo aver tradotto ”L’uomo che guarda” qualche motivo ci sara’, credo. Ed il motivo in quel caso era a mio avviso il non chiaro limite fra letteratura e pornografia. Sono d’accordo con i britannici e mi rattristo per il decadere in tarda eta’ di uno dei massimi nostri autori. Il cinema poi e’ un discorso diverso, che non affronto perche’ starei parlando di libri.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 19:56 da Sergio Sozi


nell’80 avevo 18 anni,cominciavo l’universita’ sotto il cattivo auspicio di un terremoto che ci sfratto’ dalle aule della Federico II per trovare piu’ sicuro ricovero in quelle del politecnico di Fuorigrotta.Con grande compiacimento degli studenti di ingegneria che videro aumentare improvvisamente la presenza femminile in quella facolta’ in cui prima era rarissima.
In seguito ,sugli anni di piombo,mi rimane questa immagine indelebile.
Poichè i brigatisti usavano sovvenzionarsi attraverso gli assalti ai furgoni portavalori,questi vennero dotati di scorta armata.Sul corso Umberto I,che portava all’universita’,se il furgone si fermava per un motivo qualsiasi,anche un semplice semaforo rosso,si spalancavano le portiere e gli agenti si piantavano in strada ,mitra e pistole spianate sui passanti,con occhi schizzati di sangue e di paura,a destra e a sinistra,puntavano in tutte le direzioni su chiunque avvistassero ,temendo un possibile agguato.appena l’auto ripartiva si buttavano dentro in corsa, sempre le armi fuori dai finestrini.Raggiungevo la prima auto parcheggiata sul marciapiedi e mi acquattavo dietro per ripararmi.diffcile dire in quali occhi ci fosse piu’ paura,nei loro o in quelli dei malcapitati che incrociavano le loro armi.la tensione era tale che non era improbabile che gli sfuggisse un colpo.
In quegli anni la paura era la costante nelle strade,nelle piazze,in ogni luogo pubblico.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 20:02 da maria gemma


a proposito di letteratura e cinema c’è un passaggio di un’intervista di Pavese assai illuminante quando alla domanda del giornalista su quale fosse un romanziere suo contemporaneo degno di nota, Pavese risponde:

Ma a che scopo fare un facile sfoggio di nomi? Resterebbero i viventi, gli italiani viventi, ma a che scopo farsi degli amici interessati e dei nemici? Meglio evitare il trabocchetto e dichiarare – del resto, secondo verità – che
per Pavese il maggior narratore contemporaneo è Thomas Mann e, tra gli italiani, Vittorio De Sica.

e sempre a proposito di letteratura e cinema, il mio amore per Fahrenheit è cominciato con la sua trasposizione cinematografica fatta da François Truffaut. E riflettendo in questi giorni alla questione dell’oralità in letteratura, mi è venuto in mente il bellissimo passaggio in cui un vecchio trasmette ad uno più giovane il libro che aveva imparato a memoria per evitare che “les sapeurs pompiers” incaricati di bruciare tutti i libri potessero distruggere l’opera. In questo estratto i libri diventano le voci di chi li protegge. A me queste cose emozionano…
http://it.youtube.com/watch?v=GpzESK8v9lQ&feature=related

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 20:41 da effeffe


Letteratura Cinema (uno)
All’intervistatore che gli aveva chiesto quali fossero gli scrittori suoi contemporanei degni di nota, cesare pavese aveva risposto:

Ma a che scopo fare un facile sfoggio di nomi? Resterebbero i viventi, gli italiani viventi, ma a che scopo farsi degli amici interessati e dei nemici? Meglio evitare il trabocchetto e dichiarare – del resto, secondo verità – che
per Pavese il maggior narratore contemporaneo è Thomas Mann e, tra gli italiani, Vittorio De Sica.

Letteratura Cinema (due)
Ho scoperto Fahrenheit grazie a Truffaut . In seguito ho letto (e amato) il libro. C’è una scena, quella in cui Montag incontra gli uomini libro, ovvero coloro che portano in sè- attraverso la voce- i classici della letteratura per impedire che i sapeurs pompiers distruggano le opere bruciando i libri. Su you tube basta digitare Montag meets the books per rivederla. E’ a partire da lì che ho sempre pensato che sarebbero state le voci a salvare le opere (qualche volta il contrario)
effeffe

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 22:31 da effeffe


eccomi, sono tornata da una lunga e surreale vacanza in una stanza di una piccola città dei castelli romani, dove, per tre giorni, influenzata allo stato puro, non potevo ( solo una volta, dieci minuti) accedere ad internet..
entro nell’atlantide delle vostre domande, riflessioni, memorie, dei vsotri racconti….
intanto, caro massimo, ti invio qualche estratto da “Neon ‘80″, altrimenti sembra ( e questo per mia colpa essendomi assentata nel dibattito) che abia scritto un saggio su “com’eravamo”…
spero di riscire a entrare e rispondere a chi mi ha posto questioni!

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 22:45 da Lidia


Va bene, Effeffe, ma resto monoliticamente dell’avviso che letteratura e cinema siano due cose diverse, delle quali io personalmente intendo parlare della prima. E’ questione di settorializzazione: io mi occupo di libri, non di cinema. E discuto di questo, appunto, senza ovviamente denigrare il cinema o altri prodotti artistici.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:00 da Sergio Sozi


Poi secondo me Pavese disse una cosa incondivisibile – eufemismo. Evidentemente non voleva farsi ne’ amici ne’ nemici, quindi svio’ l’argomento in modo molto furbesco. Anche se forse pensava veramente che De Sica fosse quel che appunto disse. In Italia c’e’ sempre il rischio di litigare con qualche collega, no?

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:05 da Sergio Sozi


sabato 24, caro massimo, mi chiedevi di un pregio degli anni ottanta.. ho scritto in poesia di questo decennio proprio perchè i pregi sono pochi
Gli ‘80, anni di fango, sono stati definiti da nanni balestrini “anni di merda”.
rifiuto nero, duro, radicale da parte di chi ha vissuto gli anni settanta con un progetto preciso, netto, sentito interamente dentro il corpo sociale e politico. Un corpo sottratto, defraudato, negli anni successivi…

ma quello che mi ha convinta a iniziare un poema “a puntate” sul decennio X, è proprio che non se ne riesce a parlare se non con un fitto elenco di: “cose”, “oggetti”, “slogan”, “marchi”, “materiali”. gli anni ottanta… una radio fantasma… Si’ sono stati scritti libri: romanzi ( penso a 1982 di Alaimo o saggi, ma… ancora non si scrive fino in fondo ( c’è il fondo…. c’è…) e si fanno film ( in italia piu’ fiction) ma ancora non si fa cinema….

Vorrei, se mi permettete, prima di inviare i versi, postare alcuni frammenti dal post ‘80 ( commento finale al libro) e , spero, caro massimo e cari tutti, intanto di avviare cosi’ il mio ingresso in letteratitudine… grazie a tutti dell’attenzione!

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:13 da Lidia


Sono qui anch’io. Un passaggio giusto per salutarvi e ringraziare i nuovi intervenuti: Sergio, Martina, Actarus, Claudio C., Rita Montelepre, Gordiano Lupi, Maria Gemma.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:14 da Massimo Maugeri


@ Rita
Grazie mille per la citazione wikipedia.
Ed ecco Lidia…

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:15 da Massimo Maugeri


Carissima Lidia, aspettiamo i tuoi frammenti… sì.
Grazie in anticipo.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:16 da Massimo Maugeri


eppure Sergio, le ultime cose che scrisse, proprio per le sorelle Dowling erano sceneggiature, soggetti per film. cosa dire?
e pur si gira
effeffe
ps
per non parlare dei booktrailers
ppss
un saluto alla sora Lidia

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:17 da effeffe


Di 1982 di Alajmo ne abbiamo parlato qui…
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/
… proprio con Roberto.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:17 da Massimo Maugeri


@ Effeffe
Sergio è un’antimoraviano convinto. Questa cosa un po’ ci divide. Ma ci unisce il grande amore per Calvino (il grande Calvino de “Gli antenati” e di “Se una notte d’inverno…”)

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:19 da Massimo Maugeri


Purtroppo adesso devo chiudere.
Auguro una buona notte a tutti.
(Cara Lidia, ti leggerò con gioia domani. Grazie per essere qui).

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:21 da Massimo Maugeri


Effeffe,
io dico semplicemente (e senza polemica alcuna) che mi occupo di libri e per questo scrivo qui. Per me e’ centrale il libro – racconto, romanzo o poesia specialmente. Questo e’ un campo specifico. Il mio.
Ciao, caro
Sergio
P.S.
Non sono ”anti-” nessuno, ho i miei gusti e opero delle scelte.
Ciao Massimo, Buonanotte, caro.

Postato lunedì, 26 gennaio 2009 alle 23:42 da Sergio Sozi


ciao Sergio
effeffe

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 00:01 da effeffe


Lidia,
me la posterebbe qui una sua poesia completa? Gliene sarei grato.
Grazie
Buonanotte
Sergio Sozi

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 00:08 da Sergio Sozi


Buongiorno a tutti! Certo Sergio, le posto una serie di frammenti da neon 80, prima faccio seguire questa breve “prosa” che ho inserito a commento finale del mio libro, un post ‘80, in risposta ad alcune domande rintracciate nella generosa mole dei vostri post . A seguire i versi.

Grazie!

Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono e terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite.
Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco
perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere
congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben
chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento.
Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma
solo a quelli di restauro.

Il Neon è un gas, nessuno può dire sia luce. Illumina il centro del
palco. Lì si va in scena. Negli angoli lasciati al buio, sono state
poi ritrovate le tracce dei numerosi delitti e morti di diversa natura
e cultura: ictus, paura, veleno, mafia. I cavi elettrici, volutamente
manomessi, provocarono numerosi incendi nei boschi
fuori città. Non posso dire di non aver beneficiato dell’effetto
allucinatorio dei film hollywoodiani d’azione. Mi tenevano sveglia
fino all’alba.
Tanto chi riusciva a dormire? Ero sempre nel genere fantastico e
si sa che chi è nel fantastico fa più fatica a prender parte, al
mattino, alla manifestazione contro il nucleare.
Non mi sono accorta della scomparsa del genere western.

Compriamo tutto. Noi non vogliamo tutto ma compriamo anche
quello che non vogliamo perché non sappiamo ancora, in quegli
anni, quali effetti produca ingerire cibi in scatola. Le malattie
che una volta facevano vivere poco le mosche, fanno vivere ancora
meno gli uomini, adesso. E le mosche in scatola, ce le compriamo.
La sindrome è pandemica.

1985: Una bambina di una famiglia bene del milanese, viene trovata
stesa a terra nel reparto dolci di un supermercato nella periferia
di Milano. Indigestione da cioccolata fondente.
Suo padre, che voleva cambiare il mondo, se l’è mangiato, e ha
lasciato in eredità alla figlia, zuccheri in eccesso.
Ai bambini che non possono diventare adulti si racconta che fare
la rivoluzione ha provocato malformazioni all’udito, infezioni,
ecchimosi e ha fatto perdere di vista la bellezza dell’abito.
Si dice che un uomo da solo sia capace di fermare un carro armato.

Di apatia, pian piano, si è nutrita la mia generazione. Molti sono
sopravvissuti.
Qualcuno è morto perché è arrivato tardi in ufficio e ha dimenticato
la cravatta.

In questo decennio accadono le cose più pazze in occidente. Si
impazzisce per esempio. Ma da oriente nessuna guarigione/soluzione
realistica. D’altronde la cura la tennero bene nascosta nel decennio precedente. Adesso sappiamo che a quel male, illusorio e indotto, poteva esserci rimedio.
Ma siamo cresciuti troppo tardi e la soluzione è da cercare ora. La soluzione all’apatia e al sortilegio. Dentro questa luce al neon è ancora vivo il buio.

Nessuno riconobbe nell’assassino di John Lennon un “nipotino” di Ronald Reagan. L’omicidio avvenne durante una pausa pranzo del vigilante amico di Lennon.

J. L. non ha vissuto gli anni ottanta.
Perché abbiamo permesso che una pausa così lunga generasse delitti irrisolti e feuilletton?

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 10:42 da Anonimo


scusate l’anonimo sono io, lidia, non ho inserito il nome! reinvio tutto con il nome… sorry!

Buongiorno a tutti! Certo Sergio, le posto una serie di frammenti da neon 80, prima faccio seguire questa breve “prosa” che ho inserito a commento finale del mio libro, un post ‘80, in risposta ad alcune domande rintracciate nella generosa mole dei vostri post . A seguire i versi.

Grazie!

Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono e terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite.
Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco
perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere
congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben
chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento.
Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma
solo a quelli di restauro.

Il Neon è un gas, nessuno può dire sia luce. Illumina il centro del
palco. Lì si va in scena. Negli angoli lasciati al buio, sono state
poi ritrovate le tracce dei numerosi delitti e morti di diversa natura
e cultura: ictus, paura, veleno, mafia. I cavi elettrici, volutamente
manomessi, provocarono numerosi incendi nei boschi
fuori città. Non posso dire di non aver beneficiato dell’effetto
allucinatorio dei film hollywoodiani d’azione. Mi tenevano sveglia
fino all’alba.
Tanto chi riusciva a dormire? Ero sempre nel genere fantastico e
si sa che chi è nel fantastico fa più fatica a prender parte, al
mattino, alla manifestazione contro il nucleare.
Non mi sono accorta della scomparsa del genere western.

Compriamo tutto. Noi non vogliamo tutto ma compriamo anche
quello che non vogliamo perché non sappiamo ancora, in quegli
anni, quali effetti produca ingerire cibi in scatola. Le malattie
che una volta facevano vivere poco le mosche, fanno vivere ancora
meno gli uomini, adesso. E le mosche in scatola, ce le compriamo.
La sindrome è pandemica.

1985: Una bambina di una famiglia bene del milanese, viene trovata
stesa a terra nel reparto dolci di un supermercato nella periferia
di Milano. Indigestione da cioccolata fondente.
Suo padre, che voleva cambiare il mondo, se l’è mangiato, e ha
lasciato in eredità alla figlia, zuccheri in eccesso.
Ai bambini che non possono diventare adulti si racconta che fare
la rivoluzione ha provocato malformazioni all’udito, infezioni,
ecchimosi e ha fatto perdere di vista la bellezza dell’abito.
Si dice che un uomo da solo sia capace di fermare un carro armato.

Di apatia, pian piano, si è nutrita la mia generazione. Molti sono
sopravvissuti.
Qualcuno è morto perché è arrivato tardi in ufficio e ha dimenticato
la cravatta.

In questo decennio accadono le cose più pazze in occidente. Si
impazzisce per esempio. Ma da oriente nessuna guarigione/soluzione
realistica. D’altronde la cura la tennero bene nascosta nel decennio precedente. Adesso sappiamo che a quel male, illusorio e indotto, poteva esserci rimedio.
Ma siamo cresciuti troppo tardi e la soluzione è da cercare ora. La soluzione all’apatia e al sortilegio. Dentro questa luce al neon è ancora vivo il buio.

Nessuno riconobbe nell’assassino di John Lennon un “nipotino” di Ronald Reagan. L’omicidio avvenne durante una pausa pranzo del vigilante amico di Lennon.

J. L. non ha vissuto gli anni ottanta.
Perché abbiamo permesso che una pausa così lunga generasse delitti irrisolti e feuilletton?

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 10:43 da lidia


Ecco, a seguire, alcuni frammenti tratti da “Neon 80″… grazie a tutti per l’attenzione, e grazie massimo

Frammenti da “Neon ‘80”

INTRO

-Resta, fino a dissuaderci da morte, l’anima nostra
da sola, senza nessun paesaggio al cioccolato,
infinitesimale progresso verso la luna,
l’una o l’altra delle anime morte se ne torna in vita.
Resta fino a dissuaderci da morte
l’anima nostra contraria al corpo
per infinitesimale scarto, per un voto lasciato nullo
Resta al testo aderente

-Una società perfetta, coppie a digiuno di massa
fedeli all’acero azzurro delle cliniche new age
moscerini perversi, tanto platino per gioielli su misura,
materia e antimateria e così si procede

-Fatti fummo per essere al neon assuefatti
occhio per occhio, digitale celeste, anno del Dragone
fatti fummo per essere consumati.
Eravamo i cigni del decennio Ottanta e fatti fummo di fumo
per vivere di pillole e gas.
Quando demi moore nasceva
il Neon già arricchiva i potenti della terra e come le
mele stavamo e come i fumetti sottosopra
e le bestie splendevano placide,
nessuno superava il limite di velocità né su
autostrada né in guerra.
Cronenberg ci salvò dalla potatura dell’inconscio

-Anno Ottanta tutt’intero senza forma e ci ritrovammo
a bere coca cola, l’elettronica scosse l’anima
il canto stonò e i metalmeccanici si estinsero come
antilopi

-Società perfetta, di tutti, dei morti soprattutto, dei
morti con nessuno in casa col riciclo delle grandi
banconote, banche rotte oltre il mare
società perfetta restituisce ai suoi, tornati al naturale,
i debiti di un consumo artificiale, strafatto ed immortale

-Sparla dell’AnnoOttanta, riducilo a microsoft quello
che non fu detto fu fatto, il resto si ghiacciò nel
fondo storico, nel dato asciutto della chirurgia
plastica o nel plexiglas

-Anno Ottanta prese vita il buco dell’ozono e non potemmo
più ripararci dalla morte del giallo, vinse la
teorizzazione, e a parte il neon non c’era altra luce
contro il corpo politico, nessun antidoto che ne
diminuisse l’estensione, solo raccolte di fondi fra simili.
Fatti fummo di Neon, di materia infiammabile

Quanto Corpo a noi dovuto ci è stato sottratto?
Quante evasioni magnetiche sul fondo tenero della carne
e con quanto Corpo sfuso tornammo a piedi dalla gita a
sostenere che col porco sistema ci facemmo male, tanto
che l’anima tutta s’inanimò.
A quanto Corpo abbiamo rinunciato per il look di base
con un’anima bella chiusa in una bora nucleare?

1
-Erano tempeste prima che fuochi d’artificio, erano tempeste
quelle che si abbatterono sulle nostre ragioni.
Negli anni del neon mancava ovunque il sole mio,
nascondevamo il falso d’autore dentro i dischi
perché non amavamo da secoli e
si occultavano beni come plastica e raso,
si risparmiava sulla gomma,
luccicavano gli aghi e l’allucinazione
era l’unica sostanza del padre

-Si conservavano i materiali del riciclo corrosi nelle grandi città
con erba e ammoniaca, tenuti dentro confezioni lucide.
Eh sì che per costruire la nuova mente sauna
dovevano pur gelare.
Pronta la generazione dei facenti il nulla,
a piedi e a rotelle si andava nell’anno ottanta punk e ciliegio, le
anime
erano solo ragazze, tanto biondo violava il gusto
e il retro delle mutande era compromesso dalle
stupide cuciture del mercato delle pulci.
Era tutto poco originale, visto da dietro

-
-Fu uno shock
in età celeste avanzata, e non sapendo come fermarci
trovammo riparo anni dopo in un restauro
di legno con nessuna vista sul cielo.
Solo dal vetro e dalla resina ricavammo una consolazione,
poi ci consumammo con il dettaglio di stare dietro alle montagne,
avvento di una nuova strana confidenza,
un sesto termine della conoscenza,
vicina al declino del senso.
Si manifestò al neon una verità strillo d’anatra

-Presa nessuna direzione
l’Anno Ottanta se ne volò, punk e irrisolto
come infanzia di marmo o di alghe
e i nipoti di Stalin
diventarono adulti nelle città d’Europa
in crisalidi noir.
Tuttapunk l’azione politica,
tutto rosso vedevano i puri di spirito.

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 10:56 da lidia


Interessante, ad un primo sguardo complessivo, questo ”flusso di coscienza” in versione vagamente postmoderna, con lemmi di provenienza mista: classici e neologismi; con originali deviazioni di senso. Rivela cultura letteraria solida, questa poesia andante verso il poemetto, questo sforzo di sintesi storico-collettivo-sociale-individualistica e profluvio di associazioni fantasiose e policrome.
-
Rispondo, grato, con una mia cosetta che parla di un episodio autobiografico risalente al 1980 – ed estratta dal volume ”Oggetti volanti” del 2000.
-
QUINDICI ANNI: VOLO SIMULATO
-
O tempora o mores!
Svastiche sui muri
-
Poveri intonaci
a-cerchiati
-
Falciomartellati
con l’insulto
-
Di chi qui ora
chiede indulto.
-
Lottacontinua
sotto braccio
-
(Presagivo a breve
termine
-
Di un fascista
il rinfaccio)
-
Mi diressi un po’
gobbetto
-
Dall’entrata
verso il bagno
-
Credevomi
negletto
-
(Io Diogene
e lui il Magno)
-
Ma invece
non lo ero:
-
Io sempre Diogene
lui montagna
-
Sottoforma
di Compagno
-
Noto’ il nazi
fuor del bagno
-
Del Liceo
Federico Frezzi
-
Tra i due vidi
alati lazzi
-
Con teste di
e tanti cazzi.
-
Botte?
io-Diogene non so
-
Penso proprio di no.

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 14:27 da Sergio Sozi


Cara Lidia,
grazie per i tuoi preziosi frammenti e per i bellissimi versi.
(Ti aspetto anche sugli altri post, se ti va).

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 22:17 da Massimo Maugeri


Carissima Lidia,
complimenti vivissimi per questi frammenti del libro, se sono briciole di un palazzo allora il libro è una costruzione Maya, veramente bello.
Sono intervenuto tardi per un fastidioso raffreddore che mi privava di ragionare, ma ho seguito tutto il dibattito.

Mi è piaciuto anche il “puttanesco” brano di @Forlani.
Sulle voci non concordo, non le voglio sentire le voci di chi scrive.
Per esempio sentire la mia baritonale, legata alla lieve scrittura di un umorista sarebbe sbagliatissimo.
Buona vita a voi,
Lidia Riviello & Francesco Forlani
(effettivamente hai ragione @Forlani, digitare il tuo cognome lascia sulle punte delle dita ancora un po’ di quella melassa degli anni ‘80, ma oggi, anch’io comunista, ne vorrei una decina del buon Arnaldo, che da galantuomo si accollò le colpe di un suo portaborsa, oggi autorevole uomo di stato)

Postato martedì, 27 gennaio 2009 alle 23:29 da Francesco Di Domenico Didò


Gentile Lidia,
è “difficile” la tua poesia ma è così ben tracciato il volto degli anni ‘80:

“-Anno Ottanta prese vita il buco dell’ozono e non potemmo
più ripararci dalla morte del giallo”.
Molti versi ci riportano a quell’epoca ormai così lontana.

Postato mercoledì, 28 gennaio 2009 alle 22:24 da roberta


mitico didò
effeffe (da Valbeneunamessa)
ps
qui all’istituto di cultura l’eccellente ascanio celestini ha allestito una mostra (oggetti trovati) in cui attraverso la creazione di diversi spazi sonori di voci e musica (testimonianze orali sull’esperienza dei campi)

Postato giovedì, 29 gennaio 2009 alle 00:06 da effeffe


@effeffe
Sono d’accordo sull’”affinità” cinema-letteratura: hanno molto a che fare l’uno con l’altra. Ricordo Enrico Ghezzi (o Vieri Razzini, forse) in un FUORI ORARIO diceva, a proposito del film di Truffaut “La femme d’à coté” che aveva molto a che fare con l’AMOUR FOU di Breton e si potrebbero fare molti altri esempi.
Su Moravia non posso dire nulla: non l’ ho mai letto; raramente mi trovo in “disaccordo” con Sergio Sozi, ma tra Calvino e Pavese scelgo sempre Pavese, non c’è dubbio. Di Calvino ho pochi ricordi legati alle scuole medie perché ce lo facevano studiare. Ma con Pavese ho tutto un altro “rapporto”: mi ha cambiato l’esistenza. Ho letto più la sua prosa che la sua poesia ( parlavi di DIALOGHI CON LEUCO’ e non li conosco) ricordo “Il blues delle cicche”, mi pare sia in LAVORARE STANCA, giusto?
Comunque, a parte tutto, se lui rivive nelle pagine di “coloro che scrivono libri”( non ti piace “scrittori”..) è sempre una gran cosa.
Cari saluti
ps: je ne trouve pas le circonflexe..per “à coté”.

Postato giovedì, 29 gennaio 2009 alle 14:27 da Anonimo


Ho dimenticato di firmare:)

Postato giovedì, 29 gennaio 2009 alle 14:28 da roberta


Grazie a tutti per le vostre preziose e acute osservazioni, per quello che mi dite.. caro Sergio mi ha molto incuriosito il tuo scritto verticale e radicale, se ti va mandami altro lidiariviello@yahoo.it
grazie massimo dell’ospitalità, e complimenti per il blog
grazie roberta, se hai sentito qualcosa di quegli anni è già traguardo per me.
grazie francesco, il palazzo maya… che immagine colossale, che ci precede e ci prosegue…. mi hai lasciata senza parole

a EffeEffe, il celestini è celestiale, lo conosco dai tempi del liceo, lui faceva il terzo, io il ginnasio, stessa sezione e lui era già un eccellente!

Postato giovedì, 29 gennaio 2009 alle 14:49 da Lidia


Ancora grazie a te, cara Lidia.

Postato giovedì, 29 gennaio 2009 alle 21:55 da Massimo Maugeri


Mi sembra che la poesia di Lidia rappresenti bene il carattere degli anni 80: le parole rotolano, non come macigni ma come palline, sul palcoscenico inclinato di un teatro; corrono verso gli spettatori e sanno di recitazione, rendendo bene quell’atmosfera. Gli avvenimenti del decennio, nel mio ricordo, furono “distanti” e ne arrivò una eco: guerra delle Falkland (ultimi guizzi della fine di un impero) assassinio di Lennon ecc.: strappi di strascichi e code di storie finite, come le scomparse di Moro o quelle di Montale e Brassens che siglarono la fine di mondi diversi e tramontati. Nella tavolozza dell’epoca (stemperata purtroppo dalle televisioni) mancarono quelli che il buon Sozi definisce “i colori antichi della vita”, senza che si.creasse un’attesa di nuovi. Scomparvero le spigolosità dei settanta, anche dalle sagome delle automobili.

Postato venerdì, 30 gennaio 2009 alle 15:57 da Gianmario


[...] accarezza , imbarazza, stupisce, eccita, destabilizza. Segnalo su Letteratitudine le “recensioni incrociate“, formula interessante con la quale  Massimo Maugeri fa parlare di libri due autori che si [...]

Postato giovedì, 12 febbraio 2009 alle 13:27 da Kataweb.it - Blog - BOOKS AND OTHER SORROWS » Blog Archive » Autoreverse



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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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