venerdì, 23 gennaio 2009
RECENSIONI INCROCIATE n. 6: Francesco Forlani e Lidia Riviello
Nuova, particolarissima, puntata delle “recensioni incrociate”.
Dico particolarissima perché oggetto dell’ “incrocio”, stavolta, sono un’opera di narrativa e una silloge di poesie.
I due autori/recensori invitati sono lo scrittore Francesco Forlani (redattore storico di Nazione Indiana e de La poesia e lo spirito) e la poetessa Lidia Riviello.
I libri oggetto delle recensioni sono “Autoreverse” (di Francesco Forlani) e “Neon 80” (di Lidia Riviello).
Il volume della Riviello beneficia di una nota di Edoardo Sanguineti e offre, per dirla con le stesse parole dell’autrice, “materiali sparsi, volutamente accennati e provvisori. Accennati e provvisori come sono stati gli anni Ottanta, nei quali, io bambina e adolescente, mi iniziavo come potevo e soprattutto mi “cominciavo” a scrivere. Il neon era la non-illuminazione che rendeva le nostre città, uffici, i centri commerciali, gli ingressi dei palazzi dei non luoghi, scenografie ripetitive di uno scenario un tempo spento, ora acceso dalle nuove tecniche di illuminazione. Un piatto e lineare “luogo standard” dentro il quale prendevano vita eccentrica i feticci delle nostre società di consumo. Se ci sono stati dei non luoghi ci sarà stata una luce radicalmente “autonoma e immortale” a isolare tempo e spazio. Con questo “gas nobile, inerte, quasi incolore”, si spegneva il sole”.
I protagonisti del romanzo di Forlani (vi invito ad ascoltare l’intervista che l’autore ha rilasciato alla trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre) si chiamano Angelo e François. Si sono conosciuti alla reception dell’Hotel Roma, l’albergo dove Cesare Pavese si è suicidato. Lì Angelo, immigrato meridionale, fa il portiere di notte e François ha prenotato per la sua ultima notte in Italia la camera “di Pavese”: era qui alla ricerca dell’unica registrazione, forse dispersa, con la voce dello scrittore. I due fanno amicizia e, come in un vecchio nastro, le loro voci si alternano e si incrociano: si raccontano dei rispettivi paesi, delle loro vite, delle occasioni avute e di quelle perse… ma i loro discorsi tornano sempre a lui, a Pavese, alla sua scrittura, ai suoi amori infelici. Come quello per Constance Dowling, l’attrice americana alla quale fu legato e la cui figura è divenuta per François altrettanto ossessionante della voce dello scrittore. E poco per volta la vita di Pavese diventa sempre più presente nella quotidianità dell’albergo, permeando le storie di dipendenti e ospiti, tra amori e matrimoni, eventi apparentemente misteriosi, speranze e tradimenti…” (nota al libro).
Due testi diversi, legati dalla comune esigenza della ricerca.
Vi invito a interagire con gli autori ponendo loro domande. E poi, come sempre, tenterò di organizzare discussioni “collaterali” sui temi trattati dai libri proposti. Così vi chiedo…
Come sono stati, per voi, gli anni ‘80? Come li ricordate? Quali sono stati i pro e i contro? (libro della Riviello)
Ascoltare la voce di uno scrittore, di un poeta… udirne il suono… può consentire di conoscere meglio le sue opere? Oppure c’è il rischio che, in qualche modo, quell’ascolto possa esercitare una funzione “sviante”… (libro di Forlani)
Seguono le recensioni incrociate.
Massimo Maugeri
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“NEON 80″ di Lidia Riviello - Casa editrice Zona, 2008 - euro 10 - pagg. 60
recensione di Francesco Forlani
C’est à partir du jour où l’on peut concevoir un autre état de choses qu’une lumière neuve tombe sur nos peines et sur nos souffrances et que nous décidons qu’elles sont insupportables.
“L’Être et le Néant” (1943), Jean-Paul Sartre
Il neon (o neo) è un elemento chimico della tavola periodica degli elementi, che ha come simbolo Ne e come numero atomico 10. Gas nobile, quasi inerte, incolore. Il neon possiede una distintiva incandescenza rossastra quando è utilizzato in un tubo a scarica o nelle lampade dette, appunto, “al neon”. È presente in tracce nell’aria (definizione wikipedia).
Tra i punti deboli dei movimenti avanguardistici in Italia ne va segnalato uno in particolare: neo. E’ un punto debole perché con un colpo al cerchio e uno alla botte, si finge nuovo partendo dal vecchio. In questo libro prezioso, Neon 80, di Lidia Riviello (casa editrice Zona), come solo un libro di poesia può e sa esserlo, accade invece che i due tempi e dunque i mondi che quei tempi sottintendono, si scontrino tra di loro, e nella fragilità dell’oggetto – cosa di più fragile che non una poesia?- si entra solo a patto di fare attenzione, esercizio di consapevolezza.
Molti ricorderanno come, sul finire degli anni Settanta, le illuminazioni delle case degli italiani si annientarono in nome del risparmio energetico. E di colpo le cose si intubarono, come nelle corsie degli ospedali, nelle aule di scuola, anticipando il secolo a venire della medicalizzazione delle vite e delle relazioni. La pellicola non era più il supporto dell’imagerie collettiva ma un involucro, un muro per quanto trasparente tra le le persone e le cose. La mutevolezza dei tempi, il trasformismo degli anni Ottanta, come in certi apparecchi elettronici dell’epoca, indicava la funzione, mute e spingeva le voci più forti a starsene zitte, mute. La voce di Lidia Riviello non tace. Si algoritma, si espande, che nemmeno ne senti l’odore da subito, ma poi ti impregna e nella geometria dei versi ritrovi la tua voce – la composizione si avvale di fughe e contrappunti prevedendo ad ogni apertura del discorso una chiusa che ti lascia senza voce, senza parole.
“Società perfetta, di tutti, dei morti soprattutto, dei morti con nessuno in casa” recita un verso, e la couleur della poetica è annunciata. E’ dello stesso colore del ghiaccio. Lo vedi.
Si dice di un verso, spesso, di come esso sia toccante. E a volte mi chiedo se sia possibile toccare un verso – i poeti si sa hanno poco tatto, in generale – e come per i gas, sembra che sia difficile. Ecco allora che la parola poetica di Lidia Riviello si inguaina, s’impellicola, e di colpo la vedi, la tocchi, la spingi in ogni angolo della memoria. E’ una parola critica, dissidente, ma che mai diserta il mondo. Nemmeno quando questo sembra senza senso. Quando il mondo non si lascia più decodificare, vedere, esperire, cosa resta?
- Vedo il finale- e non so decifrare nessun segno di dissidenza sui muri- la parola non resta fedele alla parola data
Uno dei dischi più venduti nell’ottanta fu Tubular Bells, di Mike Oldfield. Sicuramente non il migliore del polistrumentista, ma del resto anche gli anni Ottanta non sono stati un decennio memorabile.
Come in un quadro di Magritte, l’oggetto appariva sospeso e allo stesso tempo slegato dalla realtà. Come se il poetico Fluxus – la straordinaria performer Lidia Riviello appartiene piuttosto a questa tradizione che non a quella dei professori della neo-avanguardia – la vena aurea della sperimentazione, sociale e poetica, si fosse recisa.
L’ottanta,
(così li chiama Lidia Riviello, lungo tutta la silloge, ndr)
è un anno singolare
merce confusa al disastro, la tenerezza
sotto quota annuale di corruzione
noi in fuga dagli altari della patria e dai padri
davanti il muro rosa colossale delle madri in attesa
“Neon 80″, di Lidia Riviello è un’opera oltre che preziosa, necessaria. Per capire innanzitutto come e perché la luce avesse smesso di illuminare, e l’esperienza, perfino della felicità, che può essere tale solo se condivisa, isolata dal collettivo e piegata a mero fatto privato.
“non c’è neon che si sia spento senza un perchè ”
Vorrei allora concludere questa mia nota con un appunto e una voce.
L’appunto concerne il suono della parola neon e contaminazione sonora con il francese néant. Etimologicamente, la parola ha la sua origine nel latino volgare, ne gentem, ovvero nessuno. In Francia si trova sulle carte d’identità per indicare la totale assenza di segni particolari. Signes particuliers: néant. Louis Aragon scriveva che bisognava “guardare in faccia il “nulla” (néant) per saperlo sconfiggere (pour savoir en triompher).
Viviamo un’epoca di Re-vival (redivivi) e di Re-minders. (Rammendi). E solo una poetessa poteva narrare lo strappo che c’era stato tra i due decenni, il Settanta e il Novanta. Solo un verso, in ogni senso raccontare la ferita, il taglio – nell’Ottanta i miseri abitanti dell’Italia, a novembre, studiavano i segni lasciati sulle pareti dal terremoto per confidare o meno nella solidità delle proprie abitazioni scosse. E’ un grazie, di nulla, gridato a quei miseri anni.
La voce, è quella di Lidia Riviello, che nella Cronologia finale dell’opera dice:
Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite. Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento. Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma solo a quelli di restauro.
Francesco Forlani
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“AUTOREVERSE” di Francesco Forlani – L’Ancora del Mediterraneo, 2008 - euro 13,50 – pagg. 157
recensione di Lidia Riviello
E’ il 1948, quando con lo swing all’italiana Addormentarmi cosi’, le signorine pallide che indossano gonnelline di pura lana “italica, mugugnano teneri sensi di colpa, diventando rosse come mai erano state le loro madri ( forse meno…?) ai primi contatti “bocca a bocca”, “morendo insieme” al compagno di balera, “labbra sulla labbra”. Chi aveva voce cantava per configurare un paese che ancora non c’era, chi non l’aveva stava a guardare un’Italia fatta di guerra che non riusciva a dormire. E poi c’era chi, di voce, ne aveva avuta in quantità “esistenziale” per parlare e soprattutto per scrivere, ma forse in parte se ne vergognava e due anni dopo se ne sarebbe andato via da quel mondo “senza finire l’anno”. Questi era Cesare Pavese.
E’ il duemilasette, quando Francesco Forlani indossa una vita, quella del sopradetto e sempre discusso, Cesare Pavese, e va alla ricerca della sua viva voce, in un romanzo, “Autoreverse” che sconvolge i canoni della rituale e convenzionale biografia. Spesso le biografie sono gonfie, come se l’autore, identificandosi nel personaggio di cui “tradisce” la storia/vita, si sostituisse a questi, provocando fuoriuscite di altre vite che bloccano il traffico delle parole. Sottolineando contorni che il “bio-grafato” aveva impiegato tutta la vita ad assottigliare, oppure trascurando, con narcisistica interpretazione, l’essenziale esistenziale cosi’ essenziale per quella vita/opera. Forlani non occulta nessuna vita di poeta, sa che tutto è stato scritto ma nulla è stato ancora ascoltato. La voce del poeta è inascoltata, perché dice quello che non sempre scrive, sfugge ai recintori, scusate, recensori, ed è piena di errori. Sgrammaticata, perché vorrebbe solo cantare, tradisce l’immaginario dei lettori/uditori che vorrebbe le voci dei poeti sempre in “stato di grazia” ed invece eccole nella permanente resistenza alla idealizzazione, al plagio. Eccole in serie le voci dei poeti: rauche, sofferenti, sgraziate, piene di tosse, riottose, che dicono no, infantili, stridule, oppure cosi’ mute da lasciarti senza poesia. E piene di una vita di cui la poesia è solo al servizio.
La voce è quel corpo che non cede al tempo, contraria all’immagine convenzionale, allo streotipo in vita e in morte, al “pettegolezzo” che tanto Pavese temeva, perché quelle del pettegolezzo, della mondanità reiterante, sono le voci del campo, del cortile. La sua era una voce fuori campo. Ed è questa che cerca Francois, lo scrittore che viene da Parigi, che Forlani sceglie come suo “alter reggo” giocoso, intuitivo, gentile, ma che non ha remore a effettuare incursioni a sorpresa ovunque vi sia sentore di un Pavese mai sentito prima, di un altro Cesare. Cerca la voce originale, autentica, l’unica registrazione, forse persa, del poeta, un documento, dunque, ma presto si rende conto che per arrivare a trovare la voce di Pavese deve attraversare tutta Torino, città che ti sfugge e ti “stanca”, che se non la tieni ti lascia. Senza ansia di protagonismo ma con una sete struggente segue le tracce che partono dalla sua idea di Pavese, che è piu’ di un’idea, è un desiderio. Mosso da desiderio arriva in un profondo Nord fatto di un profondo Sud all’ Hotel Roma di Torino, dove Pavese si suicido’ nel 1950 e dove Francois vuole passare la sua notte. Nella stanza 313 udrà forse “la voce di dentro” di Cesare? Dentro una sola stanza Moby Dick, La bella estate, La luna e i falo’, il cinema, la “spassosa musica americana”, le donne che nascono da dentro e che prendono forma lasciando sguardi di approdo.
All’Hotel Roma ci lavora un uomo semplice, diretto ed enigmatico allo stesso tempo, l’altro alter reggo di Forlani, Angelo di Casapulla (Caserta) che ha “la voce di fuori”, le chiavi in mano. E’ il portiere di notte dell’albergo, che subito smitizza lo slancio figurativo e l’identificazione fra finzione letteraria e condizione umana di Francois: la stanza non è piu’ la 313, quella in cui il poeta si lascio’, ma la 346. La ricerca, “uaglio’ ” è lunga, la strada afosa, il poeta senza voce. Fra i due s’instaura una istintiva complicità, un dialogo fino al termine della notte, un intreccio di due opposte e cosi’ animate vite. Nonostante le due ricerche si snodino autonome, sul disco dell’epoca nostra e dell’epoca di Pavese, suonano le loro narrazioni in prima persona.
In realtà anche Francois e Angelo cercano la loro voce disseminata nelle caotiche pulsioni dell’Esperienza. Le donne, le avventure del dialogo, la conoscenza dell’altro. Francois segue corsi d’inglese, punta la luce sul volto di una donna, cerca attraverso documenti, amici di Pavese, lettere del poeta stesso, ricostruzioni, registrazioni del premio Strega (che Pavese vinse nel 1950) di rintracciarne il corpo vitale . Tutto questo con desiderio ma anche discrezione, perché Pavese è imprendibile. Tutti parlavano di lui e lui non si è fatto “prendere”.
Angelo ama il corpo delle cose, si disfa delle cose che non lo appassionano, sa di affaracci e crimini e misfatti della sua terra e si ritrova dentro un giallo vero e proprio, e s’innamora pure della bellezza, della straniera, di un’altra voce che non lo nasconda ma lo accolga cosi’ com’è: Angelo Cocchinone, ed è il primo a dire che questo Hotel Roma, noto per la morte del poeta, è un luogo di cui liberarsi e liberare Pavese, ché su questo dramma si è fatto del marketing. Sia Francois che Angelo devono liberarsi e liberare, attraverso il racconto in prima persona, una terza persona: Cesare.
Ma chi aiuterà infine Francois a trovare ( se la trovera’) la voce di Pavese incisa su nastro?La Rai teche? La storia letta dai giornalisti? L’editore che attende lo scoop? Pavese stesso? Francois riporta Pavese dentro casa, fuori dalla stanza del dolore. Lo libera dallo stereotipo dagli inde-fessi critici annoiati del tempo, dalle attrici americane volubili. Come la Dowling, Constance senza sostanza.
“Se mai riuscirò a sentire la voce di Pavese come farò a descriverla?”. Sarà questa domanda che il nostro si porra’ infine al termine della notte di questo romanzo. Difficile Francois, difficile. Perchè quando lo scrittore cerca l’uomo trova ancora, sempre, il poeta.
Lidia Riviello
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Scritto venerdì, 23 gennaio 2009 alle 17:47 nella categoria RECENSIONI INCROCIATE. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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