venerdì, 1 maggio 2009
NASCE BABELIT. Incontro con Birgit Vanderbeke
Sono molto lieto di annunciare la nascita di una nuova specialissima rubrica che sancisce l’internazionalizzazione di Letteratitudine. Si chiama BABELIT. Il titolo è un acronimo che deriva da due parole inglesi: babel e literature.
E in effetti BABELIT è destinata a diventare una vera e propria babele letteraria, dal momento che ospiterà autori stranieri che ci parleranno dei loro libri e dei temi da essi trattati. La particolarità della rubrica è la seguente. I dibattiti che vi proporrò saranno condotti in due lingue: in italiano (naturalmente) e nella lingua d’origine dell’autore/autrice di volta in volta invitato/a. Nel farlo, mi avvarrò del supporto di interpreti. Insomma, come ben capite si tratta di un esperimento…
Il primo incontro di BABELIT è con la scrittrice tedesca Birgit Vanderbeke.
La Vanderbeke è nata nel 1956 a Dehme, allora Repubblica Democratica Tedesca e cresciuta nella Repubblica Federale, in cui la famiglia si trasferì nel 1961. Laureata in giurisprudenza e letterature romanze ha lavorato per alcuni anni in un istituto di ricerche sociali. Nel 1990 ha ricevuto il prestigioso premio Ingeborg Bachmann per la sua opera prima, “La cena della cozze”, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1993. Dopo aver vissuto un anno a Berlino poco dopo la riunificazione, nel 1993 ha scelto di trasferirsi a St. Quentin-la-Poterie, in Linguadoca, dove vive tutt’ora. Nel 1997 le è stato conferito il Kranichsteiner Literaturpreis per la sua produzione letteraria e nel 2002 il premio Hans Fallada. In Italia sono stati pubblicati da Marsilio “Alberta riceve un amante” (1999) e “Vedo una cosa che tu non vedi” (2001), da “Le vespe Abbastanza bene” (2000).
In questo post discuteremo con la Vanderbeke del suo romanzo edito da Del Vecchio: Sweet Sixteen. Mi affiancheranno (per un supproto linguistico) Paola Del Zoppo, traduttrice italiana del libro, e Michele Piroli.
Sweet Sixteen è un romanzo breve dal tono satirico e coinvolgente il cui punto focale coincide con l’arrivo di una nuova tendenza fra i giovani: in molte parti della Germania, vari teenager scompaiono in occasione del loro sedicesimo compleanno.
Così leggiamo dalla scheda del libro: “Quando vengono riportati i primi casi, la polizia non se ne preoccupa più di tanto. La fuga degli adolescenti ribelli, del resto, è un luogo comune e in genere i rientri si verificano entro una settimana. Ma dopo la scomparsa del rampollo Justus Hanssen, figlio della famosa presentatrice televisiva Conny Hanssen, e con l’accentuarsi del fenomeno, la polizia e l’opinione pubblica e le famiglie cambiano atteggiamento. Si eliminano i computer dalle stanze dei ragazzi, si approntano sistemi elettronici di rilevazione che consentono di sorvegliare i ragazzi, Infine un invalido autore di canzoni per adolescenti viene indicato come causa delle fughe. Naturalmente con il tempo si svelano le reali cause del fenomeno, di cui la principale è il pessimo rapporto dei ragazzi con i genitori e si scopre l’esistenza di un “movimento” di sedicenni che si ribella alle repressioni messe in atto dai genitori”.
I temi affrontati dal libro sono molteplici:
- le forzature dei media
- la questione della privacy e della sicurezza pubblica
- l’influenza dei media sui giovani e la reazione di questi ultimi alla mercificazione della vita
- il conflitto generazionale in questo primo decennio del nuovo millennio .
Per favorire il dibattito, pongo alcune domande… a voi e a Birgit.
Le nuove generazioni sono più o meno in crisi di quelle dei decenni precedenti?
Il conflitto generazionale è più aspro oggi rispetto al passato?
Le madri e i padri del nuovo millennio hanno maggiore o minore difficoltà a comprendere i sedicenni rispetto ai genitori di venti, trenta, quarant’anni fa?
Quali sono i pro e i contro della crescente ingerenza dei media nei drammi personali?
Rispetto alle domande precedenti… che differenza c’è tra l’Italia e la Germania?
Di seguito potrete leggere la postfazione firmata da Paola Del Zoppo, che – come accennato – è anche la traduttrice del romanzo.
Massimo Maugeri
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Dalla Postfazione di Paola Del Zoppo
Sweet Sixteen, opera che sfugge volontariamente alle classificazioni di genere, è romanzo breve, racconto lungo, thriller, romanzo a sfondo sociale, parodia, satira. Il giorno esatto del loro sedicesimo compleanno alcuni ragazzi spariscono dalle proprie case apparentemente senza alcun segnale. Inizialmente non si riconoscono i collegamenti tra i casi. I ragazzi abitano in luoghi diversi della Germania, in città diverse, provengono dalla città come dalla provincia, da famiglie “tradizionali”, così come da famiglie patchwork o famiglie separate. Sono figli di madri single a carico dell’assistenza sociale come rampolli di madri in vista con eccellenti situazioni economiche. L’unica cosa che li accomuna è la sparizione il giorno del loro sedicesimo compleanno e l’apparente volontà di far perdere le proprie tracce. Quello che invece accomuna i genitori è l’assoluta incapacità di entrare in contatto con il mondo dei figli. Nello svolgersi delle indagini entrano a far parte del racconto tematiche di grande attualità: le esagerazioni dei media che fanno spettacolo dei drammi personali, celando le verità scomode, la questione della privacy, i veri scopi delle manovre di sicurezza pubblica e l’incapacità della classe politica di comprendere i reali bisogni della società.
Birgit Vanderbeke distribuisce i ruoli con estrema intelligenza. Sceglie un narratore di sesso maschile, di cui non conosciamo il nome, ma sappiamo che è sulla soglia dei cinquanta anni. Lavora in un’agenzia che si occupa di ricerche sulle mode e le tendenze giovanili. Con lui collaborano Roman e Saskia, che con i loro quaranta e trenta anni, coprono due diversi ambiti generazionali. L’oggetto principale delle loro preoccupazioni e indagini è Josha, il fratello più giovane di Saskia, che sta per compiere sedici anni, e che diventa il pretesto per approfondire le motivazioni del fenomeno delle sparizioni. Del narratore si sa poco, ha una sorella che vive una vita molto più inserita nelle convenzioni della sua, e da ragazzo non si è mai lasciato travolgere da nessuna tendenza o ideologia. Arrivava sempre tardi, dice. Ma si può concludere che abbia sempre voluto agire secondo scelte proprie, il che lo ha portato a non “saltare il fosso”.
Anche in Sweet sixteen il linguaggio è uno strumento che focalizza e dona profondità ai punti nodali del romanzo. Il testo è ricco di parole straniere: americane, giapponesi, termini perlopiù intraducibili, che accomunano l’estremo oriente all’estremo occidente e definiscono una sottocultura più che diffusa, quella del mondo dei fumetti e della realtà virtuale. Espressioni tipicamente tedesche e riferimenti culturali popolari, proverbi e “Pippi Calzelunghe”, che si accostano a espressioni italiane entrate nell’uso comune anche in Germania e a riferimenti alle teorie anticonsumistiche degli intellettuali degli anni Sessanta e Settanta.
La comprensione in profondità del libro è subordinata a una conoscenza critica, non passiva, della realtà in cui si muovono i protagonisti della storia. Per chi riesce a cogliere il fondo brillante dell’ironia sottesa a tutto il racconto, la critica sociale è lampante. Pochi lettori sanno cosa vuol dire Otaku, o chi lo è, cosa è un geek o cosa voglia dire white trash. Ma c’è realmente bisogno di saperlo? Noi avevamo Marlon Brando, loro hanno Brad Pitt e Edward Norton, fa presente il narratore nella scena chiave del racconto. La frase si offre a diversi livelli di analisi. La questione vera non è se Edward Norton e Brad Pitt, con la loro ribellione sfrenata e patologica contro il consumismo, siano al livello di un Marlon Brando. Marlon Brando ed Ed Norton non occupano posti diversi su una scala di valori. Occupano luoghi temporali diversi, ma ambiti ideali affini. Sono modelli di ribellione, che diventano riferimenti esistenziali; quasi a colmare un gap culturale tra generazioni che, seppur lontane tra loro, sono accomunate dall’assenza-oppressione di figure genitoriali solide. Fight Club, ricorda Josha, non basta vederlo una volta, il messaggio non è così diretto.
In questo senso è illuminante l’idea che a conoscere il film siano il narratore cinquantenne e il giovanissimo Josha, mentre le generazioni “di mezzo” sembrano aver “perso il colpo”. Generazioni di cui fa parte anche il giornalista che, in un articolo che sfiora il nonsense attribuisce alla tensione alla libertà instillata da genitori a figli (tramite la possibilità di rifiutarsi di assolvere a degli obblighi) la crisi della società contemporanea. Ma gli ambiti del senso e del nonsenso, l’arte, la scienza e il pensiero si rinnovano anche e soprattutto grazie alla dirompente carica innovativa dei giovani. I continui riferimenti al passato, alle esperienze degli anni Sessanta, a Pasolini, suggeriscono che forse la giusta interpretazione delle fughe sia da rintracciare in un mancato sviluppo sociale, nel sostanziale fallimento della generazione dei genitori, dovuto principalmente alla paura della scomparsa di piccoli rassicuranti mondi di ieri; ma questo sospetto viene del tutto rifiutato dagli elementi sociali messi in discussione. È una sorta di processo di rimozione, che sopprime nelle menti la considerazione logica che il futuro si possa annullare se chi ha trovato una sua dimensione di sopravvivenza sceglie di appiattirsi sul presente, come i “depressi” e i “regressi”. Questi ultimi, nostalgici di un mondo perduto senza che neanche esistesse, o di un benessere intravisto e mai raggiunto, preferiscono alleggerirsi la coscienza accusando di plagio un autore di canzonette per bambini che inneggiano alla ribellione alla scuola e ai genitori, che ha l’unico difetto di leggere dei libri ed esaltare agli ideali della Rivoluzione Francese, libertà, fraternità uguaglianza, talmente trascurati da essere bollati come superati e circoscritti ad un ambito storico limitato.
Nell’immagine finale, l’unica che ci venga presentata esattamente identica nel corso dell’intera narrazione, il simbolo dell’azione e dell’unità si scioglie nel tono satirico della retorica della ripetizione. Il narratore, in spiaggia, guarda lontano, e lontano vede una massa di ragazzi con le tavole da surf che si preparano ad affrontare l’onda. Non sappiamo quanti di loro verranno travolti dal “pensiero unico” e quanti riusciranno a cavalcare l’onda e giungere indenni, e un po’ più forti sulla terraferma, per poi disperdersi, “soli, ma non da soli”. E il cerchio sembra chiudersi, ma, ancora una volta, Birgit Vanderbeke non dà ricette, e quindi preferisce non annodare tutti i fili della vicenda. Questo pare sia un compito lasciato ai lettori.
Tags: BABELIT, incontri con autori non italiani, Birgit Vanderbeke, crisi generazionale, Del Vecchio, genitori e figli, media, Paola Del Zoppo, Sweet Sixteen
Scritto venerdì, 1 maggio 2009 alle 21:27 nella categoria BABELIT, incontri con autori non italiani, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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