domenica, 2 agosto 2009
CELESTE AIDA di Marinella Fiume
Apro una nuova pagina della rubrica Letteratura è diritto, letteratura è vita che ho affidato a Simona Lo Iacono, presentando un romanzo forte, duro, per certi versi terribile – ma direi anche necessario – scritto da Marinella Fiume (nella foto in basso, all’epoca in cui era sindaco del Comune di Fiumefreddo di Sicilia). Si intitola Celeste Aida. Una storia siciliana” (Rubbettino, pagg. 136, euro 8). Una storia ambientata nell’anno 1933, XI dell’era fascista. Questi i fatti: “In un villaggio siciliano, un ventenne commerciante di vini uccide la cognatina di cinque anni seppellendola viva. La relazione adulterina con l’ancor giovane suocera e la paura che la bambina possa rivelarla al padre emigrato in America, induce i due amanti a liberarsi della scomoda testimone. Al processo, la difesa della donna ha buon gioco nell’affermare la non punibilità per il reato di adulterio, mancando la querela del coniuge offeso. Così, si condanna a morte il giovane “debosciato”, assolvendo la madre per insufficienza di prove anche dell’imputazione di procurato aborto, che il Codice Rocco punisce severamente, in quanto sovvertitore della famiglia e perciò, come l’adulterio, reato contro lo Stato.
Così come è riportato sulla scheda,”il romanzo ricostruisce la torbida vicenda familiare da cui scaturì l’esecuzione capitale attraverso i canti dei cantastorie, fonti orali e giornalistiche, atti giudiziari, che consentono di mettere a fuoco il contesto del dramma: il “disordine” della famiglia contadina siciliana e la politica familiare del fascismo. Squisitamente letterari sono, invece, l’impianto narrativo e il linguaggio: la storia di una bambina, segnata dalla diversità già nel nome e travolta dall’assurda banalità del male, comunica una profonda impressione anche per l’efficacia e la profondità con cui sono tratteggiati i personaggi che balzano vivi dalle pagine, uscendo dal coro che commenta ai margini.”
Il tema che vorrei affrontare, in parallelo con la discussione sul romanzo di Marinella, è quello della violenza ai minori e della imputazione della colpa… mettendo in relazione la colpa individuale con quella collettiva.
Nell’ambito della discussione interverranno “ospiti speciali” che avrò modo di presentare adeguatamente.
Ecco alcuni spunti e domande volti a favorire il dibattito…
1- La condanna di Giovanni appaga un’intera società, sebbene anche l’amante sia colpevole del delitto di procurato aborto (confessato ma da cui andrà assolta per carenza di prove). Che rapporto c’è tra colpa individuale e colpa collettiva?
2- Victor Frankl (1905-1997), medico e psichiatra, filosofo e psicoterapeuta, saggista e conferenziere di fama mondiale, fondatore della logoterapia, scampato ai lager nazisti diceva: “Signori e signore, vi prego in quest’ora di ricordare con me mio padre, che morì nel lager di Theresienstadt; mio fratello, che morì nel lager di Auschwitz; mia madre, che finì in una camera a gas di Auschwitz; e la mia prima moglie, che perse la vita nel lager di Bergen-Belsen. E tuttavia devo chiedervi di non aspettarvi da me una sola parola di odio. Chi mai dovrei odiare? Io conosco soltanto le vittime, non i carnefici, quantomeno non li conosco personalmente – e io rifiuto di dichiarare qualcuno collettivamente colpevole. Una colpa collettiva infatti non esiste, e io questo non lo dico oggi, l’ho detto fin dal primo giorno in cui fui liberato dal mio ultimo campo di concentramento” (Cit. in: Paola Giovetti, Victor Frankl. Vita e opere del fondatore della logoterapia, Edizioni Mediterranee, Roma, 2001, p. 54). Siete d’accordo? Esiste o non esiste una colpa collettiva?
3- La voce di Aida viene messa a tacere dalla violenza e dalla paura. Ma viene riportata in vita dalla poesia del cantastorie Orazio Strano e di Marinella Fiume. Che rapporto c’è tra violenza e poesia?
C’è una correlazione sanante e necessaria oppure, come si domandava il poeta tedesco Friedric Holderin: “A che (servono) i poeti in tempo di povertà?”
Di seguito, la bella recensione di Simona Lo Iacono, che mi darà una mano ad animare e coordinare la discussione.
Massimo Maugeri
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“Celeste Aida”. Diritto e letteratura in una storia di Marinella Fiume
di Simona Lo Iacono (nella foto)
“Sedetevi che ve lo racconto, signore e signori. Della bambina sepolta sotto l’aglio. Sedetevi qui,i picciotti avanti, gli adulti infondo…E’ arrivato il cantastorie Orazio Strano per farvi sentire il lamento. Come signora? Quale lamento?
Sedetevi comoda che ve lo racconto…”
Orazio Strano imbraccia la chitarra, sistema i cartelloni, si assesta sulla sedia a rotelle, perché non ha gambe, ma ha voce e cuore per raccontare, stasera. Il berretto rosso gli ombreggia sulla testa.
Un cantastorie non fa caso ai dissesti di un selciato, pensa, e neanche alle apparenti immobilità del corpo. Un cantastorie si sistema dove può, tra le crepe di una piazza, o in una fiera di paese, la domenica – a Messa finita- col benedicite che rintrona alle spalle. O la sera, quando l’incendio del sole assicura una tregua, una pausa per tessere un sogno.
Un cantastorie, poi, non è che questo – signore e signori – uno scampolo di sogno.
E inizia a raccontare.
Ed è proprio da un “cunto” di Orazio Strano, che Marinella Fiume traccia la storia – svoltasi nel 1933 in un villaggio della Sicilia – di “Celeste Aida” (Rubbettino editore, € 8,00), della bambina – Aida, appunto – di cinque anni “sepolta sotto l’aglio” dal cognato per celare la relazione adulterina con la madre.
Una storia tagliente, quella dei due amanti, Giuseppina e Giovannino, o forse una storia di semplicissima umanità, di una donna che attende – invano – un rientro del marito dalla “Merica”. Che zittisce la solitudine col guizzo di un amplesso. Con l’illusione di non rimanerne ingabbiata. Di non subire la condanna dei propri desideri.
Non è che questo, poi, un reato. La condanna dei propri desideri.
E in quella sospensione della memoria, in quell’arrembaggio come di sogno, in cui la regola non è che un affioro momentaneo, o una stramatura della realtà, il reato si consuma. Un gesto – abituale ormai – tra quelli che hanno già rotto gli argini. Che hanno sfilacciato la barriera che ci separa dai miraggi.
Marinella Fiume ripesca i carteggi processuali, rivive il dibattimento, l’esame dei testi, la confessione finale. Mostra perizia da giurista quando ripercorre la vicenda in Corte d’Assise citando gli articoli del Codice Rocco, o quando arringa estrosamente in difesa della donna, assolta dal reato di adulterio – mancando la querela del coniuge offeso e migrato oltre mare – , e da quello di procurato aborto per mancanza di prove.
Ma soprattutto scandaglia da un punto di vista letterario quel crescere di azioni e intenzioni noto, in diritto penale, come “reato continuato”, e che non è che un’escalation di cadute sempre più gravi, unite da un nesso di consequenzialità, il cui approdo è il reato finale (in questo caso l’omicidio).
Giovanni – l’assassino – prima seduce la suocera, poi la coadiuva nell’aborto, infine mette a tacere la cognata, temibilissima testimone dei fatti. La sua volontà si affievolisce gradualmente, si immette in una dimensione alterata e surreale che è il campo del “non dominio della norma”.
In questa progressiva e allucinata trasmigrazione, in questa sospensione – lucida e al tempo stesso trasognata – della volontà, il confine tra immaginato e voluto si perde, snebbia. Infine si traduce in reato. Nell’assalto di paure e desideri.
E’ una magistrale lezione giuridica e umana sotto forma di romanzo. Una trasposizione – tecnicamente ineccepibile – in campo letterario delle più alte riflessioni penaliste sull’elemento psicologico del dolo.
Secondo l’art. 43 del nostro codice penale, infatti: “Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.
Tale definizione postula dunque due elementi strutturali fondamentali: la rappresentazione e la volontà ed è, anche, un compromesso tra le due teorie principali che si contendevano il campo al tempo dell’emanazione del codice penale,la teoria della rappresentazione e la teoria della volontà, appunto.
Marinella li inscena letterariamente entrambi.
Giovannino si rappresenta la conseguenza delle proprie azioni perchè organizza, riflette, sceglie momento, luogo, modalità.
E poi vuole, perché lo sfaldamento progressivo della coscienza ha allentato ogni capacità inibitoria, ogni percezione del limite.
Indagine psicologica finissima, dunque, e giuridica, e umana.
E su tutto, i clamori e le strombazzate del fascio. Le urla che si levano contagiose. Gli strepiti che tuonano “Eia eia alalà” quando la Corte d’Assise ,” In nome di sua maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione Re d’Italia, l’anno 1933, il giorno 29 del mese di Maggio in Catania, letti gli artt 36, 61 n. 2,4, 17, 575, 576 n 1 , 577 n3, cp, 479, 483, 488, 489 cpp, dichiara Scandurra Giovanni di Salvatore colpevole dei reati ascritti e lo condanna alla pena di morte, alle spese in favore della parte civile , lire 2804 e ai danni da liquidarsi in separata sede”.
Un furoreggiare che appaga, che al pugile Carnera, casualmente giunto sui luoghi, fa mugghiare tra i denti fame di vendetta, che sembra ripristinare l’ordine perduto con la forza del duce: una condanna in vita e – se possibile – oltre la morte.
Orazio Strano ha finito di cantare. Ha letto sugli occhi sbigottiti delle madri e su quelli iniettati di sangue dei padri. Ha posato la chitarra, si è levato il cappello rosso, ha ordinato i cartelloni che narrano il cunto per tornare da dove è venuto, a Riposto.
Non sa se Giovanni è all’inferno o se il pentimento finale gli ha salvato l’anima. Non cerca ragioni ai suoi cunti, né si domanda il perché dell’assalto dei desideri, dell’innocenza trafitta, dei mancati ritorni. E’ solo un cantastorie, lui, e un cantastorie non fa caso ai dissesti di un selciato, alle apparenti immobilità del corpo.
Un cantastorie si sistema dove può, tra le crepe di una piazza, o in una fiera di paese, la domenica – a Messa finita- col benedicite che rintrona alle spalle. O la sera, quando l’incendio del sole assicura una tregua, una pausa per tessere un sogno.
Dopo tutto, il processo e le storie hanno questo in comune.
Sono un mistero.
Tags: celeste aida, marinella fiume, rubettino, simona lo iacono
Scritto domenica, 2 agosto 2009 alle 16:18 nella categoria LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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