lunedì, 24 ottobre 2016
STORIE (IN) SERIE n. 11 – BoJack Horseman
Storie (in) Serie # 11
(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)
Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla serie televisiva animata per adulti BoJack Horseman
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BoJack Horseman: la narrazione stratificata
Le serie TV sono da tempo in una fase in cui, se vogliono rappresentare realisticamente il mondo, non possono ignorare la familiarità del pubblico con le serie TV precedenti. Quella che è stata considerata una caratteristica tipicamente postmoderna, cioè la narrazione di secondo livello che presuppone una competenza narrativa diffusa (Umberto Eco scriveva che era impossibile dire «Ti amo disperatamente» senza pensare a Liala), è una diretta conseguenza della massiccia diffusione delle storie dovuta all’evoluzione tecnologica, che consente una moltiplicazione di letture e visioni e ascolti. Una parte degli effetti della globalizzazione è proprio la condivisione di un patrimonio di conoscenze (tutti conoscono Homer Simpson).
Alcuni prodotti finzionali scelgono di mettere tra parentesi la competenza del pubblico intradiegetico. Per esempio, nel mondo postapocalittico di The Walking Dead, nessuno pronuncia la parola «zombie» perché si finge che quel filone narrativo non sia mai esistito, e che Rick Grimes & co. affrontino una minaccia inedita.
Un esempio più recente è la serie TV della HBO Westworld, in cui la possibilità che i robot sviluppino una coscienza è un filone tematico trattato come se fosse nuovo, come se la distopia a cui assistiamo fosse ambientata in un mondo in cui nessuno ha mai letto le storie di Philip K. Dick e di Isaac Asimov – un mondo in cui Dick e Asimov non sono esistiti, probabilmente, altrimenti i creatori dei robot sarebbero leggermente più attenti ai primi segnali di pensiero autonomo nelle loro creature.
Altre narrazioni contemporanee, invece, articolano uno dei propri livelli interpretativi proprio facendo leva sulla competenza narrativa degli spettatori, affidando una parte della comprensione all’enciclopedia di conoscenze condivise dal pubblico. Nel caso di BoJack Horseman, serie originale di Netflix creata da Raphael Bob-Waksberg, il livello intertestuale è esplicitato dalla premessa narrativa: il protagonista era la star di una sitcom andata in onda negli anni Ottanta, e le sue vicende riguardano la ridefinizione identitaria a partire o a prescindere da quella fama diffusa quanto lontana. In pratica, è come se gli spettatori potessero osservare la vita di Jerry Seinfeld oggi nella sua quotidianità. Ma l’addensamento narrativo inevitabile in operazioni di questo tipo non può esaurirsi in una mise en abyme, e così anche parte di quello che accade nel presente narrativo di BoJack Horseman allude agli stilemi della sitcom in un citazionismo intelligente, che costringe lo spettatore a rimanere vigile. Come spiegare altrimenti la linea narrativa che coinvolge il personaggio di Vincent Adultman? Si tratta evidentemente di due-tre ragazzini uno sulle spalle dell’altro, con una scopa per braccio e un impermeabile che inequivocabilmente completa il mascheramento, eppure la scaltra (gatta) Princess Carolyn non sembra notare alcunché di strano nel suo accompagnatore, anche quando si verifica la più classica della commedia degli equivoci (con ‘Vincent’ che recita contemporaneamente la parte dell’adulto e del bambino). Il topos del doppio ruolo è rappresentato anche nella puntata in cui Todd, in carcere, accetta di entrare in due bande rivali e si finge integrato nei due gruppi nella stessa serata, con l’ovvia conclusione di confondere i travestimenti e farsi scoprire. (continua…)
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