venerdì, 17 febbraio 2017
STORIE (IN) SERIE n. 13 – Una serie di sfortunati eventi
Storie (in) Serie # 13
(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)
Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla nuova serie TV prodotta da Netflix: Una serie di sfortunati eventi
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Visor in fabula, o dell’occhiolino di Barney Stinson
La promozione intelligente di Una serie di sfortunati eventi
La campagna di Netflix per Una serie di sfortunati eventi (USA, gennaio 2017) è perfetta al punto da superare narrativamente il prodotto che promuove: basta scorrere la pagina Facebook italiana di Netflix per ritrovare video e immagini che mettono in atto giochi intertestuali in grado di coinvolgere e gratificare un target abituato a fruire narrazioni seriali e a mischiare riferimenti culturali pop per produrre senso (ironicamente).
In uno dei video promozionali, Neil Patrick Harris, che interpreta il villain della serie, giocando sul trasformismo del suo personaggio (il conte Olaf, che si traveste per tormentare i tre giovani protagonisti), garantisce agli spettatori di parlare a nome proprio:
«Hi, it’s me, Neil Patrick Harris, not Count Olaf, I swear, not Count Olaf, actually me, encouraging you to watch A series of unfortunate events, and I wish you well».
In quanto sé stesso, sottolinea, incoraggia gli spettatori a guardare la nuova serie TV prodotta da Netflix, ma alla fine del suo messaggio strizza l’occhio esattamente come il suo personaggio precedente più famoso, Barney Stinson, lo sciupafemmine di How I Met Your Mother (anche qui era trasformista per mettere in atto le molteplici strategie di conquista contenute nel Playbook, il suo manuale per la seduzione truffaldina). La strizzata d’occhio di Barney Stinson (una rottura della quarta parete, il contraltare ironico dello sguardo in camera di Kevin Spacey/Frank Underwood in House of Cards) rafforza nello spettatore la tendenza a compiere quella che in Lector in fabula Umberto Eco chiama «passeggiata inferenziale», cioè una deviazione da ciò che legge/guarda per attingere a informazioni contenute altrove, ma attive nel testo a livello potenziale. Chi abbia visto How I Met Your Mother inevitabilmente pensa a Barney Stinson quando vede Neil Patrick Harris, e nel video promozionale l’attore rende questa inferenza parte del messaggio, gratificando lo spettatore e moltiplicando la confusione su chi parli veramente.
Netflix Italia ha anche diffuso un video in cui Giovanni Mucciaccia, presentatore di Art Attack!, declina i suoi consigli di bricolage in chiave gotica, con riferimenti a Una serie di sfortunati eventi, e ha pubblicato sulla pagina Facebook titoli di giornale relativi a eventi che avrebbero impedito la visione della serie TV; ha diffuso una galleria dei travestimenti del Conte Olaf in cui il suo viso viene riconosciuto dal sistema di tag di Facebook: l’ultima fotografia (come direbbe lui: «wait for it…») è quella di Barney Stinson.
Facendo leva sulla caratteristica diegetica del travestimento dell’antagonista, la strategia promozionale ha allargato il tema del camuffamento e del riconoscimento mancato/suggerito anche al livello paratestuale della promozione, per cui il corpo dell’attore diventa la manifestazione dell’identità recitata, che diventa inscindibile da quella reale. A lieve rinforzo del richiamo intertestuale a Barney Stinson, il personaggio della madre di Una serie di sfortunati eventi è interpretato da una delle protagoniste femminili di How I Met Your Mother, Cobie Smulders (il suo personaggio era quello di Robin Scherbascky).
La serializzazione audiovisiva dei romanzi di Lemony Snicket (al secolo Daniel Handler) è una rimediazione (il passaggio dal medium cartaceo a quello televisivo) che mette in scena i propri artifici: il Conte Olaf ironizza sull’inutilità del cinema (quando puoi avere tanto buon intrattenimento direttamente a casa tua, fruibile dal divano, dice ammiccando) e, nell’ultima puntata, facendo un bilancio delle disavventure dei tre perseguitati «orfani Baudelaire», fa confusione sulla loro durata (giorni? Un anno? «Una stagione?»), sovrapponendo questo livello di ironia metatestuale a quello relativo ai libri, che già confondevano i piani attraverso l’uso dello pseudonimo dell’autore (Lemony Snicket), la presenza costante di biblioteche come fonte di informazioni, la scelta di nomi di ispirazione letteraria (Baudelaire, Poe, Orwell).
Una serie di sfortunati eventi non è piacevole quanto la sua campagna promozionale: tanti riferimenti intertestuali attivano un orizzonte d’attesa che viene frustrato dalla ripetizione di uno schema sempre identico per ogni coppia di puntate e dall’ossessivo monito del narratore intradiegetico che suggerisce di interrompere la visione di una storia tanto cupa e priva di sollievo. Eppure viene mostrata una linea narrativa che sembra convergere verso quella principale, promettendo la possibilità del lieto fine, ma la storia degli orfani Baudelaire fino alla fine della prima stagione mantiene la promessa più volte ribadita: è priva di speranza. Ma non è la mancanza di happy ending a lasciare insoddisfatti, bensì l’infelice costruzione della storia, il cui intreccio è ripetitivo e il cui andamento è lento in maniera esasperante. Già la sigla ironicamente allontana gli spettatori («Look away, look away»), ma se si sta al gioco accettando di non distogliere lo sguardo è perché si rimane in attesa delle strizzate d’occhio di Barney, che non arrivano. Una serie di sfortunati eventi è costruita per i giovanissimi e non interviene alcun livello narrativo a soddisfare il pubblico smaliziato che ne apprezza i teaser. Peccato.
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Tags: Carlotta Susca, Netflix, Serie Tv, Storie (In) Serie, Una serie di sfortunati eventi
Scritto venerdì, 17 febbraio 2017 alle 15:55 nella categoria SERIE TV (e dintorni). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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