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venerdì, 15 dicembre 2017

STORIE (IN) SERIE n. 18 – La fantascienza nelle serie TV

Copertina Addicted FRONTEStorie (in) Serie # 18

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Anche questa nuova puntata dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicata alla omonima manifestazione “Storie (in) Serie” (in corso di svolgimento al Teatro Kismet di Bari). Come di consueto, l’articolo è curato da Carlotta Susca, di recente in libreria con il volume “Addicted. Serie tv e dipendenze” (LiberAria). In questa puntata ci occupiamo di “fantascienza nelle serie TV”

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La fantascienza nelle serie TV

di Carlotta Susca

Il terzo appuntamento di Storie (in) Serie è stato dedicato alla fantascienza seriale: con Michele Casella (co-direttore di questa edizione) è stato ospite Fabio Deotto (redattore della Lettura – Corriere della Sera e autore del recente Un attimo prima per Einaudi). La manifestazione, che quest’anno si è tenuta al Teatro Kismet di Bari, è strutturata con il commento degli ospiti e la proiezione di spezzoni dalle serie TV selezionate, in modo da rendere collettivo e pubblico un rituale spesso solitario e comunque casalingo.

Si è partiti con Westworld (USA 2016): uno scenario distopico in cui il parco divertimenti omonimo è la perfetta ricostruzione di uno scenario da vecchio West con la possibilità, per gli ospiti, di perpetrare qualsiasi tipo di violenza ai danni dei robot estremamente realistici che popolano il parco. Tema di fondo della serie (e classico della fantascienza) il limite che separa gli esseri umani da entità create e non generate: quando i robot smettono di essere macchine e diventano senzienti? La serie, ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy per la HBO e trasmessa in Italia su Sky Atlantic, ha fra i protagonisti Evan Rachel Wood nei panni di Dolores, il più longevo robot del parco e una delle prime a sperimentare glitch nel suo sistema operativo, e Anthony Hopkins nelle vesti del responsabile delle linee narrative, letteralmente il deus ex machina delle storie del parco.

Come accade per altre serie TV recenti, anche Westworld ha una appendice on line che contribuisce a rendere porosi i confini fra realtà e finzione: (continua…)

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venerdì, 1 dicembre 2017

STORIE (IN) SERIE n. 17 – Le eroine nelle serie TV

Copertina Addicted FRONTEStorie (in) Serie # 17

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla omonima manifestazione “Storie (in) Serie” (in corso di svolgimento al Teatro Kismet di Bari). Come di consueto, l’articolo è curato da Carlotta Susca, da pochi giorni in libreria con il volume “Addicted. Serie tv e dipendenze” (LiberAria)

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Le eroine nelle serie TV

di Carlotta Susca

Le protagoniste delle serie TV non hanno nulla da invidiare alla loro controparte maschile: in un momento storico in cui la parità di genere, benché lontana dall’essere effettiva in molti settori, è comunque un obiettivo scontato, le narrazioni audiovisive non solo ospitano donne protagoniste, ma sono anche in grado di conferire complessità ai personaggi femminili secondari.
Per il secondo appuntamento di Storie (in) Serie al Teatro Kismet di Bari, il focus è stato sulle eroine, ospite Ilaria Feole (redattrice di Film TV e autrice del saggio Wes Anderson: genitori, figli e altri animali, edito da Bietti). Come sempre la rassegna, multimediale sin dalla sua ideazione, alterna il commento alla proiezione di spezzoni tratti dalle serie TV: per introdurre l’appuntamento dedicato alle eroine, l’incipit è stato tratto da Game of Thrones, in particolare dall’episodio 4 della terza stagione in cui Daenerys Targaryen, madre dei draghi (e molto altro: i suoi epiteti sono lunghi ed elaborati), trae in inganno il suo interlocutore che la disprezza e ottiene un esercito in cambio della promessa – non mantenuta – di cedere il suo drago più grande («Un drago non è uno schiavo», si giustifica). Al comando «Dracarys», il figlio obbedisce alla madre incenerendo il suo avversario: seguono una battaglia e l’inquadratura dal basso di una vittoriosa stratega.

Dal kolossal fantasy tratto dall’universo di George R.R. Martin al parto della mente di David Lynch, di cui avevamo già parlato a proposito del potere delle immagini: Twin Peaks, tornato nel 2017 a ventisei anni dalla conclusione della seconda stagione, consegna allo spettatore il regalo di vedere finalmente Diane. Nelle prime due stagioni «Diane» era solo il nome a cui l’agente Cooper si rivolgeva registrando i suoi appunti riguardanti l’indagine sulla morte di Laura Palmer, la presenza di islandesi rumorosi al Great Northen Hotel, la bontà di caffè e torta di ciliegie. Con il revival del 2017, e annunciata dal commento dell’agente Rosenfeld (Miguel Ferrer, scomparso quest’anno) «So dove beve», Diane fa la sua straordinaria apparizione nel sesto episodio: inquadrata di spalle, Laura Dern, una delle muse di Lynch, si gira verso la telecamera. Il suo personaggio si rivela sboccato e coinvolto in una delle tante trame sulla moltiplicazione identitaria che costellano Twin Peaks, ma quell’apparizione, l’incarnazione di Diane, finalmente, condensa il personaggio in una figura reale, addirittura familiare e con un passato: quello dell’attrice in Inland Empire o in Wild At Heart (i cui riferimenti al Mago di Oz tornano nelle scarpe rosse di Diane). (continua…)

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mercoledì, 15 novembre 2017

STORIE (IN) SERIE n. 16 – IL RACCONTO DEL POTERE

Copertina Addicted FRONTEStorie (in) Serie # 16

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla omonima manifestazione “Storie (in) Serie” (in corso di svolgimento al Teatro Kismet di Bari). Come di consueto, l’articolo è curato da Carlotta Susca, da pochi giorni in libreria con il volume “Addicted. Serie tv e dipendenze” (LiberAria)

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Il racconto del potere. Presidenti, papi, investigatori, sognatori

di Carlotta Susca

Storie (in) Serie, oltre al nome di questa rubrica, è anche una manifestazione multimediale sulle serie TV giunta a Bari alla seconda edizione; quest’anno è ospitata dal Teatro Kismet, da sempre aperto alle sperimentazioni e alle contaminazioni di linguaggi.
Attraverso la proiezione di spezzoni di puntate e il commento degli ospiti, gli appuntamenti di Storie (in) Serie delineano dei percorsi tematici all’interno della smisurata offerta di narrazioni seriali; il primo appuntamento dell’edizione del 2017 ha visto come ospite (accanto a Michele Casella e alla sottoscritta, direttori artistici di questa edizione) Luca Pacilio, direttore della rivista di cinema on line Gli spietati e autore di Il videoclip nell’era di YouTube (Bietti 2014), un libro imprescindibile per chi si occupi di videoclip in Italia.

Esplorando la rappresentazione seriale del concetto di potere, è stato naturale partire dal potere politico come mostrato dall’interno della Casa Bianca in House of Cards, una serie TV di estrema attualità per la recente notizia della sua cancellazione dovuta al sex gate che ha coinvolto Kevin Spacey, protagonista nei panni di Frank Underwood, che nel corso delle prime stagioni attua ogni strategia per diventare presidente degli Stati Uniti e poi continua a lottare con mezzi perlopiù illeciti per mantenere quel potere.
«È un grande spreco di talento. Preferisce i soldi al potere. In questa città è un errore che commettono in molti. I soldi sono come ville di lusso che iniziano a cadere a pezzi dopo pochi anni; il potere è la solida costruzione in pietra che dura per secoli. Non riesco a rispettare chi non vede questa differenza» dice Frank Underwood nella seconda puntata (il “Capitolo 2″) di House of Cards, mettendo in chiaro quale sia la posta in gioco per lui. Già la sigla della serie (che ha anche una versione britannica ma che nasce dal romanzo omonimo di Michael Dobbs, ex capo di gabinetto di Margaret Thatcher) rappresenta perfettamente la solidità del potere che resiste allo scorrere del tempo: lo fa mostrando inquadrature di monumenti statunitensi in time lapse, in cui il brulichio della vita quotidiana e l’alternarsi di giorno e notte mostrano il tempo che scorre mentre i simboli del potere non ne sono intaccati. Se il rapporto di House of Cards con la realtà statunitense è filtrato da una narrazione ucronica (Frank Underwood risultava candidato alle presidenziali del 2016, ed esiste anche un sito della sua campagna elettorale), più penetrante è la satira messa in atto da South Park, che ha reso Mr Garrison un Presidente dalla faccia abbronzata e la capigliatura bionda: qui viene mostrato mentre riceve istruzioni militari e commenta con «Now I can do whatever the f*** I want, right?».

Una diversa rappresentazione del potere politico è quella messa in atto da Paolo Sorrentino in The Young Pope: (continua…)

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sabato, 29 aprile 2017

STORIE (IN) SERIE n. 14 – 13 Reasons Why

Storie (in) Serie # 14

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a 13 Reasons Why, una serie Netflix

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13 Reasons Why: Ascolta

di Carlotta Susca

All’inizio di 13 Reasons Why, Clay Jensen riceve una confezione di audiocassette numerate, una mappa e un foglio di istruzioni. Il suo stupore nel verificare il contenuto della scatola fa capire subito che l’ambientazione della serie TV di Netflix (2017) è contemporanea e che la scelta del supporto tecnologico è volutamente retrò: lo era già per i lettori del libro omonimo di Jay Asher (pubblicato nel 2007), lo è ancor di più per il pubblico dell’adattamento televisivo.

Nel registrare i tredici lati delle audiocassette e nel preparare il contenuto della scatola prima di togliersi la vita, Hannah Backer ha voluto far sì che i suoi destinatari, un gruppo selezionato di amici e conoscenti, fossero costretti a un rito: ascolto individuale, solitario; percorso nei luoghi indicati (quasi un pellegrinaggio); trasferimento del pacco al successivo destinatario. La difficile riproducibilità delle cassette, la loro consistenza e fragilità assegnano al supporto un valore aurale: sono le stesse cassette che passano di mano in mano, non copie dello stesso contenuto. Con la costrizione al trasporto della scatola, alla materialità degli oggetti (gli stessi per tutti), Hannah impone un rallentamento e una dilazione temporale, dà valore al contenitore a cui affida il racconto dei motivi che l’hanno condotta al suicidio. (continua…)

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venerdì, 17 febbraio 2017

STORIE (IN) SERIE n. 13 – Una serie di sfortunati eventi

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 13

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla nuova serie TV prodotta da Netflix: Una serie di sfortunati eventi

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Visor in fabula, o dell’occhiolino di Barney Stinson
La promozione intelligente di Una serie di sfortunati eventi

di Carlotta Susca

La campagna di Netflix per Una serie di sfortunati eventi (USA, gennaio 2017) è perfetta al punto da superare narrativamente il prodotto che promuove: basta scorrere la pagina Facebook italiana di Netflix per ritrovare video e immagini che mettono in atto giochi intertestuali in grado di coinvolgere e gratificare un target abituato a fruire narrazioni seriali e a mischiare riferimenti culturali pop per produrre senso (ironicamente).

In uno dei video promozionali, Neil Patrick Harris, che interpreta il villain della serie, giocando sul trasformismo del suo personaggio (il conte Olaf, che si traveste per tormentare i tre giovani protagonisti), garantisce agli spettatori di parlare a nome proprio:

«Hi, it’s me, Neil Patrick Harris, not Count Olaf, I swear, not Count Olaf, actually me, encouraging you to watch A series of unfortunate events, and I wish you well».

In quanto sé stesso, sottolinea, incoraggia gli spettatori a guardare la nuova serie TV prodotta da Netflix, ma alla fine del suo messaggio strizza l’occhio esattamente come il suo personaggio precedente più famoso, Barney Stinson, lo sciupafemmine di How I Met Your Mother (anche qui era trasformista per mettere in atto le molteplici strategie di conquista contenute nel Playbook, il suo manuale per la seduzione truffaldina). La strizzata d’occhio di Barney Stinson (una rottura della quarta parete, il contraltare ironico dello sguardo in camera di Kevin Spacey/Frank Underwood in House of Cards) rafforza nello spettatore la tendenza a compiere quella che in Lector in fabula Umberto Eco chiama «passeggiata inferenziale», cioè una deviazione da ciò che legge/guarda per attingere a informazioni contenute altrove, ma attive nel testo a livello potenziale. Chi abbia visto How I Met Your Mother inevitabilmente pensa a Barney Stinson quando vede Neil Patrick Harris, e nel video promozionale l’attore rende questa inferenza parte del messaggio, gratificando lo spettatore e moltiplicando la confusione su chi parli veramente. (continua…)

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mercoledì, 21 dicembre 2016

STORIE (IN) SERIE n. 12 – L’imprevedibilità nelle serie TV

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 12

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al tema della… imprevedibilità nelle serie TV (con riferimenti a Westworld, Stranger Things, The O.A.)

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L’imprevedibilità nelle serie TV
Westworld, Stranger Things, The O.A.

di Carlotta Susca

Le regole della narrazione non bastano a costruire storie coinvolgenti: in un contesto in cui lo storytelling è il paradigma di ogni comunicazione che tenti di essere efficace, concetti come la sospensione dell’incredulità, la struttura in tre atti e i trucchi della sceneggiatura sono noti e interiorizzati al punto da non essere più efficaci.
Nell’impossibilità di collocare in compartimenti stagni i romanzi e le serie TV (così come le mission aziendali, la pubblicità, i video su YouTube), occorre riflettere su come una comunicazione narrativamente costruita si collochi nel bagaglio di storie che danno forma alla percezione individuale del mondo. La familiarità del pubblico con le strutture delle storie cresce in maniera esponenziale e i narratori non possono ignorare l’allenamento costantemente esercitato dal loro pubblico potenziale attraverso la somma di letture, visioni, ascolti.
Come riuscirebbero i narratori a stupire e avvincere il pubblico se si limitassero a seguire pedissequamente regole codificate da Aristotele in poi?
Dalle serie TV provengono alcune soluzioni interessanti per spiazzare gli spettatori e invogliarli a proseguire la visione mettendo in pratica la cooperazione interpretativa di cui parla Umberto Eco in Lector in fabula, impegnandoli nello sforzo di comprendere. L’espressione inglese “to make sense” è cristallina nel descrivere il processo di comprensione di un messaggio (con l’ovvio corollario che un senso deve essere sotteso, ché da comunicazioni insensate siamo infestati).

La teoria dell’informazione di Shannon indica come lo svolgimento di una comunicazione possa essere misurato in termini di prevedibilità: il contenuto informativo è tanto maggiore quanto meno prevedibile, e questo è applicabile anche alle storie. Una comunicazione narrativa dovrebbe essere costruita in modo da accogliere il fruitore (lettore, spettatore o ascoltatore) nel «mondo scritto» (cfr. le Lezioni americane di Calvino) ma anche da evitare di fornirgli immediatamente le coordinate per una comprensione totale: a differenza di un messaggio informativo, la narrazione dovrebbe avvincere e imbrigliare in un tentativo di costruzione di senso che proceda per indizi, improvvise illuminazioni e una tensione costante. (continua…)

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lunedì, 12 settembre 2016

STORIE (IN) SERIE n. 10 – Netflix

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 10

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al “caso Netflix”

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Con Netflix le serie tv possono somigliare un po’ di più ai romanzi. Parola di E.M. Forster

di Carlotta Susca

Nelle lezioni tenute al Trinity College di Cambridge nel 1927 (poi pubblicate con il titolo Aspects of the Novel), Edgar Morgan Forster suggerisce un confronto tra il romanzo e il dramma: in «Pattern and Rhytm», lo scrittore sostiene che una struttura narrativa troppo rigida, per quanto sia in grado di conferire Bellezza, nel romanzo lo fa in maniera tirannica, a scapito della mimesi – e quindi dell’immedesimazione dei lettori. Nell’opera drammatica, invece, suggerisce Forster, la rigidità della struttura (una trama in cui tutto torni, costruita come un meccanismo perfetto) è giustificata, perché «la Bellezza può essere una imperatrice sul palco» (p. 145).

Cosa ha a che fare questo con le serie tv?

Se seguiamo il ragionamento di Forster scopriamo anche che una narrazione televisiva, così come una rappresentazione teatrale, consente agli sceneggiatori e allo showrunner di costruire un meccanismo narrativo in cui tutto torni, in cui i singoli elementi trovino una propria collocazione e nulla sia superfluo: gli spettatori saranno più propensi ad accettare la perfezione compositiva perché la storia è messa in scena, proposta per immagini e non per parole. Dalla lettura di un libro ci si aspetta qualcosa che ecceda la scrittura, che sporchi la letteratura di vita: se il romanzo deve essere mimetico, non può essere basato sulla perfezione strutturale, perché la vita non lo è.

È anche vero che applicare le idee di Forster sulla narrazione drammaturgica alle serie televisive non è così scontato, se l’autore accomuna il pubblico del cinema all’uomo delle caverne nell’incapacità di seguire una trama e nella preferenza di una semplice storia che risponda a una serie di ‘E poi?’ (p. 87). Ma ci troviamo nel 1927, il cinema non ha sviluppato appieno le sue potenzialità, e comunque l’autore di Passaggio in India è abbastanza lungimirante da concludere il saggio con l’idea che la letteratura debba fare i conti con le narrazioni audiovisive («will it be killed by the cinema?», p. 151). (continua…)

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venerdì, 1 luglio 2016

STORIE (IN) SERIE n. 9 – Vinyl: chiediamo il bis

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 9

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a Vinyl

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File:Vinyl logo picture.jpg

di Carlotta Susca

La seconda stagione di Vinyl era stata annunciata precocemente dopo la programmazione negli USA della prima puntata, il 14 febbraio scorso, nonostante i dati di visione fossero inferiori alle aspettative: solo 764.000 spettatori. A distanza di due mesi, la HBO aveva annunciato il cambio di showrunner; al posto di Terence Winter (The Sopranos, Boardwalk Empire, The Wolf of Wall Street, 4 Emmy) avrebbe coordinato i lavori sulla seconda stagione Scott Z. Burns (The Bourne Ultimatum, Side Effects).

È invece di qualche giorno fa la notizia della cancellazione della serie televisiva, un piccolo capolavoro ideato da Winter, Rich Cohen, Mike Jagger e Martin Scorsese: «Ovviamente, non si è trattato di una decisione facile. Rispettiamo enormemente il team di creativi e il cast per il loro duro lavoro e la passione per questo progetto».

Pur con la consapevolezza della mancanza di un seguito, la visione di Vinyl è fortemente consigliata: per le inquadrature bellissime (il pilot era diretto da Scorsese), gli anni Settanta vividi, colorati. Per l’argomento: la caduta e ripresa dell’immaginaria etichetta discografica American Century, che lasciamo nel momento in cui, con la sotto-label Alibi, sta per inaugurare e cavalcare l’esplosione del punk, grazie all’autenticità nichilista dei Nasty Bits e del loro frontman britannico Kip Stevens, interpretato dal figlio d’arte James Jagger.

Per i modi in cui il periodo storico si riverbera nelle trame secondarie, fra cui quella di Devon, la moglie del protagonista interpretata da Olivia Wilde (Dr. House), con un passato nella factory di Andy Warhol e la rinuncia alla vita bohémien per dedicarsi a una tranquillità familiare che si traduce nella rinuncia alle proprie ambizioni e al proprio talento, un personaggio femminile ipnotico e rappresentativo del confine fra autodeterminazione e vincoli sociali, che le impongono un ruolo erroneamente reputato una scelta consapevole.

Per la musica che spazia dal rock di un imbolsito Elvis Presley al blues nero dei club fumosi, comprendendo i New York Dolls, Otis Redding, David Bowie, Alice Cooper, i Velvet Underground e un ampio spettro delle sonorità degli anni Settanta.

Per i percorsi lavorativi e personali di Clark e Jamie: ambizioso ma rigido il primo, interpretato da Jack Quaid (Hunger Games), con uno sviluppo narrativo che lo porta a riconquistare con il sudore e la creatività uno status lavorativo dignitoso – ma anche per lui il percorso, come sempre, è più interessante dell’arrivo –; libertina e ribelle la seconda, interpretata da Juno Temple (al debutto televisivo), rappresentante delle groupie al servizio della band per qualsiasi necessità, che brucia la propria credibilità di talent scout quando ottiene come effetto collaterale della sua indipendenza il rischio dell’overdose dell’artista che ha contribuito a lanciare. (continua…)

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sabato, 28 maggio 2016

STORIE (IN) SERIE n. 8 – Ritorno a Twin Peaks

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 8

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

L’ottavo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a Twin PeaksSegnaliamo che domenica 29 maggio 2016, nel corso del BGeek di Bari si terrà alle 13 (in zona Winterfell) un panel dedicato a Twin Peaks

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Twin peaks.png

di Carlotta Susca

Se manca poco al momento in cui non aver visto Lost sarà una infamia omologa al non aver letto la Recherche, la mancata visione di Twin Peaks potrebbe equivalere a un buco su Edgar Allan Poe o sul gotico inglese.

Narrazione che ha precorso l’autorialità televisiva, la serie di David Lynch e Mark Frost è stata un momento fondativo verso il romanzo seriale, oltre che un esperimento di colonizzazione dell’immaginario di un pubblico sempre più vasto.

La prima puntata di Twin Peaks, andata in onda negli Stati Uniti in fascia serale l’8 aprile 1990, ha superato gli indici di ascolto dei precedenti quattro anni di programmazione su ABC, dimostrando, con le parole di Alan Wurtzel, vicepresidente senior del broadcast all’epoca, che «se c’è una lezione da imparare da questa stagione, è che tutti gli show devono avere la capacità di distinguersi».

Nell’anno in cui Dale Cooper e Laura Palmer colonizzarono le menti di milioni di telespettatori, David Lynch aveva già diretto il cupo Eraserhead, un sogno kafkiano dai personaggi iconici (la donna del termosifone, dalle guance soradimensionate, il feto alieno e Henry Spencer, un giovanissimo Jack Nance che avrebbe ritrovato Laura Palmer «wrapped in plastic»), lo struggente The Elephant Man, Dune e Blue Velvet. Protagonista di questi ultimi Kyle McLachlan, il futuro agente speciale Dale Cooper, ossia il personaggio con cui gli spettatori sarebbero entrati in una Twin Peaks sconvolta dall’assassinio della reginetta della scuola. (continua…)

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venerdì, 8 aprile 2016

STORIE (IN) SERIE n. 7 – Il gioco si fa semplice: House of Cards

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 7

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il settimo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla quarta stagione di “House of Cards (con Kevin Spacey nel ruolo di Frank Underwood e Robin Wright nel ruolo di Claire Underwood).

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di Carlotta Susca

C’è un nuovo gioco che vediamo nella quarta stagione di House of Cards, un gioco che continua la serie metaforica delle strategie di Frank Underwood (di cui si è già parlato qui). L’antieroe al potere passa dai videogiochi sparatutto al modellismo strategico, fino ad approdare, nella terza stagione, a Monument Valley, una app basata sulle geometrie di Escher: le sue strategie si fanno via via più raffinate, la scalata al vertice degli USA richiede la capacità di immaginare percorsi apparentemente impossibili, di raggiungere punti che sembrano inaccessibili. Ma poi la necessità di mantenere il potere, di proteggere la posizione conquistata e difendere la fortezza rendendola impenetrabile alla democrazia riporta la strategia a un livello metaforico più semplice, rappresentato dalla app a cui gioca il candidato alla presidenza diretto avversario di Frank Underwood: William “Will” Conway. Il governatore di New York mostra a Frank Agar.io, un gioco che consiste nell’inglobare i pallini più piccoli e nell’evitare di farsi inglobare dai più grandi: non importa quanto imponente sia il proprio diametro, potrebbe sempre comparire un nemico di rango superiore – come sempre, nella vita e nei videogiochi.

È inevitabile che l’avanzamento di una serie televisiva porti la narrazione su livelli differenti e costringa gli sceneggiatori ad allargare l’universo narrativo: per Frank Underwood, già leader della nazione più potente della terra (della sua versione finzionale e distopica), si è optato per la comparsa di un avversario di pari diametro. Non solo: Agar.io consente anche la divisione del proprio avatar circolare in unità più piccole e più agili; è quello che accade con l’equa distribuzione del potere tra Frank e la first lady Claire, candidata alla vicepresidenza. Il protagonista si raddoppia e la narrazione si apre a possibilità che contemplino l’analisi di una diarchia, mentre un nuovo nemico compare a rilanciare la sfida su un livello basico: chi ingloberà chi? (continua…)

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lunedì, 12 ottobre 2015

STORIE (IN) SERIE n. 5 – Fear The Walking Dead

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #5

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il quinto appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al prequel di “The Walking Dead”: “Fear The Walking Dead”

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Astinenza da zombie? Fear The Walking Dead e l’inizio dell’apocalisse

a cura di Carlotta Susca

Era molto difficile che il prequel di The Walking Dead potesse aggiungere qualcosa a quanto già ampiamente sviscerato nella serie basata sui fumetti di Robert Kirkman: la proposta di uno spin off che anticipasse gli eventi postapocalittici in cui si trovano coinvolti Rick Grimes e «his people» è stata sicuramente frutto di una strategia per affiliare alla serie chi avesse perso le prime cinque stagioni e, spaventato dall’ardua impresa di una maratona di 67 puntate angoscianti, avesse bisogno di essere catapultato fra gli zombie fino a non poterne fare a meno.

Eppure, sebbene di ripetizione si tratti, sebbene i dilemmi morali e lo spaesamento dei personaggi siano gli stessi nelle due serie, collocare gli eventi dello spin off all’inizio della fine del mondo consente di vedere l’invasione dei walkers con occhi ancora stupiti e riconsiderare i diversi tempi e motivazioni necessari e sufficienti al cambiamento per i vari personaggi. Chi si assume per primo l’onere della violenza? In che modo si stabiliscono le dinamiche di gruppo? (continua…)

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martedì, 1 settembre 2015

STORIE (IN) SERIE n. 4 – True Detective (seconda stagione)

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #4

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il quarto appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla seconda stagione di “True Detective

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True Detective: da Carcosa a Vinci.
Il groviglio investigativo della seconda stagione

Storie (in) Serie #4


a cura di Carlotta Susca

Era un’impresa difficile reggere il confronto con la prima stagione di True Detective: la coppia composta da Rust Cohle (uno strepitoso Mattew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) è diventata oggetto di parodia come qualsiasi contenuto abbastanza popolare da essere inglobato e risputato in numerose varianti; i paesaggi desolati e bruciati della Lousiana erano un marchio visivo riconoscibilissimo, peculiare; il piano sequenza di più di 6 minuti aveva confermato l’alto livello registico; la sigla valeva da sola la visione della stagione, sia per la parte audio (Far From Any Road, The Handsome Family) che – e, forse, soprattutto? – per la parte visiva, una sovrapposizione di immagini che creavano corrispondenze fra i protagonisti e il paesaggio, a indicare l’importanza dei luoghi, a suggerire che un’indagine, per dei veri detective, non possa prescindere dal tessuto sociale nel quale è calata.

Eppure la prima, osannata, stagione, peccava dal punto di vista narrativo per una accelerazione fastidiosa nella conclusione, che, chiudendosi sulle vicissitudini dei due protagonisti – mirando a raccontare le loro storie più che l’indagine – risultava superficiale e sbrigativa nella definizione del tessuto sociale corrotto solo intravisto nel corso del peregrinare investigativo di Rust e Marty.

È forse di qui che ha origine il netto cambiamento avvenuto nella seconda stagione, da poco conclusasi: dalla necessità di delineare con più particolari il groviglio di concause (direbbe Gadda) legato a un delitto e dall’ovvio confronto con la stagione precedente, che imponeva di evitare una duplicazione di vicende e relazioni. Ecco dunque che la coppia diventa un quartetto di protagonisti, e le dinamiche fra loro si fanno meno nette. Ray Velcoro (un Colin Farrell il cui sguardo buono annulla ogni dubbio sulla reale natura del suo personaggio), Ani Bezzerides (Rachel McAdams), Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) e un sorprendente Vince Vaughn nei panni di Frank Semyon sono solo i veicoli attraverso cui entrare nel ventre corrotto di Vinci, la città californiana scenario delle vicende.

Dove, quindi, nella Louisiana accecata da un sole senza scampo il paesaggio dominava incontrastato e la rete dietro ai delitti era a maglie larghe, adattata alla bassa densità abitativa dei luoghi, la California brulica letteralmente di vita: le frequentissime inquadrature dall’altro, soprattutto notturne, abbondano nella seconda stagione di True Detective, e la storia che viene seguita è una zoomata all’interno di club, residenze private e ville teatro di scambi sessuali e ricatti. Se nella prima stagione si raccontava la storia dei detective e si intravedeva solamente la sovrastruttura criminale i cui omicidi erano solo un effetto collaterale, nella seconda stagione domina incontrastato proprio quel sostrato di relazioni intricate, e i singoli personaggi sono parte di vicende estremamente ramificate.

Era inevitabile che fosse penalizzata la capacità di identificazione del pubblico con le singole storie: ciascuna avrebbe potuto costituire – in tempi non troppo lontani, in cui le narrazioni seriali erano dilatate e sospese, e ben puntellate da cliffhanger al termine di puntate diluite –  un racconto a sé, ne conterrebbe tutti gli elementi. Sarebbero stati possibili focus monografici su ciascuno dei personaggi principali perché ci sarebbe stato materiale narrativo a sufficienza, tanto che il risultato dell’averlo concentrato in una stagione di otto episodi crea a tratti confusione e spaesamento (ne sono una prova i numerosi commenti negativi, alimentati anche dall’odiosa abitudine corrente di ‘recensire’ le singole puntate – come se si pubblicassero commenti ai singoli capitoli di un libro prima di avere una visione d’insieme).

La storia di Ray Velcoro, il rapporto conflittuale con l’ex moglie, l’incertezza sulla paternità, il rapporto intenso con il figlio e la relazione di confronto con il genitore, con la tentazione del male e l’intuizione del bene sarebbe potuta essere centrale in un racconto poliziesco, così come le vicende di Ani Bezzerides, il cui rapporto con il padre rappresenta la continua dialettica fra scelte di vita ed educative intergenerazionali e la loro impossibile trasmissione in eredità, dato che ogni decisione deve essere maturata autonomamente e rende inevitabile l’uccisione dei padri e dei loro modelli di vita. (continua…)

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mercoledì, 29 luglio 2015

STORIE (IN) SERIE n. 3 – Wayward Pines

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #3

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

* * *

Una vacanza deludente a Wayward Pines.
La serie prodotta da Shyamalan non regge il confronto con Twin Peaks

a cura di Carlotta Susca

Per fare un esempio: come è possibile la costruzione di una statua in un mondo postapocalittico in cui l’umanità è ridotta a qualche migliaio di persone e le risorse contingentate?
Il problema principale di Wayward Pines è l’inverosimiglianza derivante dalla sciatteria della sceneggiatura, da numerose leggerezze nella costruzione della storia, da un acceleramento nel finale che è sintomo di una distribuzione delle informazioni narrative sbilanciata.

La serie tv prodotta per la Fox da M. Night Shyamalan si annunciava come una nuova Twin Peaks, il che aveva generato allo stesso tempo aspettative e predisposizione alla delusione. Come sarebbe stato possibile ricreare la cittadina di David Lynch e riproporre la complessità dell’agente speciale Dale Cooper (un Kyle MacLachlan che attendiamo con ansia nella terza stagione a venticinque anni di distanza)?
I punti di contatto fra le serie sono nell’unità di luogo (con piccole escursioni al di fuori): le vicende si svolgono quasi esclusivamente a Twin Peaks, nello Stato di Washington, e a Wayward Pines, in Idaho (i due Stati sono adiacenti). Ma le affinità si esauriscono qui. Se David Lynch ha costruito una storia che funziona a più livelli, e che può essere interpretata sia in senso letterale, come rappresentazione di un male concreto, che in senso metaforico (la violenza domestica e i demoni interiori), i segreti nei boschi di Wayward Pines sono frutto di una rappresentazione distopica.
Quella che in Lynch era l’universale riflessione sul Male, sulla sua pervasività e sulla sua presenza tangibile sotto la superficie linda di una cittadina modello, nella serie prodotta da Shyamalan perde ogni elemento metaforico e trova tutte le spiegazioni nel genere fantascientifico.

(continua…)

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lunedì, 22 giugno 2015

STORIE (IN) SERIE n. 2 – La serie perpetua – Community e la consapevolezza di essere personaggi

Storie (In) SerieStorie (in) Serie #2

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

La serie perpetua – Community e la consapevolezza di essere personaggi

a cura di Carlotta Susca

Cosa succede a un personaggio quando è consapevole di essere tale? Come si struttura una serie televisiva i cui protagonisti non siano gioiosamente inconsapevoli dell’esistenza di tutte le altre serie simili a quella di cui fanno parte?
In molti degli universi seriali di cui siamo fruitori, i protagonisti portano avanti il proprio ruolo ignorando i loro omologhi (il bello, la svampita, la secchiona…), ma se nella vita vera ci capita di sottolineare le similitudini con situazioni viste al cinema o lette nei romanzi, può capitare che anche i personaggi siano a conoscenza delle citazioni presenti nelle loro vicende, e che, consapevoli di essere parte di uno show, siano anche portati a renderlo interessante, a preoccuparsi della mancanza di trama di qualche puntata.

È ciò che accade nella meravigliosa Community, ideata da Dan Harmon e composta (per il momento) da sei stagioni dalle vicende travagliate: prima della quarta Harmon è stato licenziato dalla NBC, per tornare come showrunner della quinta e poi cercare una nuova piattaforma per la sesta, che è andata in onda su Yahoo Screen, on demand (nell’ultima puntata Harmon fa in modo che siano gli stessi personaggi a prendere le distanze da quella quarta stagione apocrifa).


I personaggi, quindi – un settetto scombinato, male assortito eppure affiatatissimo – sanno di essere parte di uno spettacolo? A dire il vero solamente Abed, il cinefilo onnivoro con probabile diagnosi da Asperger (un must delle comedy, a quanto pare, se si pensa a The Big Bang Theory e a Sheldon), che non solo riconduce ogni situazione a qualcosa di già visto, ma che favorisce il riprodursi di schemi narrativi collaudati, e che conia il mantra adatto alla prosecuzione di Community: «six seasons and a movie» (al punto che la sesta stagione si conclude con un invito alla battaglia, #andamovie: fan, unitevi e reclamate il seguito!).

Harmon non si limita a citare classici della rappresentazione dell’adolescenza (Breakfast Club), capolavori immortali (Il Padrino, Quei bravi ragazzi) e personaggi che conosce chiunque (Gollum): impasta la sua materia narrativa con topoi da cassetta (lo scambio di corpi di Tutto accadde un venerdì) e la plasma in forme sempre diverse. L’avvocato non laureato Jeff, l’attivista svampita Britta, l’ex promessa sportiva Troy, il tardone Pierce, la madre Shirley, la dolce Annie – e, ovviamente, Abed, il deus ex machina –  sono trasposti in personaggi di plastilina, player di un videogioco alla Super Mario, marionette tipo Muppet, cartoni animati in una puntata di G.I. Joe. (continua…)

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sabato, 23 maggio 2015

STORIE (IN) SERIE n. 1 – Nessun potere è legittimo – Le ascese politiche in “House of Cards” e “Game of Thrones”

Storie (In) SerieStorie (in) Serie #1

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Nessun potere è legittimo – Le ascese politiche in House of Cards e Game of Thrones

a cura di Carlotta Susca

C’è chi sostiene che Game of Thrones sia più realistico di House of Cards nel mostrare i meccanismi della presa del potere (e del suo mantenimento): Frank Underwood rischierebbe di sembrare bidimensionale nella sua cattiveria senza cedimenti. Lo abbiamo visto piangere, è vero, abbiamo assistito a un momento di debolezza, alla fine della seconda stagione, quando, come sempre gli accade, si infila in quello che ha tutta l’apparenza di un vicolo cieco da cui neanche lui, un supereroe con il potere di manipolare gli altri, sembra in grado di trovare una scappatoia. Magari un’uscita laterale predisposta da tempo, costruita senza che nessuno se ne accorgesse, un cunicolo stretto e tortuoso ma che conducesse al livello successivo, come nei videogiochi.

Nella terza stagione vediamo Frank – le cui iniziali, F. U., sembrano l’ennesima allocuzione allo spettatore e al mondo, l’ennesima beffa – alle prese con una app che rappresenta perfettamente il modo di agire di questo antieroe della politica: Monument Valley. Si tratta di un gioco nei cui livelli il personaggio (una principessa senza memoria, Ida) si muove solo se in grado di creare delle strade dove non sembra ce ne siano, dove solo applicando le costruzioni prospettiche di Escher è possibile spostarsi da un punto all’altro, avanzare e raggiungere l’obiettivo. Questa capacità immaginativa in grado di piegare la realtà al proprio volere è perfettamente in linea con Underwood (un politico da sottobosco, nomen omen), un uomo la cui logica è impeccabile e implacabile, soggetta a regole proprie.

Ma la carriera politica richiede una raccolta di consensi. Se il percorso escheriano porta Frank nel punto più alto, non basta a farvelo rimanere. Alla fine della prima stagione, nel bel mezzo del giuramento da vicepresidente degli Stati Uniti, la sua sicumera è tale che, guardando in camera, rimarca l’ironia insita nell’essere arrivato a quel punto senza essere stato votato («la democrazia è così sopravvalutata») (fa effetto che nella rappresentazione delle alte cariche statunitensi venga espressa in maniera così netta la componente arrivista, egoistica, malvagia del potere).

Come mantenere quel ruolo così duramente e freddamente conquistato? Quale legittimazione, se non quella democratica, può garantire continuità alla carica?

Game of Thrones fornisce un campionario di forme di legittimazione possibili. In quella che si configura come una quête cavalleresca, ciascun contendente cerca una motivazione per rivendicare il proprio diritto al trono: il sangue, il possesso di creature magiche, il volere dell’unico dio, l’abilità diplomatica, il matrimonio. E nessuna di queste carte è valida in maniera assoluta, basti pensare alla rivendicazione di sangue: il fratello di Robert Baratheon, Stannis, sarebbe il legittimo erede perché nessuno dei figli del re defunto è davvero suo, né una eventuale discendenza naturale al di fuori del matrimonio riuscirebbe ad essere vista come qualcosa di diverso da un errore. Ma Robert aveva a sua volta usurpato il trono dei Targaryen, e questo farebbe di Daenerys la legittima erede. Insomma: ogni fonte di legittimazione è opinabile, e in qualsiasi momento inizi la storia raccontata c’è sempre un prima con le sue dinamiche e le ragioni dei suoi protagonisti. Ai popoli vessati viene solo imposto di inchinarsi al nuovo sovrano, pena la morte, e se è pur vero che alcuni sudditi non dimenticano, quanto in là dovranno andare con la memoria nel rintracciare la famiglia meritevole della propria lealtà? Ed è poi sulla lealtà che si fondano i regni?

Frank Underwood deve ancora trovare la fonte della legittimazione nel suo potere, il suo tempo è poco e di leali sostenitori non è rimasto forse più nessuno. Neanche Claire.

(continua…)

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venerdì, 22 maggio 2015

STORIE (IN) SERIE

Storie (In) Serie

di Massimo Maugeri

È da tempo che medito sulla possibilità di dedicare uno spazio di Letteratitudine alle Serie Tv che,  a detta di molti (e con riferimento a quelle prodotte negli ultimi anni), rappresenterebbero la nuova frontiera della narrazione. È innegabile che molte delle serie che sono andate in onda in questi ultimi anni sono di altissima qualità e hanno attratto una enorme fetta di pubblico. Basti pensare (giusto per citarne alcune delle più seguite) a: “House of Cards“, “Game of Thrones“, “The Walking Dead“. (Va subito precisato che qualità e abilità narrativa non risiedono solo nelle produzioni americane. Valga per tutti l’esempio della serie francese “Les Revenants).
Più volte, qui a Letteratitudine, ci siamo interrogati sul rapporto tra “letteratura e cinema” (non dimentichiamo, peraltro, la sezione “Letteratitudine Cinema” curata dalla critica cinematografica Ornella Sgroi). Anche la relazione tra “romanzi e serie tv” è molto stretta: “House of Cards” nasce dagli omonimi romanzi dello scrittore britannico Michael Dobbs; “Game of Thrones” deriva dal ciclo di romanzi “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R. R. Martin; la produzione di “Les Revenants” si è avvalsa della collaborazione (nel ruolo di sceneggiatore) dello scrittore francese Emmanuel Carrère; qui in Italia aspettiamo la serie tv tratta dalla saga de “L’amica geniale” di Elena Ferrante (per la sceneggiatura di Francesco Piccolo); di recente la Amblin Entertainment, la casa di produzione di Steven Spielberg, e il canale americano SyFy hanno annunciato la collaborazione per realizzare una serie tv tratta dal noto romanzo di Aldous HuxleyIl mondo nuovo” (classico della letteratura distopica). E poi (per rimanere in casa nostra)… come non pensare alla serie televisiva de Il commissario Montalbano tratta dai romanzi di Andrea Camilleri? Insomma: di esempi non ne mancano e potremmo farne tanti altri (e se guardassimo al passato, pensando alle serie tv storiche prodotte nei decenni precedenti, il campo si allargherebbe ulteriormente). In ogni caso, più di che competizione tra romanzo e serie televisiva (con vittoria della seconda sul primo), forse sarebbe opportuno parlare di commistione e di reciproco supporto (le serie tv di successo contribuiscono moltissimo alla vendita dei romanzi da cui sono tratte).
C’è da dire, inoltre, che il mondo di Hollywood guarda con molta attenzione al fenomeno in questione (e già da parecchi anni). Le stelle del grande schermo non ci pensano due volte a tuffarsi nel mare delle opportunità offerte dal piccolo schermo (le serie tv, oggi, sono guardate – ancora più dei “movie” – su diversi supporti: dai megaschermi casalinghi degli home theatre a quelli dei pc, dai tablet agli smartphone, ecc.). Giusto per fare un esempio, (il due volte Premio Oscar) Kevin Spacey non ci ha pensato due volte nell’accettare il ruolo di protagonista (Frank Underwood) nella citata serie “House of Cards” (peraltro affiancato dalla ottima Robin Wright): e milioni di persone in tutto il mondo sono rimaste incollate ai teleschermi per assistere all’ascesa politica del cinico e senza scrupoli deputato del Partito Democratico Frank Underwood che, da capogruppo di maggioranza al Congresso, conquista lo scranno di Presidente degli Stati Uniti d’America.
Sono tante le star di Hollywood che farebbero “carte false” (giusto per rimanere in tema con “House of Cards”) per accedere al ruolo di protagoniste di serie televisive da primato. Matt Dillon, per esempio, è il protagonista di “Wayward Pines” (adattamento televisivo del bestseller “I misteri di Wayward Pines“, romanzo di Blake Crouch), serie appena approdata in tv. Si è parlato di evento “epocale”, giacché la serie sta andando in onda in contemporanea mondiale in 125 paesi (a partire dal 14 maggio di quest’anno). “Quando ho letto gli script dei primi due episodi ho creduto davvero di essere finito dentro un libro“, ha affermato Dillon. “Ho pensato: wow, qui dentro c’è davvero un mondo“. E alla domanda ‘preferisci recitare in un film o in una serie?’, Dillon risponde così: “Amo il cinema, mi piace la magia del grande schermo e il modo in cui un film possa realmente cambiarti la vita. Tuttavia, la televisione ha un incredibile potenziale creativo perché, grazie alla serialità, permette di raccontare storie impensabili per un film. Che poi è la parte più bella del mio lavoro, raccontare storie“.
Raccontare storie, dunque. E qui torniamo a Letteratitudine… e a questa rubrica dedicata alle serie tv.

Il titolo è “Storie (in) Serie” ed è stato proposto da Carlotta Susca (foto accanto), a cui ho affidato il coordinamento della rubrica (uno spazio che sarà arricchito da recensioni, interviste e contributi di vario genere incentrati sulle serie tv ).
Ho conosciuto Carlotta nel 2012, nel corso dell’evento “k.Lit – Il Festival dei Blog Letterari“, e ho avuto modo di apprezzare il suo ottimo saggio “David Foster Wallace nella casa stregata” (Stilo). Tra le altre cose, Carlotta è una delle anime di “STORIE (IN) SERIE” (la rassegna dedicata alle Serie Tv organizzata a Bari) e dunque un grande conoscitrice delle tematiche in questione.
Ringrazio, dunque, Carlotta per la collaborazione… e ringrazio voi, amiche e amici di Letteratitudine, che vorrete seguirci in questa nuova avventura di… Storie (in) Serie.

P.s. Lascio la sezione commenti “aperta” per vostri eventuali contributi.

* * *

Carlotta Susca (1984) è una consulente editoriale e organizzatrice di eventi sulla narrazione nelle sue varie forme, anche quelle seriali; è docente del laboratorio di Editoria libraria e multimediale presso l’università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ e insegna editoria e scrittura in vari corsi e workshop.
È autrice del saggio David Foster Wallace nella casa stregata. Una scrittura fra postmoderno e nuovo realismo (Stilo Editrice) e collabora con alcuni blog, per cui recensisce libri, film e serie tv. (continua…)

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