mercoledì, 29 luglio 2015
STORIE (IN) SERIE n. 3 – Wayward Pines
(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)
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Una vacanza deludente a Wayward Pines.
La serie prodotta da Shyamalan non regge il confronto con Twin Peaks
a cura di Carlotta Susca
Per fare un esempio: come è possibile la costruzione di una statua in un mondo postapocalittico in cui l’umanità è ridotta a qualche migliaio di persone e le risorse contingentate?
Il problema principale di Wayward Pines è l’inverosimiglianza derivante dalla sciatteria della sceneggiatura, da numerose leggerezze nella costruzione della storia, da un acceleramento nel finale che è sintomo di una distribuzione delle informazioni narrative sbilanciata.
La serie tv prodotta per la Fox da M. Night Shyamalan si annunciava come una nuova Twin Peaks, il che aveva generato allo stesso tempo aspettative e predisposizione alla delusione. Come sarebbe stato possibile ricreare la cittadina di David Lynch e riproporre la complessità dell’agente speciale Dale Cooper (un Kyle MacLachlan che attendiamo con ansia nella terza stagione a venticinque anni di distanza)?
I punti di contatto fra le serie sono nell’unità di luogo (con piccole escursioni al di fuori): le vicende si svolgono quasi esclusivamente a Twin Peaks, nello Stato di Washington, e a Wayward Pines, in Idaho (i due Stati sono adiacenti). Ma le affinità si esauriscono qui. Se David Lynch ha costruito una storia che funziona a più livelli, e che può essere interpretata sia in senso letterale, come rappresentazione di un male concreto, che in senso metaforico (la violenza domestica e i demoni interiori), i segreti nei boschi di Wayward Pines sono frutto di una rappresentazione distopica.
Quella che in Lynch era l’universale riflessione sul Male, sulla sua pervasività e sulla sua presenza tangibile sotto la superficie linda di una cittadina modello, nella serie prodotta da Shyamalan perde ogni elemento metaforico e trova tutte le spiegazioni nel genere fantascientifico.
Nelle prime quattro puntate – un lungo primo atto di presentazione del mondo ordinario (sebbene a sua volta straordinario), per dirla con Christopher Vogler – Ethan Burke (Matt Dillon) cerca di penetrare i misteri di Wayward Pines, una località da brivido in cui i sorrisi tesi degli abitanti e i convenevoli stucchevoli sono monitorati da telecamere e microfoni, e in cui i microchip tracciano ogni spostamento. La tensione narrativa è concentrata nella comprensione della verità: si tratta di un esperimento sociologico? O forse stiamo guardando il mondo dal punto di vista di un protagonista inattendibile, con una mente confusa e paranoica?
Con la quinta puntata la serie cambia completamente genere, storia e tensione narrativa; non c’è più da chiedersi cosa si celi nella cittadina da incubo: con Ethan apprendiamo (e con suo figlio Ben ri-apprendiamo, e poi ancora) che Wayward Pines è una serie di genere fantascientifico, che i misteri riguardano la natura della cittadina, ultimo baluardo della civiltà, che la fortificazione delle mura serve più a tener fuori le ‘aberrazioni’ (involuzioni dell’uomo) che a tener dentro gli ignari pupazzetti nelle case da bambola.
Ed ecco una nuova occasione mancata: avendo, come pubblico, le stesse informazioni di Ethan, potevamo osservare gli abitanti dal punto di vista opposto, comprendere le ragioni del potere e considerare dissidenti quelli che prima avremmo visto come eroi.
Ma il cambio di prospettiva è stato vanificato dalla lentezza della storia nelle puntate successive alla rivelazione e dalla disarmante superficialità nella costruzione dei personaggi: Pam Pilcher (Melissa Leo) senza alcun motivo passa dall’essere un’infermiera inquietante a rivestire il ruolo di governante benevola e amorevole.
Il finale a sorpresa – che da Shyamalan ci si aspetta –, lungi dall’essere inatteso ma coerente è un epilogo incollato malamente e completamente ingiustificato. Se il messaggio è quello che una cattiva educazione produce mostri e che un modello di comportamento, se applicato senza la motivazione per cui era nato, è vuoto e inutile, la sua messa in scena narrativamente non funziona.
L’ellisse nella storia circa la presa del potere da parte della Prima Generazione avrebbe forse richiesto una ulteriore puntata, e l’impressione, dopo una serie che annovera episodi dalla narrazione diluita, è che il finale sia affrettato piuttosto che inaspettato; l’effetto è simile a quello delle ultime puntate del primo True Detective, ma senza i personaggi, i dialoghi, le ambientazioni e le soluzioni registiche che ne facevano una serie straordinaria.
La permanenza in Wayward Pines è dimenticabile, il ritorno a Twin Peaks sarà eccitante e la cittadina di Lynch non ha rivali.
Tags: Carlotta Susca, Serie Tv, Storie (In) Serie, Wayward Pines
Scritto mercoledì, 29 luglio 2015 alle 15:44 nella categoria SERIE TV (e dintorni). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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