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martedì, 5 febbraio 2013

IL PELE’ DEL SACRO CUORE (tra calcio e letteratura)

CopertinaAggiorno il post del 19 settembre, dove si è sviluppato il forum dedicato al rapporto tra “calcio e letteratura“, per ospitare un nuovo libro (e un nuovo autore). Si tratta del romanzo “Atletico Minaccia Football Club“, di Marco Marsullo (Einaudi).

Su LetteratitudineNews, potete leggere uno stralcio del libro.
Invito Marco Marsullo a partecipare alla discussione…

Massimo Maugeri

* * *

Post del 19 settembre 2012
Dedico questo post al gioco del calcio, il nostro sport nazionale (avevamo già avuto modo di parlarne in occasione del dibattito condotto su questo libro). L’idea mi è venuta quest’estate, nel corso di una breve vacanza a Parigi. Un pomeriggio, nel quartiere di Montmartre, proprio ai piedi della Basilica del Sacro Cuore, sono stato attratto da una folla raccolta attorno a un ragazzo che palleggiava. Mi sono avvicinato e… be’, non vorrei esagerare, ma… non ho mai visto nessuno palleggiare in quel modo. Quel ragazzo sembrava tutt’uno con il pallone… come se lo telecomandasse con la mente. Ma non aggiungo altro. Ho avuto la possibilità di registrare un video che vi propongo qui di seguito. Guardatelo. Poi, se vi va, ne discuteremo insieme…

Avete visto il video? Io, ripeto, sono rimasto molto colpito. E ho deciso di “battezzare” questo ragazzo come… Il Pelè del Sacro Cuore.
Prendendo spunto da questo video, vorrei organizzare un dibattito sul rapporto tra calcio e letteratura. E non è un caso se ho scelto come “immagine/icona” di questo post, la vecchia foto di Pasolini che gioca a pallone (Pasolini era un grande amante di questo sport).
(continua…)

Pubblicato in A A - I FORUM APERTI DI LETTERATITUDINE, EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, POST DEL MESE   316 commenti »

lunedì, 19 marzo 2012

LETTERATURA DELL’IRONIA

Questo, sulla letteratura dell’ironia, è un post a cui tengo molto e che – di fatto, nel tempo – si è trasformato in una sorta di spazio permanente.
Sarà, dunque, uno di quei post che verrà aggiornato periodicamente con l’obiettivo – nella fattispecie – di sostenere la letteratura che dà spazio all’ironia (con particolare attenzione all’area partenopea… ma non solo).
Massimo Maugeri

* * *

Sono molto lieto di riaprire questo spazio dedicato alla “letteratura dell’ironia” ospitando nuovamente Pino Imperatore (Re dell’humour-lab partenopeo), già presente in questo forum con altri suoi libri. Stavolta l’occasione dell’incontro la fornisce la recente pubblicazione del suo nuovo libro pubblicato dalla Giunti e intitolato “Benvenuti in casa Esposito“: un romanzo che, tra le altre cose, sta riscontrando un grande successo editoriale.
Si tratta della storia che racconta “le avventure tragicomiche di una famiglia camorrista”… la famiglia Esposito, appunto.

Il rione Sanità, dove è nato il principe della risata Totò, è uno dei più affascinanti e misteriosi di Napoli. Qui vive, con la sua famiglia allargata, Tonino Esposito, orfano di un boss della camorra. Tonino riceve dal clan un sussidio mensile e potrebbe vivere di rendita. Invece si intestardisce a voler imitare le gesta paterne, senza riuscirvi. Perché è goffo, sfigato, arruffone, incapace di difendersi: un antieroe tragicomico, che tra incubi e visioni, ingenuità e imbranataggini, ne combina di tutti i colori.
Uno spaccato divertente e allo stesso tempo crudele della Napoli contemporanea, città dalle mille contraddizioni e dalle tante difficoltà, capace però di non perdere mai la speranza in un futuro migliore.

Vi propongo, di seguito, la bella recensione di Ciro Paglia (pubblicata su Il Corriere Nazionale, nell’inserto Scritture&Pensieri curato da Stefania Nardini).

Avremo modo di discutere con Pino Imperatore di questo suo nuovo libro, ma – contestualmente – ne approfitterei per “allargare” le prospettive di dibattito sulla base delle seguenti domande che pongo…

- In che modo l’ironia e la “narrazione ironica” possono aiutarci a comprendere meglio i vizi, le contraddizioni, i paradossi di certe nostre realtà?

- Quali caratteristiche dovrebbe avere la “narrazione ironica” per adempiere a tali scopi?

- Cosa, viceversa, dovrebbe evitare?

- Riuscire a ridere, o a sorridere, di una realtà “difficile” a noi vicina, può aiutare a cambiarla o solo ad accettarla con più facilità? O né l’una né l’altra?

A voi!

Massimo Maugeri

* * *

(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   563 commenti »

martedì, 24 novembre 2009

IL SUD NELLA NUOVA NARRATIVA ITALIANA

Parliamo di letteratura, parliamo di Sud. L’occasione ce la fornisce questo interessante saggio di Daniela Carmosino (docente presso l’Università del Molise, editor e consulente editoriale) uscito di recente per i tipi di Donzelli con il titolo: “Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il Sud nella nuova narrativa italiana”.
Ecco la scheda del libro:
Oggi che i problemi del Sud d’Italia sono temi di successo su cui puntano media ed editoria, viene da chiedersi: che ne è stato del riscatto sociale e culturale del Mezzogiorno che una quindicina d’anni fa pareva imminente? Questo volume è un ideale grido di battaglia “futurista” dei giovani scrittori – Saviano, De Silva, Parrella, Cilento, Cappelli, Pascale – che, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di raccontare un Sud svincolato dagli stereotipi del paradiso turistico o dell’inferno senza redenzione, svincolato dalla pizza, dal mandolino e dal vittimismo. Un sud diverso, aggiornato al presente: il sud della nuova criminalità e della nuova borghesia, degli extracomunitari integrati e dei lavoratori precari. A metà tra il saggio e il reportage, la ricostruzione e il pamphlet, il testo esamina il fenomeno della rinascita della narrativa meridionale tanto auspicata negli anni novanta, e nel frattempo raccoglie dichiarazioni inedite, ragiona su contestazioni e polemiche e finisce per toccare questioni che oltrepassano i confini del sud. Sempre nel tentativo di ricostruire, al di là delle più immediate letture, un fenomeno tuttora fonte di dibattiti e capire il ruolo che può avere la letteratura nella comprensione e nella rappresentazione del sud di oggi.

Mi piacerebbe organizzare un dibattito su questo interessante volume ragionando insieme a voi sul “Sud nella nuova narrativa italiana” e sulle tematiche a esso connesse. Inoltre vorrei tentare di mettere “a confronto” Daniela Carmosino con alcuni degli scrittori citati nel suo saggio. Fino a questo momento ho avuto modo di contattare: Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, Antonella Cilento, Francesco Dezio, Giuseppe Montesano, Antonio Pascale, Livio Romano (i quali – compatibilmente con i loro impegni – cercheranno di prendere parte, più o meno direttamente, alla discussione).
Naturalmente sono invitati a partecipare al dibattito tutti gli altri amici scrittori, critici, giornalisti culturali, lettori, ecc.
Come al solito proverò a porre alcune domande al fine di favorire la discussione. Eccole: (continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA DEI LUOGHI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   315 commenti »

venerdì, 20 novembre 2009

QUANDO LA LETTERATURA PRENDE CORPO

corpi-e-letteraturaChe rapporto c’è tra “corpo” e letteratura?

Pensando alla letteratura del passato (italiana e internazionale)… in quali opere il corpo, la “fisicità”, diventano elementi caratterizzanti delle opere medesime?

E nell’ambito della letteratura contemporanea?

Quale romanzo scegliereste come testo rappresentativo del rapporto “corpo/letteratura”? E perché?

Pongo queste domande prendendo spunto da un testo inviatomi dalla scrittrice Barbara Gozzi: i corpi nella letteratura italiana contemporanea. Un testo che sintetizza un progetto (maggiori dettagli qui e qui).
Avremo modo di parlarne con Barbara, che ci spiegherà meglio come è nato il progetto e quali sono gli obiettivi.
Intanto, vi invito – se ne avete voglia – a provare a rispondere alle domande di apertura del post.
Di seguito, il testo di Barbara Gozzi.
Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   198 commenti »

giovedì, 10 luglio 2008

LETTERATURA È DIRITTO, LETTERATURA È VITA (di Simona Lo Iacono)

Simona Lo Iacono la conoscete molto bene, perché è di casa qui. Scrittrice dalla penna lirica e immaginifica, è la creatrice, la mente e il braccio di un importante salotto letterario che ha sede in casa sua, a Siracusa. Ma Simona Lo Iacono è anche un valente magistrato (dirige il Tribunale di Avola).
Ho pensato di intestare a Simona una nuova rubrica di Letteratitudine dove confluiranno talento letterario ed esperienza di giurista.
Il titolo è: Letteratura è diritto, letteratura è vita. Piuttosto evocativo, vero?
Qui potrete leggere storie nate nelle aule di Tribunale, articoli sulle “implicazioni giuridiche” della scrittura (soprattutto quella in rete), considerazioni su romanzi che incrociano la sfera del diritto e molto altro (perché letteratura è diritto… ma è, soprattutto, vita).

Intanto vi invito a gustarvi il pezzo omonimo della rubrica (lo trovate di seguito) e a interagire con l’autrice.

Vi ricordo che è disponibile, on line, il bellissimo racconto I semi delle fave, firmato – appunto – da Simona Lo Iacono.

Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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Letteratura è diritto, letteratura è vita

di Simona Lo Iacono

Ci sono albe che si somigliano. Che si sovrappongono. Che ci appartengono anche se le chiamiamo con nomi diversi.
Sono le albe in cui l’uomo ha immerso lo sguardo in se stesso. In cui si è contemplato e ha scoperto che era un’eredità. Che aveva un passato. Una storia da ricordare.
Le origini del diritto si confondono con le origini della letteratura. Con l’esigenza di raccontarsi e di codificare regole per migliorare la convivenza. E sebbene l’alba della parola sembri non avere assonanza con quella della norma, l’uomo le ha viste nascere insieme. Ha posato lo sguardo su di esse nello stesso momento.
Perchè raccontandosi e non perdendo memoria della propria storia, l’uomo la esaminava e formulava ipotesi per disciplinarla. Perché narrazione e regolamentazione fanno parte della stessa necessità: sopravvivere.
E perché laddove una smarriva la strada, l’altra sopravveniva a colmarla. Dove l’una perdeva la pietà, l’altra riesumava lacrime e dolori.
Letteratura e diritto sono sorelle.
Sono sorelle nel rappresentare l’uomo e i suoi errori. Nel raccoglierne i lamenti. Sono sorelle nell’identificarne la voce, nell’interpretarne i desideri.
Nessun intreccio è più complementare: diritto e letteratura. Rimandano l’uno all’altra lambendo un unico e misterioso continente: quello della natura umana.
Perché la legge non è un abito che dall’esterno ci vesta. Non è forma – indurita da precetti – che ignori la fragilità umana. La legge è frutto di quella fragilità. E’ sintesi della sua precarietà. E’ la stessa occhiata stupefatta su quell’alba. E nasconde lo stesso incanto nell’interrogarsi.
La pratica giudiziaria lo dimostra. Le norme più rispettate sono quelle percepite come conformi all’identità di un popolo. Alla sua esigenza di essere interpretato nei propri bisogni. Al risuonare della sua anima.
E le storie seguite con più passione sono quelle che nascono da una norma violata. Da un’esigenza di riparazione. Da un cambiamento che si concluda con una risposta. Non con un’altra domanda.
Perché la vita è già domanda. E’ già viaggio e cambiamento. Affastellarsi di umori sovrapposti che esigono giustificazione.
Il processo è una giustificazione. Così come il romanzo.
Io credo che il miglior processo sia quello che si conclude dopo aver scavato dolentemente e sinceramente nella ricerca di una giustificazione al mistero di esistere. E che tale sia anche il miglior romanzo.
Se entrambi conciliano pietà e fantasia, verità e desiderio di sottoporsi a questa verità, nessun imputato né alcun lettore potrà pensare di non avere avuto giustizia.
Simona Lo Iacono

Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono)   140 commenti »

martedì, 3 giugno 2008

LA LETTERATURA È PIU’ ARTE O ARTIGIANATO? ALTRI TRUCCHI D’AUTORE di Mariano Sabatini

La letteratura è più arte o artigianato?
Si basa più sul guizzo creativo o sull’affinamento dei ferri del mestiere?
È più ispirazione o… “trucco”?

Queste domande mi sono venute in mente dopo aver visionato l’ottimo libro di Mariano Sabatini Altri trucchi d’autore”, edito da Nutrimenti.
Si tratta della seconda puntata di un viaggio alla scoperta dei segreti dei grandi scrittori. Dopo il primo, fortunato Trucchi d’autore, Sabatini ci presenta qui cinquantadue nuove interviste che svelano costumi, riti, ossessioni di molti nomi di punta della narrativa italiana e internazionale. L’indagine entra questa volta anche nelle scelte più proprie della scrittura: come si costruisce un personaggio o una storia. E ancora il rapporto con gli editori, il racconto degli esordi, i consigli agli aspiranti scrittori. Un avvincente percorso esplorativo che va da Brizzi a Moccia, passando per Cunningham, Mazzucco, Orengo, Parrella, Buttafuoco, Camon, Ferrante, Deaver, Santacroce, Lansdale, Veronesi e molti altri.
Vi invito a rispondere alle domande poste all’inizio del post e a interagire con l’autore del volume, che parteciperà al dibattito.
La “nostra” Maria Lucia Riccioli, che conosce Sabatini e ha letto il libro, mi aiuterà a condurre e a moderare il post.
Di seguito potrete leggere l’introduzione e due interviste ad autori doc: il premio Pulitzer Michael Cunningham e il premio Strega Sandro Veronesi.

Massimo Maugeri

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Mariano Sabatini, 36 anni, giornalista, in passato ha firmato programmi di successo (Tappeto volante, Parola mia, Unomattina) e lavorato per quotidiani e periodici. È critico televisivo del quotidiano Metro e rubrichista per Eva Tremila e Affari Italiani. Scrive su Italia Oggi. Partecipa come opinionista in tivù e collabora con varie radio. Nel 2001 ha pubblicato La sostenibile leggerezza del cinema (Esi) e nel 2005 Trucchi d’autore (Nutrimenti).

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LA CARICA DEGLI SCRITTORI
di Mariano Sabatini

Se anche lontanamente avete a che fare con il mestiere di scrivere, foste pure scrivani di strada, statene pur certi: ci sarà sempre qualcuno che, pur di lusingarvi, vi definirà scrittore.
Mi è capitato sovente, partecipando a numerose trasmissioni radiofoniche e televisive per parlare dei precedenti Trucchi d’autore, che presentandomi al pubblico, mi definissero scrittore; oppure che tale dicitura apparisse nel cosiddetto sottopancia, testo che si materializza in sovrimpressione sul piccolo schermo quando le telecamere inquadrano un qualunque professionista. Non è vero: non mi ritengo uno scrittore, almeno per il momento mi basta considerarmi un giornalista, un cronista, uno che scrive insomma. E che, per somma ammirazione nei confronti degli scrittori puri, si mette al loro servizio per raccontarli nei loro aspetti più intimi legati al mestiere.
Mi sono convinto a collazionare Altri Trucchi d’autore, confortato dal piccolo successo del primo volumetto sui metodi di lavoro dei più grandi, apprezzati, letti, amati romanzieri italiani e non solo. “Un libro sul mestiere di vivere da scrittori”, come ha scritto a proposito di Trucchi d’autore Antonio D’Orrico sul Magazine del Corriere della Sera. L’attenzione che la precedente pubblicazione ha suscitato, tanto presso i lettori quanto presso la stampa, testimonia la larga diffusione del sogno della scrittura. Chi, oggi, non ha un romanzo o un racconto nel cassetto!? Cassetto inteso come reale o anche solo immaginario. Tutti scrivono e tutti credono di aver diritto al titolo. Se è vero che “L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati”, come sosteneva Leo Longanesi, chi ha il famoso romanzo sul desktop del pc è il primo a gridare: “Presenteeee!”.
Il nostro, per parafrasare un antico modo di dire, è un Paese di santi, poeti navigatori e… scrittori, romanzieri, novellieri della domenica. Ma essere scrittori, oltre alle interviste e alle presentazioni mondane (quando, però, si tratti di creatori di best seller, beninteso), comporta anche grandi sacrifici, una vita ai limiti del monastico, solitudini dolorose, la sottomissione a una rigida regola, a una disciplina e a un rituale a cui non tutti sono in grado di sopravvivere.
Che cos’è un rituale, lo spiega meravigliosamente la volpe al piccolo principe, nel celebre passo sull’addomesticamento nel libricino di Saint Exupery che ha fatto sognare generazioni di lettori: “Se ogni giorno arriverai alle quattro, io dalle tre comincerò ad aspettarti…”. E allora, a cosa giovano e a cosa servono i rituali per chi scrive? Il rito è, dal punto di vista etimologico, un ordine che si fa, un ordine in divenire: non un ordine dato, immutabile, finito, ma un ordine che si autoproduce. Immaginiamoceli, dunque, i nostri scrittori preferiti, mentre ogni giorno, nel momento a ciascuno più congeniale, si apprestano ad iniziare il lavoro: scelgono la musica o spengono il cellulare, aprono una finestra o guardano una scultura… Alcuni sono superstiziosi, come Giorgio Faletti, un romanziere che con Io uccido ha venduto oltre un milione e mezzo di copie e che, rivelando di lavorare a un romanzo ambientato in Arizona, una storia sugli indiani Navajo, ha dichiarato: “Il titolo lo rivelo solo quando l’ho finito, per scaramanzia”. Il titolo sarà poi, come ben sanno gli appassionati, Fuori da un evidente destino.
Dovendo credere al grande Georges Simenon: “Scrivere non è una professione ma una vocazione all’infelicità”. Allora pubblicare e avere visibilità significa inghiottire rospi grossi come lattonzoli. Il quotidiano La Stampa, commemorandone la scomparsa, ricordava il rapporto problematico di Oriana Fallaci con il suo lavoro: “Ogni mio libro è un urlo di odio per la morte e un grido di gioia per la vita. (…) Non chiedetemi il perché di tutte le cattiverie che hanno scritto sui miei libri. Ogni volta che succede io mi chiedo, smarrita, sgomenta, incredula: ma perché? Non appartengo a nessun partito, non appartengo a nessun gruppo o meglio a nessuna mafia letteraria. Non parlo mai di nessuno, non insulto mai i libri degli altri. Se sono brutti, non dico mai che sono brutti. Non dico nemmeno: non mi piace. Non lo dico perché conosco la fatica tremenda che ogni libro, bello o brutto che sia, costa. E mi riconosco in quella fatica, rispetto quella fatica. (…) Scrivere è il mestiere più faticoso del mondo. Io a scrivere mi stanco, anche fisicamente. Mi stanco come un facchino, come un minatore, come quelli che fanno un mestiere pesante. Eppure non posso fare a meno di scrivere”.
E già, chi scrive e ne trae soddisfazione (notorietà o addirittura fama, soldi, autorevolezza, inviti nei salotti, sconti nei ristoranti o chissà cos’altro…) deve fare i conti con gli aspetti meno noti, o più onerosi, del mestiere. In molti ricordano Thomas Harris, quando durante le udienze contro il presunto mostro di Firenze, Pietro Pacciani, prendeva diligentemente appunti, come l’ultimo dei praticanti giornalisti locali. L’ autore del celeberrimo Silenzio degli innocenti è infatti uno che usa approfondire la materia trattata nei suoi romanzi. Per scrivere Black sunday, storia di un attentato terroristico contro gli States organizzato durante la fine del campionato di football, studiò il terrorismo islamico ben prima dell’attacco alle torri gemelle.
Non temete, cari aspiranti scrittori, di dover svolgere altri mestieri per assemblare il pranzo con la cena. Oggi vanno più che mai di moda i romanzieri pescati dalle professioni più disparate: magistrati (Carofiglio, De Cataldo…) o avvocati (Filastò, Agnello Hornby…), insegnanti (Oggero, Scurati, Perissinotto…), registi (Camilleri, Comencini…), giornalisti (Augias, Colaprico, Varesi, Soria…), e via dicendo. La letteratura non dà il pane, sostenevano i latini, e più che mai nel Novecento, secolo poveri di mecenati. Alla ricerca dell’agiatezza, o magari solo per campare, gli scrittori del Novecento si sono indaffarati nei mestieri più vari. Il mestiere più prestigioso lo ha praticato Malraux, che è stato ministro, dopo aver rubato statue kmer in Cambogia. Jack London ha collezionato infiniti mestieri e fu, per esempio, fiociniere su baleniere dell’Artico. Colette aprì nel 1932 un istituto di bellezza. Lawrence d’Arabia fu, oltre al resto, scaricatore di carbone a Porto Said e trasportatore di cammelli sull’Eufrate. Céline fu a Ginevra e nel mondo Technical Officer della società delle Nazioni. George Orwell dalla Polizia Imperiale in Birmania passò a miserrime condizioni, come lavapiatti e barbone. Saint-Exupéry riteneva che il suo vero mestiere fosse l’aviatore e questo lo portò, tra l’altro, alla morte. Italo Svevo, per fare il grande industriale, smise di scrivere: gli bastava una riga per renderlo inetto al lavoro pratico per una settimana. E l’ingegner Gadda, per la revisione del Pasticciaccio, fu mantenuto da “mamma Rai”. Il reporter Frederick Forsyth, ex collaboratore di Reuters e Bbc, ha scritto Il giorno dello sciacallo mettendo a frutto il lavoro di corrispondente da Parigi, e Dossier Odessa servendosi delle informazioni raccolte in Cecoslovacchia su alcuni gerarchi nazisti. Scott Turow ha inventato il legal thriller ma non ha mai smesso di indossare la toga. E a Chicago, al 77esimo piano della Sears Tower, il grattacielo più alto del pianeta, manda avanti un importante studio legale: “I codici, i processi, le aule di giustizia sono le cose in cui credo. Non potrò mai abbandonarli”, dice. Tra un’arringa e l’altra, Turow sta preparando il sequel del suo primo thriller di successo, Presunto innocente. Ma la sua vera anima qual è: quella di scrittore o di avvocato? Gli chiede Francesco Fantasia del Messaggero: “Il cuore mi spinge verso la letteratura, la mente verso i codici”. Il nostro Alberto Bevilacqua arrivato a Roma da Parma, avendo oltretutto già cominciato a scrivere narrativa, lavorò alla cronaca nera del Messaggero e, prima di passare alla redazione cultura, dovette indossare per sei mesi gli scomodi panni dell’inviato nella guerra del Congo.
Le vie della narrativa, si può dire, siano infinite. Tanto che sempre Forsyth per esorcizzare la sua claustrofobia ha scritto Il vendicatore in cui agisce un veterano del Vietnam, abile tunnel-rat, uno di quei militari che percorrevano i cubicoli sotterranei scavati dai vietcong.
E’ nato a Parigi, il seguitissimo Christian Jacq, ma la sua patria d’elezione è l’Egitto. Fin da adolescente ha amato questo Paese sopra ogni altro, tanto che decise di laurearsi in archeologia ed egittologia alla Sorbona. Più tardi, nel 1995, la sua passione per le piramidi e i faraoni lo ha spinto a scrivere Ramses, romanzo incentrato sulla figura di Ramsete, best seller in tutto il mondo. Da adolescente comprò La storia dell’Egitto antico, un’opera in tre volumi che comprendeva anche traduzioni di poesie, leggende e molte fotografie. Per lui fu una rivelazione: “Sarei assolutamente incapace -racconta – di scrivere storie fantascientifiche sul tipo del film La mummia, completamente avulsi dal contesto realistico. Anch’io attingo all’immaginazione, ma se descrivo un dialogo tra Ramses e un dignitario so che si sono parlati in quel modo perché mi rifaccio ai documenti in cui questo è descritto. Lo stesso vale per le cene, i riti e le scene di vita quotidiana”. Questo il suo metodo, ognuno ha il suo.
Per creare la protagonista di Pura vita , Andrea De Carlo ha osservato molto sua figlia, oggi ventenne, ha ascoltato i suoi discorsi. Lui finisce per lavorare nelle ore in cui gli altri sono in ufficio. A parte il lavoro di preparazione, scrive due ore di mattina, due di pomeriggio. Nella casa in campagna vicino Urbino ha una stanza con una bellissima finestra ad arco che gli consente di allontanare lo sguardo dalla pagina. Si veste comodo e, se non fa freddo, ama stare a piedi nudi. “Mi dà un senso di libertà”, dice. Esce, cammina per mezz’ora, un’ora nella natura oppure taglia legna. Torna con energia rinnovata. Ogni tanto mangia cioccolato amaro. Persino la tivù “a volte è fonte di ispirazione su certi ambienti o personaggi”. Non tiene musica in sottofondo perché nelle interruzioni suona la chitarra. Scrive al pc portatile (“La penna permette la riflessione, la macchina da scrivere obbliga a dei passaggi che non corrispondono al modo di pensare, il pc è plastico, garantisce un’infinità di elaborazioni”) e a fine giornata ha pronte tre pagine in media. A volte una, a volte cinque. Per gli appunti: ”Scrivo sul retro dei fogli usati. Sono contento che la Einaudi e poi la Bompiani abbiano aderito ad un’iniziativa in cui sono coinvolto con Greenpeace e hanno pubblicato i miei romanzi su carta riclicata”. All’inizio si accaniva, era assalito dall’ansia, ora rispetta l’istinto, “Due di due l’ho iniziato e, dopo due capitoli, lasciato per due anni”. E non riuscirebbe a finire un libro lasciandolo tutto nel computer. Deve avere la pagina su cui lavorare a penna: ”E’ un lavoro di stratificazioni, in media riscrivo tutto quattro volte, a ogni passaggio dialoghi e personaggi acquistano nitidezza. Di solito la prima stesura è come un legno sbozzato. Lavoro sulle parole, sottraggo aggettivi”, racconta.
Sottrarre sembra essere la parola magica di chi vuole scrivere per mestiere. Potremmo, per convenzione, ribattezzarla la legge del taglione. Talvolta gli scrittori o, meglio ancora, gli aspiranti tali si affezionano più a una frase o a un intero paragrafo dei propri elaborati che al loro fedele cane scodinzolante. E mi riferisco al “migliore amico dell’uomo” per non spingermi fino a mettere in dubbio l’attaccamento al fidanzato o alla compagna di vita. Sta di fatto che la sintesi, oggi, appare indispensabile a chiunque voglia avere un futuro editoriale degno del nome. Marilù S. Manzini (già autrice di Io non chiedo permesso, protagonisti ricchi mostruosi, tra stupri, sesso e droga) per Il quaderno nero dell’amore ha dovuto sforbiciare molto le iniziali seicento pagine del dattiloscritto, tagliando molte scene di sesso, poi riproposte sul sito della Rcs.
Nessuno, neppure i trapassati, potrà sottrarsi a un severo editing e alla già citata legge del taglione. Pensate infatti all’inarrivabile Lev Tolstoj: la potente casa editrice Harper&Collins ha pensato bene di togliere seicento pagine delle originarie millequattrocento circa di Guerra e pace, per alleggerire la nuova edizione proposta al pubblico. Il lavoro di riduzione, come racconta Enrico Franceschini su Repubblica, “elimina tutte le pagine in cui l’autore fa parlare i suoi personaggi in francesce, la lingua dell’aristocrazia russa del tempo, ed elimina pure i capitoli, spesso intervallati a quelli di azione sulla campagna di Napoleone per conquistare Mosca, in cui Tolstoj filosofeggia sulla guerra, sul destino dell’uomo, sulla fede e sull’amore. Risvolti secondari e trascurabili, per quelli della casa editrice londinese. E pensare che oltre centoventi scrittori americani, inglesi e australiani avevano inserito il capolavoro russo del 1865 tra “i dieci migliori libri di tutti i tempi”. Certo quelli di Harper&Collins avranno pensato però che dovendo scegliere un romanzo da portare su un’isola deserta (magari frequentata dai famosi…), meglio che sia leggero. Avvisati, dunque. Siate severi con voi stessi, cari scrittori, tagliatevi senza pietà o, purtroppo, ci penseranno altri. Anche dopo centoquarant’anni.
Siate severi, ma giusti. Non trastullatevi nel vagheggiamento di un futuro da narratore. Solo scrivere può insegnarvi a scrivere. In Altri Trucchi d’autore, troverete, a tal proposito, tante testimonianze di romanzieri in piena attività che dimostrano verso se stessi un’obiettività ai limiti dell’intolleranza, grazie alla quale possono consegnare alle stampe storie apprezzate da schiere di lettori.
Individuare il proprio metodo di lavoro è fondamentale, e magari si può cominciare proprio imitando gli scrittori che ce l’hanno fatta. Come l’ormai mitica J. K. Rowling, ideatrice del maghetto Harry Potter, che ha incassato ben ottocento milioni di euro in diritti d’autore, tra editoria, cinema e merchandising.

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LE RISCRITTURE INFINITE DI MICHAEL CUNNINGHAM

Vive a New York, lavora in uno studio che è a quindici minuti circa dal suo appartamento, Michael Cunningham. “Quando sono a New York, ci vado ogni giorno, faccio le scale fino al sesto piano, cosa che aiuta a mantenere la flessibilità dellle ginocchia”, racconta. “Nel palazzo abitano solo vecchie signore, nel cortile si vedono stesi dei panni di biancheria piuttosto impressionante!”.
Lo scrittore è volato a Roma per promuovere Giorni memorabili (Bompiani), la storia di un dodicenne costretto a prendere il posto del fratello Simon nella fonderia in cui ha perso la vita. È un ragazzino dotato della capacità di sentire la voce delle macchine e decifrarne i messaggi.

Il suo studio?
La mia stanza è molto comoda, senza vista, piena di cose, oggetti, ci sono libri ovunque. Le persone mi regalano cose di tutti i tipi, compresi i souvenir a forma di palla con la neve.
Scrivo su un enorme tavolo di legno, molto rovinato.

Computer o macchina per scrivere?
Uso il computer. Amo il mio pc, non sono in generale molto tecnologico, ma lo schermo del pc mi sembra fantastico, un punto di mezzo quasi magico tra la pagina e la mia consapevolezza. Lì, di fronte a me, piccole parole liquide e blu, che esistono e non esistono, malleabili. Per me sono molto meglio di una penna che gratta il foglio, o delle dita che martellano i tasti di una macchina da scrivere.

Fa delle pause?
Quando lavoro, lavoro, quando non lavoro, non lavoro. Non faccio pause, non c’è tv, tolgo la suoneria al telefono e lascio la segreteria: mi possono lasciare un messaggio. Non guardo le e-mail se non dopo tre o quattro ore, quando ascolto anche i messaggi.

Metodo di scrittura?
Riscrivo all’infinito, scrivo una frase e la riscrivo, e la riscrivo. Alla fine del giorno, ho bisogno di stampare, qualunque cosa abbia combinato durante la giornata. Altrimenti, non mi sembra vero. Uso carta molto economica.

Musica di sottofondo?
Ascolto musica nel mio studio. Ogni giorno, quando arrivo, metto su qualcosa. Spesso ascolto, quando scrivo, cose diverse a seconda di quello a cui sto lavorando. Può essere il Requiem di Mozart, può essere Laurie Andreson, i White Stripes, Anthony and the Johnsons… Il ritmo, la musica delle parole è importante, per me, quanto il loro significato.

Le idee migliori dove nascono?
Ho bisogno di preservare un minimo di stato di isolamento. E quando ho finito, ho finito, esco, penso ad altro, non prendo appunti, se sono in un caffè, non mi metto alla ricerca di un tovagliolo sul quale scrivere idee che ho paura di dimenticare.

I suoi personaggi sono presi dalla vita reale?
Ma certo, sì! E le dirò di più… un po’ tutti i miei personaggi c’est moi. Se un personaggio non fosse almeno in parte autobiografico, non so se riuscirei a scriverne.

Cosa ruba dalla realtà?
Io sono gay e sono uno scrittore. Voglio usare la mia esperienza per scrivere i libri migliori, per quanto mi è possibile. E credo di avere una prospettiva più ampia, perché, stando un pochino al di fuori del mondo, riesco forse a vederlo meglio. E quindi proprio la mia esperienza come gay forse mi permette di scrivere di persone molto diverse tra di loro.

Libri per ispirarsi?
Leggo continuamente. A volte gli scrittori dicono che devono stare attenti, per non farsi influenzare. Io penso invece che se leggo Garcia Marquez e ne vengo influenzato… va bene. Ascolto e leggo più che posso.

Come usa i libri?
Non ho mai collezionato libri, non sono un bibliofilo, non mi importa dell’aspetto esteriore di un libro. Se i libri vengono usati, macchiati, annotati, per me va bene.

Scrive come agli esordi o il suo approccio al lavoro è cambiato?
È cambiata la mia vita, non ho più ansie legate alla sopravvivenza. Il rapporto con la scrittura non credo possa cambiare davvero. Del resto, non esiste un modo di scrivere definitivo e statico, per un artista. Si impara sino all’ultimo giorno, e la nostra scrittura non è che un continuo perfezionarsi, pagina dopo pagina.

Anche lei confida nella disciplina?
Non esistono segreti fondamentali per diventare grandi autori, tutto si scopre lavorando con costanza, con sofferenza, con passione. Il pittore Monet, quando morì, stava lavorando a cercare di riprodurre il suono delle canne spinte dal vento. È una cosa che mi commuove. Quando penso a me come scrittore, vorrei poter dire lo stesso e poter vivere come visse Monet: affamato di imparare ogni giorno di più il mio mestiere.

Con quale stato d’animo legge le recensioni?
Non le leggo. L’ho fatto per lungo tempo, e ho smesso. Non saprò mai raccomandare abbastanza questa scelta. Le recensioni buone sono utili, gratificanti. Quelle negative scoraggianti. Per me tutto ciò è fuorviante. Non bisogna badarci.

I suoi lettori?
Il tuo libro, buono o cattivo che sia, vive soprattutto grazie ai lettori, e grazie a loro durerà molto più a lungo dei suoi critici.

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L’ALAMBICCO DI SANDRO VERONESI

Il grosso del lavoro è avvenuto, come sempre, nell’inconscio di Sandro Veronesi: “Io posso solo dire che il romanzo ha cominciato a esistere nella mia testa quando si sono incontrate un’idea e una reminiscenza”. L’idea, che rappresenta il nucleo di Caos calmo (Bompiani), di un uomo che passa tutto il giorno davanti a una scuola e la reminiscenza di un remoto salvataggio in mare compiuto veramente dallo scrittore e dal fratello. Veronesi, che sostiene di non avere il privilegio di poter scegliere, scrive la mattina, perché può solo la mattina. In camera da pranzo, poiché non ha uno studio ma solo tavolino inglese molto bello “che mi ha regalato tanti anni fa Vincenzo Cerami e rimane il pezzo d’arredo più prezioso della mia casa”.

Macchina per scrivere o computer?
Computer. Navigare su Internet mi aiuta in vari modi. Mi permette di perdermi, e da persi si scrive meglio.

Fa delle pause quando lavora?
Ne faccio tantissime, con tutte le scuse possibili. Soprattutto quando sta filando tutto liscio.

Sfizi, generi di conforto?
Quando fumo, sigarette.

Musica di sottofondo?
Di continuo. Ascolto la roba scaricata da Internet. A volte scarico mentre scrivo.

Le idee migliori come nascono?
Per me nascono scrivendo, evocate dall’atto stesso di scrivere.

Disciplina o ispirazione?
La disciplina è ispirazione.

La creatività si esaurisce?
Non ne ho idea.

Blocchi, incubo della pagina bianca?
Non mi fa più paura. Le pause sono forse meno dolorose dello scrivere.

Libri per ispirarsi?
Evito accuratamente di leggere i libri che m’influenzerebbero negativamente, per una questione di stile. Per esempio, scrivendo Caos calmo ho evitato di leggere Carver.

Per quale scrittore prova invidia?
David Foster Wallace.

A cosa sta lavorando?
A un romanzo.

Metodo di scrittura?
Lavoro molto per decidere tempo e persona di narrazione,nel senso che faccio prove e prove. Poi, quando ho deciso, vado avanti il più regolarmente possibile, senza struttura, senza sapere bene cosa scriverò. Però di solito so più o meno dove voglio andare a parare.

Quando un personaggio può dirsi ben delineato?
Quando comincia a venirmi a noia.

Ha mai ‘rubato’ ad altri?
Sì. In genere si tratta di ritmo compositivo, stacchi dialogo/didascalie, eccetera. Ci sono dei maestri, nel mondo.

Hanno mai ‘rubato’ a lei?
Non ne ho idea.

Le capita di rileggersi?
No.

In quanto tempo è pronto un suo romanzo?
Parecchi anni, in genere.

Hai mai buttato un intero dattiloscritto che non la soddisfaceva?
Intero no. Metà sì.

La semplicità nello scrivere: meta o punto di partenza?
Le cose difficili, semplificale. Quelle semplici, complicale.

Meglio tagliare una frase inefficace o tagliarsi un dito?
Le frasi inefficaci non dovrebbero nemmeno esser scritte. Se sono davvero inefficaci e non si riesce a non scriverle, tagliarle è facile. Il problema è che le frasi non sono quasi mai inefficaci.

Quante pagine produce in un giorno?
0,75 circa, di media.

Scrivere è faticoso?
Doloroso, più che altro. Per me.

A chi fa leggere in anteprima?
Prima avevo una persona, ma non l’ho più. Ne devo trovare un’altra.

Lo stile?
Intervengo su tutto. Ci vogliono parecchi passaggi all’alambicco della correzione, perché una mia pagina diventi buona.

La correzione delle bozze che momento è?
A quel punto il mio lavoro è già fatto.

Accetta i consigli dell’editore?
Sì, li accetto. Nel primo romanzo l’editore mi disse che il romanzo cominciava a pagina cinque, e io tagliai le prime quattro pagine.

I critici?
Credo di avere avuto abbastanza fortuna, con la critica. Ma dinanzi a una recensione non mi stupisco, né lusingo, né tanto meno offendo più da molto tempo. Mi piace quando qualcuno trova qualcosa che stava nascosto nel mio libro e che nemmeno io avevo trovato.

Sa chi sono i suoi lettori?
Quelli a cui non piace quello che scrivo sono lo stesso miei lettori? Perché ovviamente non vengono a dirmelo, e io non ho mai modo di conoscerli. Conosco solo i lettori che si fanno avanti per farmi i complimenti, ma non è che posso considerare miei solo quelli. No, non so chi sono.
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AGGIORNAMENTO DEL 6 GIUGNO 2008


INTERVISTA A MELANIA MAZZUCCO, vincitrice del premio Strega 2003 (per gentile concessione di Mariano Sabatini e della casa editrice “Nutrimenti”)

LA STANZA CHIUSA DI MELANIA MAZZUCCO

Il suono di una sirena che squarciava il silenzio di una notte, a Roma, parecchi anni fa: Melania Mazzucco si è chiesta che cosa gridasse. Se chiedeva aiuto, se qualcuno stava morendo e si poteva salvare, se qualcuno aveva solo fretta di tornare a casa. Stava passando un’ambulanza o era la volante della polizia? E cosa era successo? “Tutto era accaduto in una stanza chiusa, sigillata contro di me come sempre le vite degli altri – spiega l’autrice di Un giorno perfetto (Rizzoli). – E io volevo entrare in quella stanza. Gli scrittori non fanno altro. Sono io l’intruso, il poliziotto scelto che sfonda la porta dell’appartamento di via Carlo Alberto”.
Per lei la scrittura ha qualcosa a che fare con la notte, col buio che libera i demoni e restituisce la libertà ai sogni. Perciò di solito comincia a scrivere nella seconda metà del giorno. Nel riquadro della finestra, alla sinistra della scrivania, vede appassire il sole e scendere l’oscurità. “A poco a poco è come guardare un quadro interamente nero. Questa essenzialità mi riconcilia con le parole, e con il loro significato più vero. Scrivo finché vado a letto, molto tardi”.
Il suo studio è di una semplicità totale. C’è un tavolo col ripiano di vetro, la scrivania dove si affastellano quaderni, agende, fogli volanti e microscopici brandelli di carta su cui appunto liste di parole, aggettivi e nomi. Ci sono due librerie rigurgitanti libri e carte, una piattaia da cucina che ha riconvertito in archivio e un vecchio mobile-grammofono degli anni Quaranta, l’unico oggetto che ho ereditato dalla nonna. Per terra, c’è una colonna friabile, sempre sul punto di franare. Sono lettere, alcune vecchie anche di un anno o due o perfino di più: “Il ritardo con cui rispondo è sempre scandaloso. Sono una pessima corrispondente”.

Il tavolo che storia ha?
Quadrato, col ripiano di vetro. Nero. Anni fa, era il mio tavolo da pranzo. Quando sono andata a vivere da sola, mi sono concessa il lusso di comprarmi solo due cose: il letto, un tremendo letto di legno, di quelli che si montano con la sparachiodi, e quel tavolo con sei sedie, dallo schienale altissimo. Ancora oggi, non ne ho altre.

Usa il computer?
Fin dal 1986. Il computer, peraltro, non l’ho mai cambiato ed è ancora quello – col sistema operativo dos. La mia prima macchina da scrivere, una vecchissima Olivetti M40 che mi regalò mio padre e su cui scrissi la mia prima sceneggiatura nel 1975, è diventata un soprammobile.

A mano non scrive niente?
Ho scritto il mio primo racconto a mano, e tutti i miei appunti li prendo a mano, come una copista medievale. Però ho scelto presto il computer. Ci siamo piaciuti al primo istante. Solo lui aveva la velocità dei miei pensieri. E in effetti lo considero un’estensione della mia mente. Ma questo non ha niente a che vedere con la creatività. Se non lo avessero inventato, avrei continuato a ticchettare sulla Olivetti, o a scrivere a mano, con la matita. L’unica differenza, forse, riguarda i filologi: per loro sarà difficile lavorare sulle varianti dei romanzi scritti al computer. I computer hanno la memoria corta.

Le pause dalle sessioni di scrittura?
Mai. Mi incollo alla sedia come una conchiglia allo scoglio. L’immobilità mi libera la mente, mi consente una specie di beatitudine zen. Un giorno, però, mi metterò a contare quante sigarette si è aspirato Un giorno perfetto. Grosso modo, per quattrocento pagine, direi uno scaffale del duty-free. È una considerazione allarmante.

Musica di sottofondo mentre scrive?
Sempre. Di solito la radio, per la precisione Radio Globo o RDS, le uniche che, nella zona della città oscurata dai ripetitori di radio più potenti, riesco a captare. La musica techno mi è congeniale. Però metto anche i miei cd preferiti – Moby, Portishead, Radiohead, Primal Scream, Fat slim boy, Amalia Rodriguez, Cecilia Bartoli, qualche volta anche musica da camera di Fauré e Franck. I musicisti italiani, che pure amo, non posso ascoltarli per via delle interferenze che la comune lingua provocherebbe. Nei giorni di mood malinconico, metto anche Le nozze di Figaro e la Norma.

Il telefono e il cellulare?
Accesi, ma non rispondo mai. Una vecchia storia dice che uno scrittore romano… chi era, Orazio? Ovidio? Petronio?… faceva dire alla sua schiava: non sono in casa. E se la schiava non c’era, lo diceva lui stesso: “Non sono in casa”. Beh, faccio qualcosa del genere.

Le idee migliori dove nascono? C’è un modo per evocarle e favorirle?
Non saprei rispondere. A volte in sogno. A volte nel dormiveglia, a volte parlando con qualcuno, ma anche nei momenti morti della giornata, su un autobus, aspettando davanti a un cinema, guardando fuori dalla finestra, camminando su un sentiero di montagna. Forse le idee nascono dal vuoto, per una sorta di effetto di osmosi. Io mi concentro molto anche quando corro sul tapis-roulant: mi guardo nello specchio davanti alla macchina e non vedo me stessa, ma i miei pensieri.

Rituali di inizio e fine lavoro?
Non ne ho nessuno. L’unico gesto che compio sempre è accendere il computer, all’inizio. Mi piace il suono di quel click. È come accendere la mente.

Disciplina o ispirazione, cosa serve di più?
L’ispirazione è disciplina e viceversa. L’una favorisce l’altra, l’una sabota l’altra. Bisogna essere abbastanza sconsiderati per ignorare le trappole della disciplina, e abbastanza umili per accettare i limiti dell’ispirazione.

La creatività si esaurisce?
Fatemi di nuovo questa domanda fra dieci anni.

Blocchi, incubo della pagina bianca?
Siccome non sono una che si mette a scrivere perché deve timbrare il cartellino, non mi metto mai davanti allo schermo se non ho una storia da raccontare, una frase da correggere o un personaggio cui trovare un corpo e un nome. Eludo i periodi vuoti semplicemente non scrivendo. A volte questi periodi di astinenza durano mesi, perfino un anno.

Libri per ispirarsi?
No, è impossibile. Il ritmo e lo stile delle frasi degli altri può restare in mente, e influenzare il proprio. Nei periodi in cui scrivo leggo pochissimo, e spesso solo di argomenti attinenti a quello sul quale sto scrivendo, per studio diciamo. Mi rifaccio nei lunghi mesi di astinenza dalla scrittura. Allora sono una belva onnivora, divoro mattoni in pochi giorni, affamata.

Prova invidia per qualche collega?
L’invidia è l’unico peccato capitale che non ho praticato mai. Invidiare qualcuno significa ammettere una propria mancanza e sono troppo orgogliosa per stimarmi tanto poco. L’ammirazione invece è un sentimento che mi assale spesso. Perciò potrei nominarne tantissimi. Tutti gli scrittori che ho amato da quando ho cominciato a leggere, perciò da sempre. Alla fine, per non farla tanto lunga, posso dire che ammiro la creatività anagrafica di Dumas e Balzac, la concisione di Jane Austen, la leggerezza di Stendhal, il genio di Bulgakov, lo sterminato periodare di Proust, i personaggi bambini di Elsa Morante, i malvagi di Dostoevskij e, per nominare qualche vivente, la cultura di Ghosh, l’ironia di Esterhazy, la stralunata visionarietà di Ransmayr.

A cosa sta lavorando?
È uno di quei periodi in cui non scrivo. Sono in archivio da quasi due anni, sto inseguendo, a volte rintracciando e a volte perdendo, una bellissima storia dimenticata, che sarà il mio prossimo romanzo.

Vuole provare a descrivere il suo metodo di scrittura?
Riempio dozzine di quaderni, taccuini, foglietti, anche se non sempre utilizzo ciò che annoto. Del resto spesso semplicemente non lo trovo, perché gli appunti non hanno un indice. C’è un aggettivo che mi piace tanto – coriaceo – che volevo inserire in Un giorno perfetto.

E non l’ha fatto?
Credo di averlo dimenticato, perché è ancora lì, appuntato su un foglietto che ancora mi guarda da sotto il portacenere.

Fa delle scalette?
Scrivo la prima versione di un romanzo senza scaletta, senza conoscere il destino dei personaggi, e mai in ordine cronologico, dall’inizio alla fine. Ma sequenza per sequenza, a seconda della tensione del momento, di solito molto rapidamente. Per evitare equivoci, chiarisco che rapidamente per me significa cinque, sei mesi.

Quante pagine produce in un giorno?
Non produco niente, è una parola che non mi piace. Comunque non vorrei mai produrre pagine. Non sono una macchina né un’industria, semmai un artigiano geloso che cura con amore gli oggetti che escono dal suo laboratorio. Non sono regolare, non mi impongo obiettivi.
Allora, diciamo quanto riesce a scrivere.
Nei momenti “dionisiaci” posso scrivere anche quaranta pagine tutte di seguito, come in una sorta di scrittura automatica. Nei momenti “apollinei”, quando correggo, rivedo e sono per così dire in fase di montaggio alla moviola, in un giorno è già tanto se ne limo una.

Per lei, scrivere è faticoso?
Per me è un’attività fisica e naturale come respirare. Coinvolge tutti i cinque sensi… per non parlar del sesto. Scrivere è il tatto delle dita sulla tastiera, l’olfatto teso alla ricerca mentale degli odori di cui stai parlando, la vista delle parole che galleggiano sullo schermo e delle cose che vedi davanti a te e in realtà non ci sono, e così via. Perciò è faticoso, sì, ma anche meraviglioso, come vivere.

Scrittori si nasce o si diventa?
Chi era che disse “diventa ciò che sei”? Forse era Socrate, o Epicuro o sant’Agostino, e se non era nessuno di loro, chiedo loro perdono di averli scomodati per tanto poco. Credo non si possa comunque spiegare meglio il percorso che ognuno di noi deve seguire per conoscersi. Bisogna trovare dentro di noi la cosa che ci appartiene, ed è solo nostra. Se è la scrittura, prima o poi, emergerà, e diventeremo ciò che siamo sempre stati, senza saperlo.

A chi fa leggere in anteprima?
Alla persona che ho scelto e che è la parte migliore di me.

Per raggiungere lo stile desiderato?
Intervengo su tutto. Il ritmo di una frase, l’aggettivo attaccato a una parola come un parassita, un verbo inappropriato, una descrizione generica, un dialogo che non suona, una digressione che bisogna proprio sopprimere.

Rilegge molto?
Mi rileggo ossessivamente per mesi, anni a volte, ma poi, quando ho pubblicato un libro, non mi rileggo mai senza vero disagio. Il testo diventa quello di un altro. Ovviamente, se mi rileggessi, continuerei a trovare qualcosa che mi è sfuggito, sbavature ed errori: la scrittura è un processo potenzialmente infinito.

Nel senso che potrebbe lavorare su un testo anche a distanza di anni?
Nel senso che anche lo stile cambia: ciò che a vent’anni mi sembrava stupendo, non mi pare più così oggi. Io vivo e cambio, e i miei libri vivono e cambiano con me. Però l’imperfezione rende vivo un libro. Le sue asperità, i suoi stridori, lo restituiscono al mondo.

Rilegge ad alta voce?
Sempre. Ho imparato a farlo fin da ragazzina, essendo cresciuta nella casa di un uomo di teatro. Guardavo gli attori leggere il copione, e le parole cadono subito nel vuoto quando la battuta è sbagliata. Così oggi se una pagina non suona, non funziona e la elimino.

Idiosincrasie linguistiche?
Sono ossessionata dai luoghi comuni. Non mi perdono quando ne scrivo uno non intenzionalmente, per farne parodia.

Come sceglie le parole?
Ah, sono avida di parole, le colleziono, le riesumo e a volte le invento. Mi piacciono gli strafalcioni e gli slittamenti di senso, i dialetti, i gerghi specialistici. Con una passione per quello medico. Scandaglio le lingue straniere, le parole in agonia che nessuno usa più e quelle celibi, che sono state usate una volta sola. Nessuna parola mi pare inutile, brutta o indegna. Aspiro all’orecchio assoluto per le parole.

Alla correzione delle bozze interviene molto?
Sono il terrore dei redattori. Sono stata una redattrice anch’io, perciò sono rimasta una cacciatrice di sviste e refusi. Ma continuo a correggere il testo anche stilisticamente, e strutturalmente, fino all’ultimo momento, quando sta per andare in stampa.

Accetta i consigli dell’editore?
Ho tagliato di seicento pagine il mio primo romanzo, Il Bacio della Medusa, che nella versione originale ne contava millecento e giustamente nessuno lo avrebbe mai pubblicato. Ho soppresso alcuni capitoli di Lei così amata, perché troppo digressivi rispetto alla vicenda. Mi confronto volentieri con l’editore, non ho la pretesa di avergli consegnato un testo sacro.

Legge gli articoli e le recensioni su di lei?
Le leggo sempre con molto ritardo, le lascio decantare in modo che il loro potere di offesa o lusinga sia attutito dal tempo. Così, a memoria, posso ricordare che mi piacque quando mi definirono “eccentrica” rispetto al panorama della narrativa contemporanea, quando scrissero che ero nata per narrare e che avevo uno stile fluviale. Una critica tedesca disse che ero come un uragano e mi divertì questa definizione perché sono nata l’anno dell’alluvione di Firenze e sento di avere qualcosa a che fare con l’acqua.

Offese?
Mi sentii ferita quando scrissero che avevo uno stile cinematografico, che mettevo troppi dettagli, consolandomi perché a Mozart dicevano che metteva troppe note, che ero troppo brava e questo mi avrebbe impedito di scrivere un bel romanzo. Mi ha piacevolmente sorpresa leggere delle belle recensioni uscite in paesi stranieri – Canada, Spagna o Olanda – e scoprirmi capita da qualcuno che vive realtà molto diverse dalla mia, che non mi conosce né mi conoscerà mai, che mi valuta solo attraverso le mie parole, alla fine la parte più vera di me.

Chi sono i suoi lettori affezionati?
Le persone più disparate, e questa mi pare la meraviglia della letteratura. Ragazze e pensionati, insegnanti e detenuti, professionisti e operai. C’è stato anche qualche lettore eccellente, il cui apprezzamento mi ha profondamente emozionato, ma non ho la volgarità per fare il suo nome. Finora, la mia lettrice più giovane ha dieci anni, è una ragazzina sensibile e speciale a cui auguro ogni bene. La più anziana ha compiuto ieri cento anni, è una vispa signora di favolosa arguzia, che sa tutto della vita. Non dimentico mai le parole che mi dicono i lettori, e alcune le tengo per me, come i miei ricordi più belli.

Com’è arrivata a farsi pubblicare?
Quando ho cominciato a far leggere il manoscritto del mio primo romanzo, tutti mi dicevano che avrei dovuto pubblicarlo. Io ho esitato, perché avevo paura di espormi, e sapevo quanta gioia e quante ferite mi sarebbe costato diventare per il mondo una scrittrice.

E quando si è decisa?
Poi hanno esitato anche gli editori. Mi hanno respinta con convinzione per tre anni. Alla fine, qualcuno mi ha apprezzato e mi ha fatto un’offerta. Siccome non sono vile, dopotutto, ho trattenuto il fiato e mi sono lanciata. È cominciato così.

Consigli a un giovane o vecchio aspirante scrittore?
Essere se stessi e non credere che conformarsi alle attese degli altri serva a qualcosa. Non demoralizzarsi per i rifiuti che inevitabilmente verranno, e saranno dolorosi, come se qualcuno ti accoltellasse un figlio. Né soffrire per i tempi lunghissimi, epocali, perché può essere interminabile l’attesa prima che un libro trovi la sua strada.

L’umiltà è utile?
Certo, bisogna accettare, a volte, il rifiuto, e comprenderlo. Imparare dall’errore e non avere paura di riscriversi, di cambiarsi, anche di rinunciare a una storia che ci sta a cuore per scriverne un’altra, completamente diversa. I manoscritti a volte si perdono, ma non muoiono: il parere sferzante di un lettore può diventare l’entusiasmo di un altro, e dalle ceneri di un romanzo che morirà inedito può nascere un romanzo che troverà migliaia di lettori.

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giovedì, 10 aprile 2008

LETTERATURA E MUSICA

I testi delle canzoni sono letteratura?

Quand’è che un testo musicale può considerarsi testo letterario a tutti gli effetti?

E ancora… il testo di una canzone può rientrare nell’ambito della cosiddetta grande letteratura?

Queste le domande che pongo nel post di oggi, incentrato sul tema “letteratura e musica”. Un post che pubblico anche a seguito della notizia dell’attribuzione del premio Pulitzer a Bob Dylan.

Come ha scritto Enzo Gentile su “Il Mattino” del 9 aprile: “A questo punto, quando canterà per l’ennesima volta che i «tempi stanno cambiando» ci sarà da dargli ancora ragione. Mentre il Nobel per la letteratura è ancora dietro l’angolo, a Bob Dylan arriva ora uno dei riconoscimenti internazionali più prestigiosi, quel Pulitzer che da 65 anni segnala le eccellenze nel campo del giornalismo e delle arti e che nella sua storia non aveva mai premiato un rocker, esponente di una musica ritenuta in passato barbarica e sovversiva. L’artista di Duluth è stato insignito dell’onorificenza alla carriera con una motivazione secca, che non lascia spazio agli equivoci: «Per il profondo impatto sulla cultura e la musica d’America grazie a composizioni liriche dallo straordinario potere poetico». (…)

I giurati del Pulitzer hanno inteso indicare con Dylan un cardine, una sorta di periscopio della cultura contemporanea, una voce e un testimone senza confini.”

-A proposito di Bob Dylan, vi segnalo che nel 1972
la Newton Compton ha pubblicato per la prima volta in Italia una raccolta di suoi testi, Blues, ballate e canzoni.

Una raccolta – riproposta in edizione economica (a 5 euro) – dove compaiono le tematiche di impegno politico e sociale, di accusa e di disperazione che hanno reso Dylan un’icona del Movimento di contestazione, nonostante egli non vi si identificasse appieno.

Il volume è introdotto dall’esperta di letteratura americana Fernanda Pivano.

Di seguito avrete modo di leggere i contributi di Francesco Di Domenico ed Enrico Gregori, che hanno affrontato – rispettivamente – i temi: “letteratura e musica italiana” e “letteratura e musica straniera”.

Massimo Maugeri

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LETTERATURA E MUSICA ITALIANA

di Francesco Di Domenico

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“E’ giunta mezzanotte/ si spengono i rumori si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffé
le strade son deserte/ deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne và.”

Probabilmente con questa strofa di “Vecchio Frack”, di Domenico Modugno comincia la storia dei cantautori in Italia e la musica comincia ad avere una sua categoria “colta”.Già in Francia molti poeti avevano cantato, e tre su tutti, Brassens, Brel e Leo Ferrè, veri artisti multimediali, avevano fatto diventare questa materia musicale una vera e propria categoria letteraria. Di lì a poco, in Italia, tutta una generazione di musicisti insofferenti, che avevano una proposta non solo melodica ma comprensiva anche di testi poetici e letterari, avrebbero rivoluzionato un certo modo di proporre la musica. Erano quasi tutti di provenienza da studi classici.       

Comincia Modugno che narra in tre minuti, gorgheggiando a modo suo, il racconto di un suicidio, circoscrivendolo in un ambiente da “telefoni bianchi”. E’ un racconto vero o quantomeno il suo explicit. La musica da quel momento può narrare e poetare in senso non volgare, come  era successo fino ad allora, dove i testi erano stati un semplice complemento per usare la voce come strumento, per veicolare il motivo, la melodia. I componimenti dei cantautori cominciano ad essere vere e proprie poesie a versi sciolti o a rima baciata, sovente usando anche la tecnica del Limerick anglosassone, la forma scherzosa e non-sense della poesia,  come ne  “Il Testamento” di De Andrè : “…per quella candida vecchia contessa che non si muove più dal mio letto/ per estirparmi l’insana promessa di riservarle i miei numeri al lotto/ non vedo l’ora di andar fra i dannati per rivelarglieli tutti sbagliati”. Gino Paoli, che canta “Il cielo in una stanza”, sembra rovesciare la tristezza delle stanze leopardiane, con un inno d’amore liberatorio. Veri racconti brevi irrompono nelle sale discografiche “minori”, cantati da scrittori e poeti che vogliono uscire dalla pagina scritta e narrarli accompagnati da chitarre, quando non da intere orchestre. Uno scrittore e poeta straordinario, che addiziona alle sue liriche una musica gradevole e colta appare, giusto come una nuvola barocca, sulla seconda metà del secolo breve: Faber De Andrè: “Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa.” Diceva così Fabrizio De Andrè, dovendo giustificare le insistenze dei giornalisti. Ma l’esuberanza creativa l’avrebbe avuta e come visto l’immensa produzione poetica e l’inserimento in moltissime antologie scolastiche dei suoi brani. Scrivono di tutto i cantanti-autori, persino saggi politici e invettive come Claudio Lolli ne “La piccola borghesia”:   Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Godi quando gli anormali son trattati da criminali/ chiuderesti in un manicomio tutti gli zingari e intellettuali. Ami ordine e disciplina, adori la tua Polizia tranne quando deve indagare su di un bilancio fallimentare. Sai rubare con discrezione meschinità e moderazione alterando bilanci e conti/ fatture e bolle di commissione. Sai mentire con cortesia con cinismo e vigliaccheria hai fatto dell’ipocrisia la tua formula di poesia.   

Francesco Guccini, poeta, scrittore e polemista fine, mette in musica dopo tante storie e racconti un polemico elzeviro contro i giornalisti che lo avevano accusato di imborghesimento: “L’avvelenata”,Una risposta feroce in rima: “Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!”

Quindi finanche giornalismo, mettendo alla berlina un personaggio “cult” del tempo, il giornalista Riccardo Bertoncelli.   “Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, tra la vita e la morte avrei scelto l’America”, ne aveva già recitato tante di poesie, molto ermetiche, quasi montaliane, alcune di una delicatezza estrema (“E guarda l’amore che non ha commenti da fare, l’amore comunque che non ha paura del mare da attraversare.”)

Francesco De Gregori, ma con questa frase inserita nella “Donna cannone” riuscì persino a ragionare di filosofia citando la “non scelta” di Schopenhauer.

Ora, una medievalizzazione del gusto musicale, che cammina di pari passo con un “barbarismo” culturale che sta modificando i rapporti di forza tra comunicazione e letteratura sembra abbia bloccato queste deliziose commistioni; viaggia comunque, spedito e silenzioso come un fiume carsico un grande “raccontatore” che da oltre quarantanni ha narrato storie surreali accompagnato da un piano tanghèro e da un orchestrina jazz: Paolo Conte.

Le sue parole sono entrate nel frasario cult e colto delle generazioni susseguitesi: “Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti” e sull’amore : “Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia, di uno innamorato di te”.

I suoi racconti ci hanno narrato pezzi d’Italia, storie d’amore; ci hanno fatto vedere film’s d’amore. Se Conte avesse voluto allargare in romanzi scritti le sue ineffabili storie avremmo avuto sicuramente un po’ di letteratura in più.

p.s. ho omesso molti autori validi, ma ho dimenticato, volutamente, un autore che considero sopravvalutato: Luigi Tenco. Non fu un vero poeta, ma un presuntuoso e bravo musicista, che trascinò la sua arroganza culturale fino ad un gesto estremo di narcisismo, il suo personale autoannientamento con il suicidio. Era stato fortunato perché una sua bella melodia aveva fatto da sigla al formidabile sceneggiato su Maigret (“un giorno come un altro”), ma le sue erano belle canzonette, come dice umilmente Bennato, la poesia è altro.

Francesco Di Domenico

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 LETTERATURA E MUSICA STRANIERA

di Enrico Gregori

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Oltremanica e oltreoceano i testi delle canzoni (almeno dagli anni 60 in poi) si sono ispirati alla rivendicazione sociale e/o alla trasposizione della realtà in una sorta di “poetica”.
Non credo sia utile, in questa sede, citare i “soliti” Dylan, Coen, Baez o Simon, in quanto autori celeberrimi.Tentiamo di (ri)scoprire chi, per esempio, si affidò a un paroliere quasi suo clone per mettere nero su bianco il suo dolore, il suo disagio, la sua infelicità interrotta solo episodicamente da scorci di gioia.Tim Buckley, per esempio, musicista e cantante pressochè insuperabile, che si affidò sempre al paroliere Larry Beckett. Come nella “Song to the siren” (Canzone alla sirena).

“…Sono confuso come un bimbo appena nato
Sono turbato dalla marea:
Devo fermarmi tra i distruttori?
Devo giacere con la morte mia sposa?
Ascoltami cantare “nuota da me, nuota da me, lasciati dire:
Sono qui, sono qui, aspettando di poterti abbracciare”.
Paradossale la vita di Tim Bucley, morto per eroina dopo che si era disintossicato. Una “una tatum” talmente pura che lo stroncò.
Suo figlio, Jeff, musicista anche lui, morirà annegato. Un’altra coppia padre-figlio accomunata nella morte, esattamente come Bruce e Brandon Lee. 
Ma se intorno a noi c’è solo odio, guerra, distruzione e infelicità. Si può fuggire e ritrovare se stessi.
Una trasposizione quasi metafisica di Peter Hammil e dei suoi “Van der Graaf Generator” nella epocale “Refugees” (Fuggitivi) dove l’Ovest altro non è (forse) che un sogno da raggiungere e coltivare per avere ancora la speranza.

“…..L’Ovest sono Mike e Susie
L’Ovest è dove io amo
 
Là noi passeremo gli ultimi giorni delle nostre vite
Racconteremo le solite vecchie storie
Bene, almeno abbiamo tentato
Andremo verso l’Ovest, con il sorriso sui nostri volti……”

L’infelicità di chi in teoria ha tutto, tranne se stesso.
Nick Drake, autore di tre capolavori ufficiali.
Figlio di un ricco diplomatico inglese, Nick non ha mai voluto rassegnarsi alla vita da figlio di papà.
Un artista enorme e (all’epoca) trascurato.
La sua celebrità, come spesso accade, comincia in un giorno del lontano 1974.
Quando la madre trova Nick, 26 anni, stroncato da un’overdose di tranquillanti.
Oggi Nick Drake significa ristampe, cover, colonne sonore, cult.
L’esatto contrario di ciò che lui (per sfregio) sentiva di essere nei confronti della vita. “Parasite” (Parassita).

 …”E guarda, puoi
vedermi per terra
Perché sono il parassita di questa città
Danzando una giga
in una chiesa con campane
Un segno dei tempi odierni
E non sentendo nessuna campana
da un’altra guglia
La gente tutta in costernazione
Cadendo così in basso su
un cucchiaio d’argento
Prendendo in giro la luna
E cambiando la fune per
una misura troppo piccola
Tutta la gente viene appesa
Guarda e mi vedrai passare
Perché sono il parassita che viaggia in coppia
Quando togli la maschera
a un pagliaccio del luogo
E ti senti già come lui…”

Ascoltare i testi di pezzi americani o inglesi è stata sempre un’arma a doppio taglio.
Magari ci si è innamorati di una musica senza accorgersi che il testo fosse di una banalità sconcertante.
O, più spesso, la stessa bellezza della musica ci ha fatto trascurare le parole.
Qui ho fatto tre esempi, a pioggia, i primi che mi sono venuti in mente tenendo come filo logico il disagio. Ma tanto, volendo, ci sarebbe da scoprire nei testi dei Procol Harum o dei King Crimson, tanto per fare due esempi di gruppi che nelle note di copertina avevano il giusto orgoglio di inserire tra i componenti del gruppo a tutti gli effetti Keith Reid (Procolo Harum) e Pete Sinfield (King Crimson)
Il loro “strumento?”. “Words”… parole.
Per chi vuole “leggere” oltre che ascoltare.

 Enrico Gregori

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mercoledì, 2 aprile 2008

È PICCOLA LA LETTERATURA DELLA GRANDE RETE? LA LETTERATURA DOPO LA RIVOLUZIONE DIGITALE

Nelle scorse settimane è sorto un grande dibattito intorno al saggio di Arturo MazzarellaLa grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale” (Bollati Boringhieri, 2008, pagg. 128, € 15). Mazzarella insegna Letterature comparate nell’Università Roma Tre e si è a lungo occupato di vari temi riguardanti la letteratura e l’estetica otto-novecentesca. Tra le sue pubblicazioni più recenti va ricordata La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria (Donzelli, Roma 2004).

Di cosa si occupa il saggio di Mazzarella?Mi affido a un estratto della scheda del libro, giusto per fornirvi un’idea.

Secondo Mazzarella “la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive. L’espansione della virtualità prodotta dai nuovi media sembra relegare tra le reliquie del passato quelle pratiche comunicative, come la letteratura, attraverso le quali la civiltà occidentale ha scandito il suo progresso. Ma è un’impressione di superficie. Considerata fuori dalla retorica che ancora l’avvolge in numerose sedi istituzionali, sgombrata da ipoteche etico-pedagogiche o estetiche, proprio la scrittura letteraria rivela oggi una insospettabile contiguità con l’universo dei media elettronici, mostrando il suo originario, costitutivo, carattere virtuale. È quanto esibiscono senza falsi pudori alcune tra le esperienze letterarie più vitali e innovative dell’ultimo ventennio: da Calvino, Celati e Tondelli a Kundera, Ballard, DeLillo, Ellis, Marias, Amis e Houellebecq. Grazie a loro gli incroci che si vengono a stabilire tra la letteratura e la videoarte, o il cinema digitale, i videogame e i videoclip diventano tutt’altro che uno scenario avveniristico”.

Credo che la tesi di Mazzarella si evinca già piuttosto chiaramente dalla breve scheda che vi ho proposto.

Vi accennavo al dibattito. Sì, perché questo libro ha già fatto parlare di sé sulle pagine dei più illustri quotidiani: dal Corriere della Sera a La Stampa.

Partiamo da La Stampa che ha pubblicato in contemporanea (il 17 gennaio) due articoli correlati firmati da Marco Belpoliti e Mario Baudino.

Baudino sostiene che “Tutto cominciò negli Ottanta, quando Pier Vittorio Tondelli, giovane maestro per almeno due generazioni di scrittori italiani, ripeteva di sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri. O forse prima, secondo Filippo La Porta. Il critico che ha appena licenziato, fra grandi discussioni, il suo Dizionario della critica militante scritto per Bompiani con Giuseppe Leonelli, ricorda una battuta di Wim Wenders, regista da lui molto amato: «Devo tutto al rock». Vennero poi i Cannibali, e si disse che i loro territori di partenza erano le giungle della cultura pop, dei fumetti, del cinema d’azione, anche se poi avevano un retroterra letterario. Pare che la mamma di Niccolò Ammaniti, ad esempio, gli facesse leggere Cechov in dosi massicce. E ora? Ora un narratore come Pietro Grossi confessa a Ttl, di dovere ai «librogame» la sua passione per la letteratura, perché leggere è sempre stata una fatica, «lo scotto da pagare per tentare di riuscire a scrivere qualcosa di decente». Alfonso Berardinelli, in Casi critici (Quodlibet) celebra la fine del postmoderno e annuncia, riprendendo un saggio del ‘97, l’Età della Mutazione, quella in cui, «dopo aver diffidato per circa un secolo della comunicazione», la letteratura vorrebbe oggi «essere comunicazione di cose già comunicate». È lo scenario in cui stanno Grossi e i suoi coetanei? Coloro che addobbarono i predecessori con ossa umane, e cioè il duo Severino Cesari-Paolo Repetti, inventori di Einaudi-Stile Libero, non sono d’accordo. «All’inizio degli anni Novanta cominciammo a leggere testi – dicono – dove le merci e la cultura popolare costituivano l’enciclopedia di riferimento». Con una differenza, però: «La lezione dei classici, in autori come Ammaniti, Nove, Scarpa o Simona Vinci, era ben presente. Forse era sparita la gerarchi dei valori. Ma l’idea del giovane scrittore che arriva dai fumetti è spesso caricaturale». (…) Il romanzo, aggiunge Berardinelli, non è mai stato, del resto, «un genere intellettuale. Il suo terreno è il senso comune di un’epoca. Se quello attuale è fondato sulla cultura di massa e sulle subculture giovanili, si parte di lì». Non è una novità, non è neanche una «mutazione». «Esistono due tipi di senso comune: quello sentimentale dei più adulti, e quello dei monellacci sado-maso. Due nomi: Sandro Veronesi per la prima categoria, Tiziano Scarpa per la seconda, o almeno lo Scarpa degli esordi. Lo scopo è analogo: acchiappare una fetta di lettori “nuovi” in contatto con la realtà attuale». Questo, aggiunge, se ragioniamo in generale. Se invece guardiamo al risultato, cominciano i guai.
«Nella mescolanza tra alto e basso, credo che conti il clima morale del Paese. E allora penso che gli autori Usa siano messi meglio perché lì le cose avvengono sul serio; i nostri meno, perché qui tutto è di riporto». Eccola, la mutazione. «Prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più, tant’è vero che la critica non conta nulla ed è pure detestata».”

Belpoliti cita McLuhan, il quale nel 1964 scrisse “che uno dei fenomeni più significativi dell’età elettrica consiste nel creare una rete globale che somiglia al nostro stesso sistema nervoso, «il quale non è soltanto una rete elettrica ma un campo unificato di esperienza». La profezia non tarda ad avverarsi. Ben prima della comparsa del computer, prima di Internet e dei nuovi media, a indicare come la rete dei possibili e l’esperienza possano coniugarsi positivamente provvede la letteratura. Nel ‘67 esce Cibernetica e fantasmi di Italo Calvino, vero e proprio manifesto della nuova letteratura; tuttavia ad accorgersene sono in pochi. Su questa strada, che coniuga comunicazione e letteratura, moltiplicazione del punto di vista e virtualità, si sono già mossi Beckett e Borges, seppur con esiti diversi e persino opposti. E, prima di loro, Henry James ha messo a punto alcune delle svolte decisive del Novecento. Sono passati quarant’anni, ma gran parte di coloro che si occupano professionalmente di letteratura in Italia, sulle pagine dei quotidiani, nelle case editrici, nelle università e altre istituzioni culturali, non sembrano essersene accorti. A suonare di nuovo il campanello, ad avvisare della trasformazione provvede Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, in un piccolo e appuntito libro: La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale (Bollati Boringhieri, pagg. 128, €15). Secondo l’autore, per orgoglio di casta personaggi come Franco Fortini e Pietro Citati hanno continuato a riconfermare il paradigma incontrastato del sapere umanistico, anche quando appariva ormai privo di rilevanza. Sostenitori della letteratura come unico viatico di conoscenza piena e assoluta appaiono, a detta di Mazzarella, Asor Rosa, Giulio Ferroni, Claudio Magris, George Steiner, Marc Fumaroli, vestali di un’idea di «Belle lettere» tramontata da un pezzo. Mentre scrittori come Kundera e DeLillo, dopo Calvino e Borges, e poi Martin Amis, Houellebecq – ma anche Manganelli, Landolfi, Volponi e Gianni Celati – hanno dimostrato la fine dell’unico punto di vista, la dissoluzione della visione cartesiana, evidenziando nel contempo la porosità del reale e l’idea del caos non come disordine, bensì velocità di scorrimento del reale stesso, le istituzioni letterarie continuano a perpetuare un’idea conservatrice, se non proprio reazionaria. Usando Deleuze e Pierre Levy, sostenitori di una visione progressiva del virtuale («la virtualizzazione non è una derealizzazione, ma un cambiamento di identità»), Mazzarella scrive che la letteratura che non indaga tanto la realtà, quanto l’esistenza. Già Barthes nel 1970 parlava del testo come rete, luogo dalle molteplici entrate, senza gerarchie prefissate, in cui i codici si profilano «a perdita d’occhio». Il punto essenziale del libro consiste nel coniugare insieme letteratura e mondo visivo. Non necessariamente l’arte d’avanguardia – ormai annessa nel tempio della cultura, a cent’anni dal debutto – quanto piuttosto il «visivo» reputato di serie B: videogiochi, videoclip, l’arte mediale in Internet e nel web. La letteratura, fondata sulla lettura, sull’occhio, ha predisposto i tracciati su cui si è sviluppata l’idea contemporanea di visione, al di là degli stessi confini del libro. La proposta di Mazzarella è di riconfigurare l’interrelazione tra vecchi e nuovi media, come ci ha proposto Bolter in un volume cui nessun quotidiano, o pagina culturale italiana, sembra aver dato il peso che merita al momento della sua pubblicazione: Remeditation.
Per nostra fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani. Non tutto è perso”.

- – -

Cosa succede dopo?

Succede che Giorgio De Rienzo, legittimamente, sulle pagine de Il Corriere della Sera di sabato 19 gennaio 2008 interviene manifestando perplessità sul libro di Mazzarella e sul sostegno ricevuto da La Stampa attraverso gli articoli di Belpoliti e Baudino.-Vi riporto l’articolo di De Rienzo:

“Fa discutere il saggio di Arturo Mazzarella sulla letteratura dopo la rivoluzione digitale secondo il quale una serie di scrittori – Fortini e Magris tra gli altri – continuano a coltivare un’idea della scrittura letteraria, germinata dalla lettura di altri libri, come un viatico della conoscenza. Mentre altri indicano una via diversa in cui letteratura e comunicazione si toccano nella descrizione del caos non come disordine, ma come velocità di scorrimento del reale. Discorso complicato, la cui sostanza è questa: è in atto un mutamento che non si può arrestare, perché il trasformarsi della comunicazione emarginerà la letteratura che preferisce restare chiusa in sé.La Stampa, con servizi di Belpoliti e Baudino, in una rassegna svelta ricorda che Tondelli (maestro di almeno due generazioni di scrittori) dichiarò di “sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri”. Poi mette in campo la provocazione forte di Pietro Grossi, che confessa di dovere al “libro-game la propria passione per la letteratura, perché leggere libri è stata sempre una fatica”. A spremerne il sugo, nei nuovi scrittori c’è una tendenza in cui la cultura popolare, fatta di canzoni pop e blog, diventa una sorta di enciclopedia di riferimento. Stando ai fatti ci capita oggi di leggere scritti rumorosi di giovani emergenti, che eliminano il silenzio e la lentezza della vecchia letteratura. Confesso: mi sento irrimediabilmente passatista e reazionario. Credo che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare».

- – -

Il contrappunto di De Rienzo non passa inosservato e, pochi giorni dopo, viene ripreso da Nico Orengo sulla rubrica Fulmini di Tuttolibri del 26 gennaio.

Scrive Orengo: “Melanconico De Rienzo sul «Corriere», incupito dalle tesi di Arturo Mazzarella nel saggio «La grande rete della scrittura». Letteratura addio, non si fa nuova narrazione con la scrittura degli scrittori ma con quella pop, di rete, di blog, di libri-game e canzoni. Ma no, son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento. Il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo. Ogni tanto invece si ripresenta il gioco degli Apocalittici e integrati.”

-

Bene vi ho riportato i termini della “questio”.

Vi invito a rifletterci un po’ su e a intervenire provando a rispondere a questa domanda un po’ provocatoria: è piccola la letteratura della Grande Rete?

scrittura-rete.jpg

E poi, per favorire la discussione, ecco altre domande:

- Ha ragione Mazzarella nel sostenere che la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive?

- Ha ragione Berardinelli quando sostiene che “prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più”?

- Siete d’accordo con Belpoliti quando considera che per fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani?

- Oppure ha ragione De Rienzo nel sostenere che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare?

- E cosa pensate della tesi di Orengo, in base alla quale son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento? (Ovvero: il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo)?

A voi.

Massimo Maugeri

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martedì, 19 febbraio 2008

MEGLIO I LIBRI O I FILM TRATTI DAI LIBRI?

Letteratura e cinema sono molto legati. Lo sono sin dalla nascita del grande schermo. Un legame molto stretto, il loro.

Simbiotico.

Carta e pellicola che camminano mano nella mano per raccontare storie al mondo.

Bella immagine, vero?

Chissà se deve più il cinema alla letteratura o la letteratura al cinema!

Secondo voi?

Pensateci.

Quante volte vi è capitato di andare al cinema per vedere il film tratto da quel libro che avete tanto amato?

Quante volte, dopo aver visto un film che vi è piaciuto, siete andati ad acquistare il libro da cui è stato ispirato?

E vi è mai capitato di essere delusi da uno spettacolo cinematografico al punto tale da aver voglia di andar via prima della fine?

Magari vi è capitato, anche se poi siete rimasti perché avevate letto il libro. Così come è accaduto alla voce narrante (o meglio, cantante) della bellissima A day in the life dei Beatles.

I saw a film today oh, boy

The English army had just won the war

A crowd of people turned away

But I just had to look

Having read the book

Having read the book, canta John Lennon. “Avendo letto il libro” (perché avevo letto il libro).

Qui di seguito vi propongo il video.

Sì, ci sono film mediocri basati su romanzi stupendi. Così come ci sono libri deludenti che hanno ispirato film eccezionali.

Ma in generale… sono meglio i libri o i film tratti dai libri?

È meglio La terra trema di Visconti o I Malavoglia di Verga? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o quello del già citato Visconti?

Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Fino ad arrivare ai nostri giorni.

Parliamo di Caos calmo. Meglio il romanzo di Sandro Veronesi o il film di Grimaldi?

Vi rammento la trama del libro.

Pietro Paladini è un uomo apparentemente realizzato, con un ottimo lavoro, una donna che lo ama, una figlia di dieci anni. Ma un giorno, mentre salva la vita a una sconosciuta, accade l’imprevedibile, e tutto cambia. Pietro si rifugia nella sua auto, parcheggiata davanti alla scuola della figlia, e per lui comincia l’epoca del risveglio, tanto folle nella premessa quanto produttiva nei risultati. Osservando il mondo dal punto in cui s’è inchiodato, scopre a poco a poco il lato oscuro degli altri, di quei capi, di quei colleghi, di quei parenti e di tutti quegli sconosciuti che accorrono a lui e soccombono davanti alla sua incomprensibile calma. Così la sua storia si fa immensa, e li contiene tutti, li ispira fino a un finale inaudito eppure del tutto naturale.

Nanni Moretti riesce davvero a impersonare così bene Pietro Paladini, il protagonista della storia? Ve lo immaginavate così mentre leggevate il libro? Certo, se avete già visto il film – ma non avete ancora avuto modo di gustarvi il romanzo – credo che nel momento in cui inizierete la lettura il personaggio che vedrete con gli occhi della mente avrà per forza di cose la faccia di Nanni Moretti. E vi sembrerà strano immaginarlo dentro la macchina anziché seduto su una panchina.

E poi c’è un altro caso recente.

Io sono leggenda. Anche in questo caso mi viene da domandarvi: meglio il romanzo di Richard Matheson o il film dove il protagonista è interpretato da Will Smith?

Anche in questo caso vi rammento la trama del romanzo.

Robert Neville torna a casa dopo una giornata di duro lavoro. Cucina, pulisce, ascolta un disco, si siede in poltrona e legge un libro. Eppure la sua non è una vita normale. Soprattutto dopo il tramonto. Perché Neville è l’ultimo uomo sulla Terra. L’ultimo umano sopravvissuto, in un mondo completamente popolato da vampiri. Nella solitudine che lo circonda, Robert esegue la sua missione, studia il fenomeno e le superstizioni che lo circondano, cerca nuove strade per lo sterminio delle creature delle tenebre. Durante la notte Neville se ne sta rintanato nella sua roccaforte, assediato dai morti viventi avidi del suo sangue. Ma con il sorgere del sole è lui a dominare un gioco crudele e di meccanica ferocia, scandito dalle luci e dalle ombre di un tempo sempre uguale a se stesso e che impone la ripetizione di un rituale sanguinario. In questo mondo Neville, con la sua unicità, si è già trasformato in leggenda.

Parliamone.

(Massimo Maugeri)

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Vi ricordo che per fare quattro chiacchiere su argomenti vari la porta de la camera accanto è sempre aperta.

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lunedì, 28 gennaio 2008

LA VITA INCAGLIATA di Attilio Del Giudice

Sull’onda del filone “letteratura e infanzia, letteratura e adolescenza”, affrontato anche in altri post (vedi qui, qui, qui e qui) ne approfitto per presentare un’ulteriore piccola casa editrice – la Leconte - e uno degli autori del suo catalogo. Si tratta di Attilio del Giudice (1935), casertano, che vive a Santa Marinella (Roma). Del Giudice è stato pittore e filmaker, ha militato nei gruppi d’avanguardia attivi nella ricerca visiva degli anni 70 e 80 (alcuni suoi filmati sono stati selezionati per l’Archivio Storico delle Arti Visive della Biennale di Venezia e sono stati oggetto di studio e di esami al Dams di Bologna e nel corso di Storia del Cinema presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste). Dopo le raccolte di racconti (Eventi Precipitati, Storie Terrestri e Non), è approdato al Romanzo nel 1998 con Morte di un Carabiniere (ed. Minimum Fax), ha pubblicato, poi, nel 2000 Città Amara (ed.Minimum Fax), nel 2004 Bloody Muzzare’ (ed.Leconte) e nel 2006 La Vita Incagliata (ed. Leconte).

Oggetto di questo post è, appunto, il suo romanzo più recente (La vita incagliata): il protagonista è un ragazzino del Sud, figlio di un camorrista. Ce ne fa cenno lo stesso Del Giudice, qui di seguito.

Seguiranno alcuni brani estratti dall’opera e una recensione di Sergio Sozi.

Considerati anche i precedenti post che hanno affrontato il tema letteratura e infanzia o letteratura e adolescenza ne approfitto per lanciare un dibattito collaterale a quello che avrà per oggetto questo libro.

Vi domando: fino a che punto la letteratura è in grado di cogliere il disagio di infanzie e adolescenze turbate, se non dilaniate, dalla ferocia di certi ambienti sociali?

(Massimo Maugeri)

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di Attilio del Giudice

Ho pubblicato La Vita Incagliata (ed. Leconte) nell’aprile del 2006, il romanzo, con una postfazione di Francesco Piccolo, è costituito da cinquantadue capitoletti. Qui, nello spazio, che Massimo Maugeri mi offre su Letteratitudine, ne propongo quattro, fra i primi. Spero che possano introdurre il mondo di Nino (il protagonista e narratore). Li faccio precedere da una breve nota, (fu richiesta dall’editore per un risvolto di copertina), che è, in qualche modo, una dichiarazione di intenti.

Caro lettore, forse, prima di acquistare e leggere questo libro, prima di fruire di una qualche qualità espressiva, vuoi sapere quali siano state le intenzioni dell’autore. Si sa che le intenzioni sono una piccola cosa fallibile e un romanzo, una volta scritto, aspira ad andare oltre e a camminare per conto suo, ma per quel po’ che possono valere, te le dico in due parole.Ho inteso parlare di un ragazzino di dieci anni e, attraverso il suo linguaggio,della sua condotta psicologica: le inquiete morbosità di adolescente, la levità, gli affanni; attraverso i suoi affetti e i suoi rapporti umani, ho inteso parlare di una comunità contadina, arcaica in alcuni riti e valori, ma brutalmente ammodernata dalla cultura del sopruso e della violenza. Un concentrato di drammatiche contraddizioni, un disagio nella vita civile che investe intere regioni del Mezzogiorno. Questo non era il mondo della mia infanzia lontana (altre, semmai, furono le lacerazioni), ma mi sono convinto che gli scrittori del Sud e anche i più umili facitori di storie non possono eluderlo, se vogliono rinforzare le esili e scabre ragioni della scrittura narrativa col peso della realtà e cercare l’incontro coi lettori su un terreno più sicuro.

a. d. g.

http://attiliodelgiudice.wordpress.com

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LA VITA INCAGLIATA

Maestre

1

Da dieci giorni abbiamo una nuova maestra. La nuova maestra parla tischitoschi, perché viene da una città dell’Alta Italia che si chiama Forlì, e tiene la faccia uguale uguale all’Arcangelo Gabriele che sta pittato nella chiesa di Santa Rita, subito entrando a destra.La nuova maestra ci ha detto che faceva giusto un anno da quando ammazzarono a Vincenzino Laquaglia e il fratello più grande nel bar California.

Vincenzino Laquaglia era un nostro compagno, un tipo vispo, che rideva sempre e faceva, di nascosto, le pernacchie al Signor Direttore.La nuova maestra ci ha detto che nessuno, delle otto persone che stavano nel bar California, ha dichiarato ai carabinieri di conoscere gli assassini e che noi dovevamo scrivere le nostre riflessioni.

Io ho fatto le riflessioni e poi ho scritto: “Chi sa, deve parlare! Se no, è scurnacchiato.”

Ho fatto subito subito, così, dopo, mi sono messo a penzare a lei, alla nuova maestra.

Io la penzo sempre alla nuova maestra. Per esempio, penzo che stiamo noi due soli in campagna, e io ci dico che mio padre ci dà un sacco di mazzate a mia madre. E quella volta che io ci ho detto a mio padre: “Mo la vuoi finire?” lui dicette che ci avevo mancato di rispetto e mi dette le cinghiate sulla schiena, che ne tengo ancora i segni.

Allora, la nuova maestra vuole vedere le cicatrici, io alzo la maglia e lei si mette a piangere e mi dà un sacco di baci dolci dolci.

Invece Michele, che è il mio compagno di banco, dice che la nuova maestra è troppo secca e che a lui ci piace di più la maestra che ci stava prima.

La maestra che ci stava prima era chiatta e gridava sempre e, quando si arrabbiava con uno di noi, si faceva rossa rossa e diceva: “Mo ci hai scassato a minchia!”Però a Michele ci piace di più la maestra che ci stava prima, perché, quando si sedeva, teneva sempre le cosce aperte, che si vedevano pure le mutande.

——

Panna e cioccolata 2

Oggi è morta la nonna. Ieri sera stava una bellezza, invece, stanotte, nel tramente che dormiva, è morta. La mamma se n’è accorta per prima che non respirava più. Poi è scesa per preparare la zuppa di latte, café e savoiardi per mio padre, che è venuto a mangiare in cucina. Mia mamma piangeva e ha detto a mio padre: “E’ morta tua madre”. Mio padre subito s’è incazzato: “E che maronna, me lo dici mo che sto mangiando?”“E quando te lo dovevo dire? Io mo me ne so’ accorta”.

Mio padre ha finito di corsa la zuppa e poi è andato a vedere.

Mia nonna teneva settantadue anni. Cioè, lei diceva che teneva settantadue anni, ma mia madre dice che ne teneva settantasette. Però era molto scetata, e pure che era sorda come una campana, capiva tutte le parole, guardando il movimento della bocca, quando uno parlava. E tutte le volte che mio padre bestemmiava la Madonna, lei diceva: “Statti zitto, disgraziato, che Dio un giorno o l’altro ti fulmina!”

Io me lo aspettavo che Dio lo fulminava e ci penzavo sempre, specialmente quando pioveva e c’erano lampi e tuoni.Però, secondo me, Dio s’era un poco distratto, perché a mio padre non lo fulminava mai. Invece fulminai a Carmelo Cantatore, che stava raccogliendo le zucchine sotto la pioggia, se no marcivano. Carmelo Cantatore era uno bravo, con gli occhi celesti celesti e quando vedeva a mio padre, diceva sempre: “Don Alfo’, servo vostro, a disposizione, a disposizione!” Poi ho visto nella televisione che hanno fatto una legge per un tipo inzisto, che pure se ha fatto qualche reato, non deve essere punito. Allora, ho penzato che pure in cielo avranno fatto una legge che i tipi inzisti non devono essere puniti.

Mio padre è un tipo inzisto. Anzi, mo ti conto il fatto di don Salvatore, così si capisce che mio padre è un tipo inzisto pure lui.

Don Salvatore tiene un bar in paese in via Caduti sul Lavoro, dove ci sta la saletta del biliardo. Io ci vado qualche volta e mi metto a guardare i giocatori di biliardo, perché mi piace assai e appena mi faccio grande, voglio diventare giocatore di biliardo.

Sabato scorso, a giocare, ci stavano Murrone ‘u zuoppo e don Nicola Tariello, che sono due campioni e, ogni tanto, si sfidano e una volta vince uno e una volta vince l’altro e chi perde deve pagare o un café o un sanbittér.

Io mi ero preso un gelato di cioccolato con due palline, quelle che si fanno con la macchinetta e ci avevo fatto mettere pure un poco di panna e mi stavo allicreando a leccare e a guardare la partita.

A un certo punto, Murrone ha fatto un tiro veramente super. A tre sponde, ha preso il filetto e ha lasciato le palle impallate, che era una cosa sopraffina. Io mi sono un poco piegato sul biliardo per vedere bene come stava messo il pallino. Allora, don Nicola ha detto: “Guaglio’, levati alloca!” Io subito ho ubbidito, ma, nel fare la mossa di scatto, mi è caduto mezzo gelato sul tavolo.

“Mannaggia, non l’ho fatta apposta” ho detto io. Però, quelli, i giocatori, si sono un poco incazzati e hanno chiamato a don Salvatore per fare pulire il panno verde.

Don Salvatore, quando ha visto che là stava tutto sporco di cioccolata, ha detto: “Guaglio’ vattenne se no ti piglio a calci in culo!”

Il fatto che don Salvatore mi voleva pigliare a calci in culo, io ce l’ho contato a mio padre. Laperlà mio padre non ha detto niente, però ha fatto quella faccia brutta che fa quando sta con la luna storta e se la piglia con mia madre. Il giorno dopo, a prima matina, mi ha detto:”Guaglio’, vestiti, che dobbiamo uscire!”

“Dove andate a quest’ora?” ha detto mia madre.

“Sono cazzi nostri!” ha detto mio padre.

E così siamo usciti, io e lui. Lui camminava veloce e io ogni tanto mi dovevo fare una corsetta, se no rimanevo indietro. Siamo andati al bar di don Salvatore che apre presto, pure la domenica.

Don Salvatore stava a lavare per terra con lo straccio. Appena ha visto a mio padre, ha detto: “Don Alfonso, che onore! In che cosa vi posso servire?”

Mio padre ha detto: “Dammi una marsala e un cono di gelato al cioccolato!”

Don Salvatore ha messo il bicchierino di marsala sul bancone e ha dato il gelato in mano a me, che me l’ho messo a lecca’. Mio padre si è bevuto il marsala in un solo sorzo e, poi, ha detto: “Aspetta, non mangiare, vieni con me!” Mi ha portato nella saletta del biliardo e ha detto: ”Metti il gelato qua!” Cioè che lo dovevo mettere proprio al centro, dove si mette il birillo rosso. Don Salvatore stava là a guardare, allora mio padre ha detto: “Salvato’, mio figlio ha inguacchiato il biliardo. Tu che vuoi fare? Lo vuoi prendere a calci in culo?”

“No, no, nonziamai! – Ha detto don Salvatore, che ha capito subito – Io non lo sapevo che era vostro figlio. Perlamorediddio!”Allora mio padre ci ha dato due schiaffi in faccia. Uno con la palma della mana e un altro, veloce veloce, con la mana smerza. “Questo ti serve come avvertimento! E mo inginocchiati!

”Don Salvatore si è messo a ridere, ma no assai, un poco poco.

“Don Alfo’, ve lo giuro…”

Don Salvatore si capiva che si stava cacando sotto, ma non si inginocchiava ancora. Mio padre, allora, ha inzistito e ha detto: “Inginocchiati, omm’e merda!”Allora don Salvatore si è inginocchiato.

“E mo – ha detto mio padre – leccami le scarpe!”

Don Salvatore ha alzato la testa. “Lecca, strunzo!”

Forse don Salvatore avrà penzato: “Evvabé, mo mi trovo.”

E, così, ha leccato tutte e due le scarpe di mio padre.

——

E come vi permettete?

5

Quando mia madre cucina i supplì di riso coi piselli dentro, e i crocché con la mozzarella di bufala dentro, allora si capisce che deve venire l’Onorevole. Perché, all’onorevole, i supplì e i crocché, come li fa mia madre, ci piaciono assaissimo.

L’Onorevole, quando viene, viene sempre di sera tardi, pure passata mezzanotte, certe volte. Arriva con la biemmevù blu, lucida lucida.

Con l’Onorevole viene pure uno, un poco tarchiato, che lo chiamano: “U’ ragioniere”, che porta le lente scure, che non se le leva mai, pure di notte.La machina la porta l’autista, Vittorio, che lo chiamano: “U Bambinello”. Però, non è bambinello, anzi è un pezzo d’uomo e tiene pure un poco di panza.Quando viene l’Onorevole, a me mi mandano a letto, pure se non me ne tiene. Mia madre porta la robba da mangiare nella sala da pranzo e, poi, se ne va a letto pure lei, perché quelli devono parlare di certi fatti importantissimi.

Vittorio, u’ Bambinello, no. Vittorio deve restare in machina a aspettare.P

erò, quando fa caldo, Vittorio si leva la giacchetta, che si vede il cinturone con la pistola e si mette a camminare sopra e sotto, e a parlare col cellulare, e a fumarsi le sigarette.

Mia madre, prima di coricarsi, ci porta pure a lui un piatto con quattro o cinque supplì e quattro o cinque crocché e una birra.

Una volta, io stavo nascosto dietro il muretto del terrazzo e loro non mi potevono vedere, io, però, li vedevo bene, perché c’era la luna.

Allora, mia madre teneva le mane impegnate, perché teneva il piatto in una mana e la birra nell’altra mana. “Questo è per voi!” dicette mia madre.

Bambinello, invece di prendere il piatto e la birra, mettette tutte e due le mane sul culo di mia madre. Mia madre si scanzò un poco e dicette: “Vitto’, e come vi permettete?”

Vittorio si mettette a ridere e dicette: “Angeli’, con voi nessuno può resistere!” Poi si pigliai il piatto e la birra.

Mia madre si fece una risella e dicette: “Non lo dovete fare più!”

U’ Bambinello prima si mettette a ridere e, poi, si mettette a muovere la lingua, come se se la voleva leccare tutta quanta a mia madre. Però lei non l’ha visto che faceva la mossa, perché già s’era girata per entrare in casa.

Io ho penzato che se ce lo dicevo a mio padre, mio padre lo sparava a Bambinello. Però, se ci dicevo che mia madre non s’era incazzata molto e s’era fatto una risella, lui sparava pure a mia madre. E se il fatto della risella, non ce lo dicevo, lui sparava a Bambinello, ma chi sa quanti pugni ci dava a mia madre, che non ci aveva detto niente a lui.

Perciò mi sono stato zitto.

——

Un ottimo lavoro

6

Ieri sera tardi sono venuti: l’Onorevole, il Ragioniere e Bambiniello.

A me già mi avevano mandato a letto. Però, invece di nascondermi dietro il muretto del terrazzo, mi sono nascosto nella scala interna, che tiene una finestrella con la grata di ferro, che affaccia nella camera da pranzo, così di giorno entra un po’ di luce nella scala.

Ho aspettato che mia madre se ne andava a letto e senza fare rumore, piano piano, so’ sceso. Loro: mio padre, l’Onorevole e il ragioniere si sono abbuffati di crocché e supplì e si sono bevuti un sacco di birre. Poi mio padre ha levato dal tavolo i piatti e le bottiglie. L’Onorevole ha detto: “Allora, Alfo’, il materiale ci sta o non ci sta?”

“Ci sta, ci sta!”- Ha detto mio padre.

“E, allora, vediamo di che si tratta.” – Ha detto l’Onorevole.

Mio padre ha cacciato una chiave e ha aperto un armadietto, dove sopra ci sta il compactdisco, e ha preso un borza. Si è seduto, ha aperta la borza, che si apre coi numeri, e ha cacciato una busta rossa.“

Ecco il materiale!” – ha detto.

L’Onorevole ha aperto la busta e ha cacciato un sacco di fotografie. Si è messo gli occhiali e, appena ha cominciato a vedere le fotografie, ha detto: “Azzò! E questa, secondo me, non è ancora mestuata!”

Io questa parola non la so, però così ha detto. Sono sicuro, perché mio padre e il ragioniere parlano che si capisce e non si capisce, invece l’Onorevole parla forte, perché lui è abituato a fare i comizi in piazza e si capisce ogni parola.

“E qua – ha detto – si vede bene pure la penetrazione. Alfo’, questa quanti anni potrà avere?”

“Tredici, quattordici al massimo.”

“Noo! – Ha detto l’Onorevole – Quattordici non li tiene, e, forse, nemmeno tredici.”

Il Ragioniere si è andato a mettere dietro all’Onorevole, per vedere bene pure lui e ha detto: “Però, Onore’, a onor del vero, tiene nu bellu culillo!”

“Ah, su questo non ci sono dubbi. E’ invitante.”Allora si sono messi a ridere tutti e tre. Poi si sono messi a vedere le altre fotografie e, ogni tanto, dicevano: “Azzo!”

“E noi – Ha detto l’Onorevole – con questa robba lo teniamo in pugno, lo incastriamo una volta per sempre”.

Pareva contento l’Onorevole e ci ha detto a mio padre: “Bravo! Bravo Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro!”

Si vedeva che pure mio padre era contento.

Mio padre all’onorevole ci porta rispetto. L’Onorevole ci dice a mio padre: “Mi raccomando, Alfo’, non fare cazzate!” E mio padre non si incazza e ride un poco e risponne: “Non vi preoccupate, Onore’, state tranquillo!” Dice così, perché ci porta rispetto. Però, questa volta, l’Onorevole non ci ha detto:” Non fare cazzate!” ma ci ha detto: “Bravo, Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro, così il fetente sta in mano nostra completamente e senza spargimento di sangue.

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Modeste glosse a La vita incagliata di Attilio del Giudice (Leconte, Roma 2006)

di Sergio Sozi

Di questi tempi, leggere la nuova narrativa italiana è come fare una scelta di campo, soprattutto dal punto di vista linguistico: o con l’abusato, sciatto, impersonale italiano medio di molti, o nelle intricate vie lessicali dei realisti – o di chi al realismo s’ispira in un modo o nell’altro. Pochi autori stanno fuori da questi due schieramenti o dimostrano acume interpretativo, pur restando nei ”correntoni” attuali.Dunque, sarà perché il sottoscritto (almeno come narratore) non riesce a soggiacere a questa banale miseria generalizzata; sarà per via di una simpatia istintiva che queste pagine inducono in me; o forse sarà a causa della mia convinzione secondo cui ogni opera contemporanea debba esser vagliata alla luce della Storia Letteraria italiana. Ne sia quel che ne sia il motivo di fondo, credo di non dire una sciocchezza a cuor leggero se ora dichiarerò la riuscita operazione drammaturgico-letteraria consistente nella quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice, scrittore casertano prima in forza alla casa editrice romana Minimum Fax e ora pubblicato dalla, sempre capitolina, Leconte. E come mai rappresenterebbe un’operazione drammaturgico-letteraria, questo La vita incagliata? Diversi sono i motivi per vederlo cosí: l’aspetto drammaturgico sono i capitoli-sequenza, scritti nel proprio diario dalla voce narrante, il bambino campano Nino: dei quadretti di quotidiana sopravvivenza che tanto ci rimandano visivamente al neorealismo di Pasolini. L’aspetto strettamente letterario è l’accuratezza della scrittura, poiché resta chiara l’elaborazione letteraria dei termini dialettali campani, trascritti con le giuste regole segniche dell’elisione eccetera. Le forme espressive dialettali (largo uso dell’erroneo ausiliare ”avere”, del pronome personale ”ci” per ”gli”, ecc.) sono veraci e credibili. Nel complesso ne risulta un italiano esteticamente vicino a quello di Gadda e Camilleri – mutatis mutandis naturalmente.

Ma il vero lato interessante di questa tristissima e commovente storia risiede nella violenza della quale è intrisa la vita di Nino, nove anni d’età (un bambino che sarebbe l’alter ego di Giamburrasca – tanto egli resta scanzonato e puro – se non gli fosse toccata la malaugurata sorte di aver un padre brutale e delinquente in un’Italia del Sud tremendamente novimillenaria): la violenza e le connesse perversioni qui divengono quasi una pagana accettazione della bruttura moderna, quasi come se l’incontro con uno schifoso riccone pedofilo (Al Mitreo, p. 67) fosse la rievocazione di un rito, appunto, concernente il dio Mitra. Il fondamentale particolare che, però, priva di fascino mitico la violenza serpeggiante in primo piano nel corpo di questi racconti, sta nella deficiente intelligenza del mondo in cui Nino, anima candidissima, nuota senza provarne disgusto: una provincia ottusamente autoreferenziale (direi autistica), depressa e affamata di spersonalizzazione e denaro, una provincia che non vede l’ora di dimenticare qualsiasi propria origine antica per buttarsi anima e corpo nella pomposa straniazione filo-americana. Niente di diverso rispetto alla provincia lombarda, umbra o sarda, dopotutto. Dunque niente di nuovo rispetto all’Italia post-bellica: violenza, sradicamento e solitudine di massa.

Dunque, in questo senso, La vita incagliata non straborda, per fortuna sua, nel mero ritratto della decadenza, processo spirituale e storico che purtroppo vediamo anche senza andarci a leggere dei libri che lo descrivano; appunto, il neorealismo che ne costituisce le fondamenta evita di cadere nella trappola dell’esagerazione e dell’iperbole ma ricorre piuttosto (secondo me salvificamente) alla letteraria tenerezza, alla poetica dolcezza con le quali Nino acquisisce il suo vero volto spirituale: quello, all’apparenza neutro come un foglio di carta bianco, che ci offre la soluzione per i mali italiani profondi e piú labirintici: resistere dentro, solo dentro di noi – nel limbo della nostra complessa, atavica semplicità – a questa brutale privazione del vissuto collettivo che ci costringe a rinunciare alla cura dell’infanzia (soprattutto a quella che abbiamo sempre viva nel cuore) in favore di una stonata idea della vita adulta.

E un indiretto manifesto della malsana crescita (degli altri, di molti altri italiani), questo romanzo-centonovelle dipinge, a veder bene, per mezzo della buona crescita che (alla faccia delle circostanze aberranti) il nostro Nino forse avrà. Anzi che sicuramente avrà, sempre che riesca a sopravvivere al padre insanus senex da cui è maltrattato e agli altri stolti. Molto plausibilmente noi tutti, gli adulti. Adulti solo nell’egoismo e nell’inciviltà.

Sergio Sozi

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lunedì, 3 dicembre 2007

BAMBINE, TRA LETTERATURA E VITA

Molto ambizioso questo post.

Proviamo ad affrontare un tema complesso e delicato coinvolgendo alcuni libri e le rispettive autrici.

Il tema è il seguente: bambine, tra letteratura e vita. Un tema di forte attualità, ma – in fondo – antico. Attorno a esso girano problematiche varie e irrisolte.

Ospiti di questo post sono: Dacia Maraini, Loredana Lipperini, Catena Fiorello, Beatrice Masini, Elisabetta Lodoli, Elena Ferrante.

Un post al femminile, dunque. Un post di donne scrittrici, che hanno trattato – con i loro libri – tematiche riguardanti le bambine. Mi piacerebbe parlarne con voi nell’ambito di un grande dibattito, insieme – ripeto – alle autrici citate.

A ognuno dei libri presentati ho affiancato una sorta di sottotema per favorire le possibilità di discussione e confronto.

(Massimo Maugeri)

——

BuioDacia Maraini, autrice notissima, nel 1999 ha vinto il Premio Strega per l’ottima raccolta di racconti intitolata “Buio” (Rizzoli). Dodici storie che raccontano della violenza sull’infanzia e sull’adolescenza. Sono pagine che raccontano fatti realmente accaduti, storie di “ordinaria follia” in cui le vittime sono i più deboli: donne e bambini.

Castaldi, su L’Indice dei libri del mese, n. 7, del 1999 ne ha scritto così: “Buio, come dice il titolo, è una raccolta di racconti che testimoniano dell’oscurità del mondo contemporaneo che sembra consegnarsi alla catastrofe, attraverso le guerre, la pedofilia, la prostituzione infantile, l’uccisione di donne inermi, la violenza carnale operata sui figli dai genitori stessi. Le vittime sono quasi sempre donne, bambini, immigrati: i più deboli nella società del benessere. Molti episodi sembrano o sono tratti da articoli giornalistici. Ma forse proprio questo distacco permette all’autrice di fabbricare con l’arma letteraria un tessuto di azioni e reazioni dei suoi personaggi in cui sempre spicca la dinamica aguzzino-vittima che, come nei campi di concentramento, dove l’autrice è stata internata da bambina, crea una connivenza di surreale complicità, perchè, in mancanza di tutto, cioè in presenza del niente, anche un aguzzino può essere qualcosa, un riconoscimento di quella identità che proprio da lui è stata annullata, come succede nell’ultimo racconto in cui la bambina Agatina viene avviata alla prostituzione dalla nonna vistosa e ancora piacente. Alla storia di Agatina si affiancano altre terribili storie, quella del bambino Grammofono ucciso da un pedofilo, quella della bambina albanese Vollca, inebetita dall’alcol e dagli stupefacenti perchè si prostituisca. (…) Da “Voci” (Rizzoli, 1994), il precedente romanzo della Maraini, torna la figura della commissaria Adele Sòfia. (…) La commissaria, attraverso le sue indagini, cercherà di tessere il filo degli eventi per ricomporre la violenza in un tessuto riconoscibile. Ma il tessuto si slabbra, il narrato si spezzetta in racconti (…)”.

Propongo il libro della Maraini per il tema: bambine e violenza.

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Loredana Lipperini ha appena pubblicato il saggio “Ancora dalla parte delle bambine” (Feltrinelli), riprendendo il soggetto di un libro pubblicato negli anni Settanta da Elena Gianini Belotti. Da allora le cose non sono cambiate granché, secondo la Lipperini. Le bambine di oggi somigliano molto a quelle di ieri. Le eroine dei fumetti le invitano a essere belle. Le loro riviste propongono test sentimentali e consigli su come truccarsi. Nei loro libri scolastici, le mamme continuano ad accudire la casa per padri e fratelli. La pubblicità le dipinge come piccole cuoche. Le loro bambole sono sexy e rispecchiano (o inducono) i loro sogni. È vero. I libri, film e cartoni propongono più personaggi femminili di un tempo: ma confinandoli nell’antico stereotipo della fata e della strega. Sembra legittimo chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi trent’anni, e come mai coloro che volevano tutto (il sapere, la maternità, l’uguaglianza, la gratificazione) si siano accontentate delle briciole apparentemente più appetitose. Così ne ha parlato Giovanna Zucconi su La Stampa: “Che cosa non può mancare nella tua borsetta? Le gomme da masticare. Un lucidalabbra. Un fermaglio per i capelli. Ma certo, sacrosanto, grazie per avercelo ricordato: il lucidalabbra è indispensabile, dona un’aria glamour. Mentre per ciglia da cerbiatta, com’è universalmente noto, occorre il piegaciglia. Niente di strano. Così fan tutte, così san tutte, o quasi. Solo che questo prontuario di cosmesi e seduzione è dedicato a bambine di quattro anni. Così piccole che una borsetta potrebbero (dovrebbero?) non averla, per non dire del piegaciglia. È un libro per mini-lettrici, o forse ancora neppure lettrici, legato al cartone animato Trollz. A quattro anni le donne non leggono, però consultano Crea il tuo look e mettono il lucidalabbra. The devil is in the details, direbbero gli inglesi. Sono i particolari a svelare. Ma non è soltanto il diavolo ad appassionarsi ai dettagli. Osservando meticolosamente piccini e adulti, nel 1973 Elena Gianini Belotti, insegnante montessoriana, pubblicò Dalla parte delle bambine, per dire che la differenza fra maschi e femmine non è innata ma frutto dei condizionamenti sociali e culturali. Trentaquattro anni dopo, oggi, Loredana Lipperini, giornalista, setaccia puntigliosamente fumetti, riviste, moda, pubblicità, televisione, e pubblica Ancora dalla parte delle bambine. Studiando quello che con termine orribile il marketing chiama re-genderization: ossia il ritorno ai generi, alla differenza. (…) Le fatine Winx, fenomeno del momento, sfoggiano un’impeccabile french manicure e le labbra gonfie come celebrities di Mtv. Le bambole Bratz portano pantaloni a vita bassa. È come se giornaletti e cartoni animati bombardassero i bambini maschi di cinque anni con schiuma da barba, anabolizzanti, tagliasigari. (…)”

Trovate approfondimenti qui.

Propongo il libro della Lipperini per il tema: bambine tra mode e modelli “imposti”.

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PicciriddaCatena Fiorello è autrice del romanzo “Picciridda” (Baldini Castaldi Dalai) ambientato nei primi anni Sessanta in un paesino, Leto (Letojanni), posto lungo la costa della Sicilia orientale tra Messina e Catania.

I genitori della piccola Lucia si trovano costretti a emigrare in Germania e decidono di portare con loro solo il più piccolo dei due figli affidando “la grande” (Lucia), sebbene pur sempre picciridda, alla nonna paterna dal carattere burbero.

La bambina vive questa sua condizione sentendosela addosso come un marchio negativo. È consapevole, Lucia, che per lei – e per tutti coloro che non sono figli “della gallina bianca” – la necessità implica sacrificio e rinunce. Lo sa bene. Lo dicono tutti. Lo ripete la nonna. Ma qual è il prezzo che bisogna pagare? E fino a che punto il gioco può valere la candela?

Lucia non può che accettare la situazione e concentrarsi sul rapporto, non sempre facile, con la nonna, la quale deve tenere le redini di questa famiglia sui generis, spezzata dalla temporanea assenza della generazione di mezzo e ridotta a un rapporto a due. E allora giù con gli ammonimenti e con i rimbrotti, ché male non fanno.

Nella parte finale del libro, nell’epilogo, incontriamo la Lucia dei nostri giorni: una donna che, ormai realizzata, ha chiuso i conti con il passato (un passato che, come il lettore avrà modo di scoprire leggendo, è macchiato da un evento traumatico e inatteso). L’epilogo chiude le sottotrame aperte nel corso della narrazione. Rimane aperta, invece, la coscienza di doversi misurare con “un passato che pare riproporsi, oggi, in un’altra veste, ma con lo stesso triste spirito…”

E il ricordo dei genitori e dei sacrifici sopportati diventa occasione d’accusa per additare una vergognosa condizione di disagio che, mutati attori e palcoscenici, si ripropone con scenari simili.

Trovate qui curiosità e approfondimenti.

Propongo il libro della Fiorello per il tema: bambine tra emigrazione e disagi

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Che fata che seiBeatrice Masini ha pubblicato di recente il volume “Che fata che sei” (Einaudi ragazzi). Una raccolta di racconti di fate pensati per un pubblico di bambine. Ci sono fate della tradizione popolare, come la fata dei dentini, e di tradizioni più alte, come la banshee scozzese; fate vere, come quelle di Cottingsley che tre ragazzine riuscirono a fotografare nell’Inghilterra degli anni Venti, convincendo anche Arthur Conan Doyle dell’esistenza di piccoli esseri alati; fate leggendarie, come Melusina dal corpo di serpente che viveva immersa in una fontana, nel profondo del bosco; fate maleducate; fate che stentano a trovare la loro vocazione nel grigiore della vita quotidiana contemporanea… Un po’ per sfatare (già) il mito che debbano essere per forza creaturine zuccherose, tutte scintillii e paillettes; un po’ per ridare loro la dignità che meritano.

Sono fate dai poteri inaspettati, capaci di entrare nella vita quotidiana e di compiere magie non comuni: la fata babysitter, che si occupa con piena soddisfazione di due bambini, la fata fuori moda che indossa sempre una tutina, la fata cavalcatopi che al posto del solito unicorno preferisce spostarsi a bordo di un umile topo bianco. Fate che stanno “dalla parte delle bambine” di oggi e che devono affrontare le difficoltà e le sfide della vita quotidiana.

C’era una fata che aveva letto troppi libri di fiabe e si era fissata su un certo tipo di abbigliamento che le fate del nostro tempo non usano più. A lei piacevano i cappelli a cono, con la punta alta alta e un ciuffo di tulle fissato in cima, oppure quelli a tricorno che la facevano assomigliare a un bufalo col vestito della festa; e poi le gonne ampie e fruscianti lunghe fino ai piedi, le scarpe con la punta arricciata che si legavano alla caviglia coi nastri, e i mantelli, oh, andava pazza per i mantelli, soprattutto se erano orlati di pelliccia. Be’, lei si vestiva così, anche se ovviamente questo stile antiquato la impacciava molto nei movimenti…”

Propongo il libro della Masini per il tema: bambine tra fate di oggi e di ieri

——

Elisabetta Lodoli, autrice del volume “Il mare non è il mio mare” (Fabbri), racconta la storia di Sewa: una ragazzina irrequieta che si troverà ad affrontare una serie di problemi tutt’altro che trascurabili. Sewa viene dallo Sri Lanka e giunge a Roma per ricongiungersi con i genitori, immigrati per ragioni di lavoro. Inserirsi in una grande città straniera non è facile per lei, che è già grande al suo arrivo. La ragazzina compie, così, un viaggio alla scoperta della metropoli romana. Certo, al suo arrivo tutto è estraneo, e sembra inevitabilmente ostile, a cominciare dall’amato litorale: “Questo mare qui non è bello come il mare al paese mio. Lì al paese mio non è mare, è oceano, trasparente a riva, poi azzurro, blu, sempre più blu come il cielo. La sabbia è bianca, granulosa, luccicante, zucchero che s’appiccica ai piedi.” Ma sono ormai solo ricordi quelli della propria terra, un passato intriso di dolce serenità ormai incompatibile con il presente che maltratta la sua anima come il suo paese, straziato dalle catastrofi naturali: “Quanto tempo è che non vede il suo mare? Due anni? Quasi tre. Non era in Sri Lanka quando il suo mare si è infuriato tanto da risucchiare via la costa, le case, le persone, gli animali… Il suo ricordo è fermo al mare pacifico dell’infanzia e da lì non vuole spostarsi, anche se ha visto le immagini, terribili, in televisione.”

E così la nostalgia e la sfiducia si incontrano e scontrano con la necessità di adattarsi al nuovo paesaggio naturale, sociale, e umano della Capitale, in un’emozionante percorso di ricerca dell’integrazione per trovare un proprio posto nel mondo tra mille difficoltà, accresciute dalle complicazioni naturali dell’adolescenza.

Propongo il libro della Lodoli per il tema: bambine straniere e integrazione

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Elena Ferrante, ha da poco pubblicato il volume “La spiaggia di notte” (Edizioni E/O).

Miriam Ravasio lo ha recensito per Letteratitudine.

Il tema di questa fiaba di Elena Ferrante è la paura, non timore e ansia per ciò che è noto o ignoto, quindi comune e riconosciuta, ma sentimento oscuro; paura, resa nella sua forma più astratta e per questo, ignota. Un frammento di scrittura, poche pagine, per un messaggio forte: come riconoscere il passaggio che segna la fine dell’età dei giochi e l’inizio del lungo e faticoso percorso dell’adolescenza? Chi ci aiuta, se sulla spiaggia veniamo abbandonati ai loschi traffici di un mondo crudele? Che apre la bocca, mangia la cacca, beve la piscia e la beve liscia. Canta così, il Bagnino Crudele del Tramonto.

Niente parole / Solo tagliole / Senti che pace / Se tutto tace

Chi ci aiuterà a sfuggire agli ami del Grande Rastrello? Ai suoi colpi di spazzola?

La bambola Celina, abbandonata sulla spiaggia dalla mamma-bambina Mati, affronterà la notte, il fuoco caldo che poi brucia, si abbandonerà alla speranza dell’Onda e alla fine sarà tratta in salvo. Il suo annullamento non avverrà! Né dentro, né fuori!

Svuota la gola / Resterai sola

Al termine della notte, in sé e attorno a sé, Celina trova la forza del lieto fine, e riabbraccerà la sua MA-MA SÌ- MAMMA.

Nelle case dei nonni, al buio giocano le cose; nella tristezza tutto si trasforma in anima. Invece qui al mare, è solo alla luce del sole che la sopravvissuta Celina ritrova le voci e i “nomi” simpatici. Al buio tutto brucia, non c’è poesia, nemmeno con lo Scarabeo.

E’ un testo a disposizione, un regalo per mamme e figlie, perché il Bagnino Crudele del Tramonto non muore, resta là, in compagnia del Grande Rastrello, ad aspettare altri bottini, altre pance e gole da svuotare per vendere i tesori al Mercato delle Bambole.

Ti pungo il cuore / Finché non muore.

Fedele a sé stessa, Elena Ferrante, scrive per le donne, non in contrapposizione all’altro genere, ma perché, grandi o piccole, bambole o bambine, la femmina è madre, generatrice, è terra che ospita la vita. Pragmatica, la scrittrice insiste: che si abbia figli o no, che si deciderà di averne oppure no, ogni donna è responsabile, nel suo rapporto di madre e figlia, verso il senso della vita. Ogni figlia è madre e viceversa; Celina e Mati imparano, guardando al futuro nella proiezione di un gioco. Bambina che cresce, è donna che “si sorveglia”. La spiaggia di notte è una fiaba, ha un lieto fine ed è per tutte le età. Il rischio corso dalla protagonista si legge come un’allegoria dello sbaglio, pedagogia della paura; lo smarrimento che segue un’azione, la paura per l’ignoto, la caduta causa ed effetto, la risalita e il riconoscimento.

Accanto al muro / S’è fatto scuro…

Se condivisa fra piccoli e grandi, come fra Mati, Celina e il maschile Minù, la paura aiuta. Perché il Tesoro da proteggere non è un Anello, un simbolo del male da gettare nel fuoco, ma un patrimonio di Parole, un progetto di crescita comune. Le illustrazioni di Mara Cerri scandiscono il racconto con precisione e forte partecipazione emotiva; colori scuri, polverosi, impalpabili come la sabbia più fine e insidiosa, avvolgono la bambola e il suo smarrimento. I primi piani del viso danno il ritmo alla storia e sono l’interpretazione più viva della turpe filastrocca, che, per l’inquietudine dei lettori, si snoda fra le pagine. Propongo il libro della Ferrante per il tema: bambine tra età dei giochi e adolescenza

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