La letteratura è più arte o artigianato?
Si basa più sul guizzo creativo o sull’affinamento dei ferri del mestiere?
È più ispirazione o… “trucco”?
Queste domande mi sono venute in mente dopo aver visionato l’ottimo libro di Mariano Sabatini “Altri trucchi d’autore”, edito da Nutrimenti.
Si tratta della seconda puntata di un viaggio alla scoperta dei segreti dei grandi scrittori. Dopo il primo, fortunato Trucchi d’autore, Sabatini ci presenta qui cinquantadue nuove interviste che svelano costumi, riti, ossessioni di molti nomi di punta della narrativa italiana e internazionale. L’indagine entra questa volta anche nelle scelte più proprie della scrittura: come si costruisce un personaggio o una storia. E ancora il rapporto con gli editori, il racconto degli esordi, i consigli agli aspiranti scrittori. Un avvincente percorso esplorativo che va da Brizzi a Moccia, passando per Cunningham, Mazzucco, Orengo, Parrella, Buttafuoco, Camon, Ferrante, Deaver, Santacroce, Lansdale, Veronesi e molti altri.
Vi invito a rispondere alle domande poste all’inizio del post e a interagire con l’autore del volume, che parteciperà al dibattito.
La “nostra” Maria Lucia Riccioli, che conosce Sabatini e ha letto il libro, mi aiuterà a condurre e a moderare il post.
Di seguito potrete leggere l’introduzione e due interviste ad autori doc: il premio Pulitzer Michael Cunningham e il premio Strega Sandro Veronesi.
Massimo Maugeri
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Mariano Sabatini, 36 anni, giornalista, in passato ha firmato programmi di successo (Tappeto volante, Parola mia, Unomattina) e lavorato per quotidiani e periodici. È critico televisivo del quotidiano Metro e rubrichista per Eva Tremila e Affari Italiani. Scrive su Italia Oggi. Partecipa come opinionista in tivù e collabora con varie radio. Nel 2001 ha pubblicato La sostenibile leggerezza del cinema (Esi) e nel 2005 Trucchi d’autore (Nutrimenti).
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LA CARICA DEGLI SCRITTORI
di Mariano Sabatini
Se anche lontanamente avete a che fare con il mestiere di scrivere, foste pure scrivani di strada, statene pur certi: ci sarà sempre qualcuno che, pur di lusingarvi, vi definirà scrittore.
Mi è capitato sovente, partecipando a numerose trasmissioni radiofoniche e televisive per parlare dei precedenti Trucchi d’autore, che presentandomi al pubblico, mi definissero scrittore; oppure che tale dicitura apparisse nel cosiddetto sottopancia, testo che si materializza in sovrimpressione sul piccolo schermo quando le telecamere inquadrano un qualunque professionista. Non è vero: non mi ritengo uno scrittore, almeno per il momento mi basta considerarmi un giornalista, un cronista, uno che scrive insomma. E che, per somma ammirazione nei confronti degli scrittori puri, si mette al loro servizio per raccontarli nei loro aspetti più intimi legati al mestiere.
Mi sono convinto a collazionare Altri Trucchi d’autore, confortato dal piccolo successo del primo volumetto sui metodi di lavoro dei più grandi, apprezzati, letti, amati romanzieri italiani e non solo. “Un libro sul mestiere di vivere da scrittori”, come ha scritto a proposito di Trucchi d’autore Antonio D’Orrico sul Magazine del Corriere della Sera. L’attenzione che la precedente pubblicazione ha suscitato, tanto presso i lettori quanto presso la stampa, testimonia la larga diffusione del sogno della scrittura. Chi, oggi, non ha un romanzo o un racconto nel cassetto!? Cassetto inteso come reale o anche solo immaginario. Tutti scrivono e tutti credono di aver diritto al titolo. Se è vero che “L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati”, come sosteneva Leo Longanesi, chi ha il famoso romanzo sul desktop del pc è il primo a gridare: “Presenteeee!”.
Il nostro, per parafrasare un antico modo di dire, è un Paese di santi, poeti navigatori e… scrittori, romanzieri, novellieri della domenica. Ma essere scrittori, oltre alle interviste e alle presentazioni mondane (quando, però, si tratti di creatori di best seller, beninteso), comporta anche grandi sacrifici, una vita ai limiti del monastico, solitudini dolorose, la sottomissione a una rigida regola, a una disciplina e a un rituale a cui non tutti sono in grado di sopravvivere.
Che cos’è un rituale, lo spiega meravigliosamente la volpe al piccolo principe, nel celebre passo sull’addomesticamento nel libricino di Saint Exupery che ha fatto sognare generazioni di lettori: “Se ogni giorno arriverai alle quattro, io dalle tre comincerò ad aspettarti…”. E allora, a cosa giovano e a cosa servono i rituali per chi scrive? Il rito è, dal punto di vista etimologico, un ordine che si fa, un ordine in divenire: non un ordine dato, immutabile, finito, ma un ordine che si autoproduce. Immaginiamoceli, dunque, i nostri scrittori preferiti, mentre ogni giorno, nel momento a ciascuno più congeniale, si apprestano ad iniziare il lavoro: scelgono la musica o spengono il cellulare, aprono una finestra o guardano una scultura… Alcuni sono superstiziosi, come Giorgio Faletti, un romanziere che con Io uccido ha venduto oltre un milione e mezzo di copie e che, rivelando di lavorare a un romanzo ambientato in Arizona, una storia sugli indiani Navajo, ha dichiarato: “Il titolo lo rivelo solo quando l’ho finito, per scaramanzia”. Il titolo sarà poi, come ben sanno gli appassionati, Fuori da un evidente destino.
Dovendo credere al grande Georges Simenon: “Scrivere non è una professione ma una vocazione all’infelicità”. Allora pubblicare e avere visibilità significa inghiottire rospi grossi come lattonzoli. Il quotidiano La Stampa, commemorandone la scomparsa, ricordava il rapporto problematico di Oriana Fallaci con il suo lavoro: “Ogni mio libro è un urlo di odio per la morte e un grido di gioia per la vita. (…) Non chiedetemi il perché di tutte le cattiverie che hanno scritto sui miei libri. Ogni volta che succede io mi chiedo, smarrita, sgomenta, incredula: ma perché? Non appartengo a nessun partito, non appartengo a nessun gruppo o meglio a nessuna mafia letteraria. Non parlo mai di nessuno, non insulto mai i libri degli altri. Se sono brutti, non dico mai che sono brutti. Non dico nemmeno: non mi piace. Non lo dico perché conosco la fatica tremenda che ogni libro, bello o brutto che sia, costa. E mi riconosco in quella fatica, rispetto quella fatica. (…) Scrivere è il mestiere più faticoso del mondo. Io a scrivere mi stanco, anche fisicamente. Mi stanco come un facchino, come un minatore, come quelli che fanno un mestiere pesante. Eppure non posso fare a meno di scrivere”.
E già, chi scrive e ne trae soddisfazione (notorietà o addirittura fama, soldi, autorevolezza, inviti nei salotti, sconti nei ristoranti o chissà cos’altro…) deve fare i conti con gli aspetti meno noti, o più onerosi, del mestiere. In molti ricordano Thomas Harris, quando durante le udienze contro il presunto mostro di Firenze, Pietro Pacciani, prendeva diligentemente appunti, come l’ultimo dei praticanti giornalisti locali. L’ autore del celeberrimo Silenzio degli innocenti è infatti uno che usa approfondire la materia trattata nei suoi romanzi. Per scrivere Black sunday, storia di un attentato terroristico contro gli States organizzato durante la fine del campionato di football, studiò il terrorismo islamico ben prima dell’attacco alle torri gemelle.
Non temete, cari aspiranti scrittori, di dover svolgere altri mestieri per assemblare il pranzo con la cena. Oggi vanno più che mai di moda i romanzieri pescati dalle professioni più disparate: magistrati (Carofiglio, De Cataldo…) o avvocati (Filastò, Agnello Hornby…), insegnanti (Oggero, Scurati, Perissinotto…), registi (Camilleri, Comencini…), giornalisti (Augias, Colaprico, Varesi, Soria…), e via dicendo. La letteratura non dà il pane, sostenevano i latini, e più che mai nel Novecento, secolo poveri di mecenati. Alla ricerca dell’agiatezza, o magari solo per campare, gli scrittori del Novecento si sono indaffarati nei mestieri più vari. Il mestiere più prestigioso lo ha praticato Malraux, che è stato ministro, dopo aver rubato statue kmer in Cambogia. Jack London ha collezionato infiniti mestieri e fu, per esempio, fiociniere su baleniere dell’Artico. Colette aprì nel 1932 un istituto di bellezza. Lawrence d’Arabia fu, oltre al resto, scaricatore di carbone a Porto Said e trasportatore di cammelli sull’Eufrate. Céline fu a Ginevra e nel mondo Technical Officer della società delle Nazioni. George Orwell dalla Polizia Imperiale in Birmania passò a miserrime condizioni, come lavapiatti e barbone. Saint-Exupéry riteneva che il suo vero mestiere fosse l’aviatore e questo lo portò, tra l’altro, alla morte. Italo Svevo, per fare il grande industriale, smise di scrivere: gli bastava una riga per renderlo inetto al lavoro pratico per una settimana. E l’ingegner Gadda, per la revisione del Pasticciaccio, fu mantenuto da “mamma Rai”. Il reporter Frederick Forsyth, ex collaboratore di Reuters e Bbc, ha scritto Il giorno dello sciacallo mettendo a frutto il lavoro di corrispondente da Parigi, e Dossier Odessa servendosi delle informazioni raccolte in Cecoslovacchia su alcuni gerarchi nazisti. Scott Turow ha inventato il legal thriller ma non ha mai smesso di indossare la toga. E a Chicago, al 77esimo piano della Sears Tower, il grattacielo più alto del pianeta, manda avanti un importante studio legale: “I codici, i processi, le aule di giustizia sono le cose in cui credo. Non potrò mai abbandonarli”, dice. Tra un’arringa e l’altra, Turow sta preparando il sequel del suo primo thriller di successo, Presunto innocente. Ma la sua vera anima qual è: quella di scrittore o di avvocato? Gli chiede Francesco Fantasia del Messaggero: “Il cuore mi spinge verso la letteratura, la mente verso i codici”. Il nostro Alberto Bevilacqua arrivato a Roma da Parma, avendo oltretutto già cominciato a scrivere narrativa, lavorò alla cronaca nera del Messaggero e, prima di passare alla redazione cultura, dovette indossare per sei mesi gli scomodi panni dell’inviato nella guerra del Congo.
Le vie della narrativa, si può dire, siano infinite. Tanto che sempre Forsyth per esorcizzare la sua claustrofobia ha scritto Il vendicatore in cui agisce un veterano del Vietnam, abile tunnel-rat, uno di quei militari che percorrevano i cubicoli sotterranei scavati dai vietcong.
E’ nato a Parigi, il seguitissimo Christian Jacq, ma la sua patria d’elezione è l’Egitto. Fin da adolescente ha amato questo Paese sopra ogni altro, tanto che decise di laurearsi in archeologia ed egittologia alla Sorbona. Più tardi, nel 1995, la sua passione per le piramidi e i faraoni lo ha spinto a scrivere Ramses, romanzo incentrato sulla figura di Ramsete, best seller in tutto il mondo. Da adolescente comprò La storia dell’Egitto antico, un’opera in tre volumi che comprendeva anche traduzioni di poesie, leggende e molte fotografie. Per lui fu una rivelazione: “Sarei assolutamente incapace -racconta – di scrivere storie fantascientifiche sul tipo del film La mummia, completamente avulsi dal contesto realistico. Anch’io attingo all’immaginazione, ma se descrivo un dialogo tra Ramses e un dignitario so che si sono parlati in quel modo perché mi rifaccio ai documenti in cui questo è descritto. Lo stesso vale per le cene, i riti e le scene di vita quotidiana”. Questo il suo metodo, ognuno ha il suo.
Per creare la protagonista di Pura vita , Andrea De Carlo ha osservato molto sua figlia, oggi ventenne, ha ascoltato i suoi discorsi. Lui finisce per lavorare nelle ore in cui gli altri sono in ufficio. A parte il lavoro di preparazione, scrive due ore di mattina, due di pomeriggio. Nella casa in campagna vicino Urbino ha una stanza con una bellissima finestra ad arco che gli consente di allontanare lo sguardo dalla pagina. Si veste comodo e, se non fa freddo, ama stare a piedi nudi. “Mi dà un senso di libertà”, dice. Esce, cammina per mezz’ora, un’ora nella natura oppure taglia legna. Torna con energia rinnovata. Ogni tanto mangia cioccolato amaro. Persino la tivù “a volte è fonte di ispirazione su certi ambienti o personaggi”. Non tiene musica in sottofondo perché nelle interruzioni suona la chitarra. Scrive al pc portatile (“La penna permette la riflessione, la macchina da scrivere obbliga a dei passaggi che non corrispondono al modo di pensare, il pc è plastico, garantisce un’infinità di elaborazioni”) e a fine giornata ha pronte tre pagine in media. A volte una, a volte cinque. Per gli appunti: ”Scrivo sul retro dei fogli usati. Sono contento che la Einaudi e poi la Bompiani abbiano aderito ad un’iniziativa in cui sono coinvolto con Greenpeace e hanno pubblicato i miei romanzi su carta riclicata”. All’inizio si accaniva, era assalito dall’ansia, ora rispetta l’istinto, “Due di due l’ho iniziato e, dopo due capitoli, lasciato per due anni”. E non riuscirebbe a finire un libro lasciandolo tutto nel computer. Deve avere la pagina su cui lavorare a penna: ”E’ un lavoro di stratificazioni, in media riscrivo tutto quattro volte, a ogni passaggio dialoghi e personaggi acquistano nitidezza. Di solito la prima stesura è come un legno sbozzato. Lavoro sulle parole, sottraggo aggettivi”, racconta.
Sottrarre sembra essere la parola magica di chi vuole scrivere per mestiere. Potremmo, per convenzione, ribattezzarla la legge del taglione. Talvolta gli scrittori o, meglio ancora, gli aspiranti tali si affezionano più a una frase o a un intero paragrafo dei propri elaborati che al loro fedele cane scodinzolante. E mi riferisco al “migliore amico dell’uomo” per non spingermi fino a mettere in dubbio l’attaccamento al fidanzato o alla compagna di vita. Sta di fatto che la sintesi, oggi, appare indispensabile a chiunque voglia avere un futuro editoriale degno del nome. Marilù S. Manzini (già autrice di Io non chiedo permesso, protagonisti ricchi mostruosi, tra stupri, sesso e droga) per Il quaderno nero dell’amore ha dovuto sforbiciare molto le iniziali seicento pagine del dattiloscritto, tagliando molte scene di sesso, poi riproposte sul sito della Rcs.
Nessuno, neppure i trapassati, potrà sottrarsi a un severo editing e alla già citata legge del taglione. Pensate infatti all’inarrivabile Lev Tolstoj: la potente casa editrice Harper&Collins ha pensato bene di togliere seicento pagine delle originarie millequattrocento circa di Guerra e pace, per alleggerire la nuova edizione proposta al pubblico. Il lavoro di riduzione, come racconta Enrico Franceschini su Repubblica, “elimina tutte le pagine in cui l’autore fa parlare i suoi personaggi in francesce, la lingua dell’aristocrazia russa del tempo, ed elimina pure i capitoli, spesso intervallati a quelli di azione sulla campagna di Napoleone per conquistare Mosca, in cui Tolstoj filosofeggia sulla guerra, sul destino dell’uomo, sulla fede e sull’amore. Risvolti secondari e trascurabili, per quelli della casa editrice londinese. E pensare che oltre centoventi scrittori americani, inglesi e australiani avevano inserito il capolavoro russo del 1865 tra “i dieci migliori libri di tutti i tempi”. Certo quelli di Harper&Collins avranno pensato però che dovendo scegliere un romanzo da portare su un’isola deserta (magari frequentata dai famosi…), meglio che sia leggero. Avvisati, dunque. Siate severi con voi stessi, cari scrittori, tagliatevi senza pietà o, purtroppo, ci penseranno altri. Anche dopo centoquarant’anni.
Siate severi, ma giusti. Non trastullatevi nel vagheggiamento di un futuro da narratore. Solo scrivere può insegnarvi a scrivere. In Altri Trucchi d’autore, troverete, a tal proposito, tante testimonianze di romanzieri in piena attività che dimostrano verso se stessi un’obiettività ai limiti dell’intolleranza, grazie alla quale possono consegnare alle stampe storie apprezzate da schiere di lettori.
Individuare il proprio metodo di lavoro è fondamentale, e magari si può cominciare proprio imitando gli scrittori che ce l’hanno fatta. Come l’ormai mitica J. K. Rowling, ideatrice del maghetto Harry Potter, che ha incassato ben ottocento milioni di euro in diritti d’autore, tra editoria, cinema e merchandising.
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LE RISCRITTURE INFINITE DI MICHAEL CUNNINGHAM
Vive a New York, lavora in uno studio che è a quindici minuti circa dal suo appartamento, Michael Cunningham. “Quando sono a New York, ci vado ogni giorno, faccio le scale fino al sesto piano, cosa che aiuta a mantenere la flessibilità dellle ginocchia”, racconta. “Nel palazzo abitano solo vecchie signore, nel cortile si vedono stesi dei panni di biancheria piuttosto impressionante!”.
Lo scrittore è volato a Roma per promuovere Giorni memorabili (Bompiani), la storia di un dodicenne costretto a prendere il posto del fratello Simon nella fonderia in cui ha perso la vita. È un ragazzino dotato della capacità di sentire la voce delle macchine e decifrarne i messaggi.
Il suo studio?
La mia stanza è molto comoda, senza vista, piena di cose, oggetti, ci sono libri ovunque. Le persone mi regalano cose di tutti i tipi, compresi i souvenir a forma di palla con la neve.
Scrivo su un enorme tavolo di legno, molto rovinato.
Computer o macchina per scrivere?
Uso il computer. Amo il mio pc, non sono in generale molto tecnologico, ma lo schermo del pc mi sembra fantastico, un punto di mezzo quasi magico tra la pagina e la mia consapevolezza. Lì, di fronte a me, piccole parole liquide e blu, che esistono e non esistono, malleabili. Per me sono molto meglio di una penna che gratta il foglio, o delle dita che martellano i tasti di una macchina da scrivere.
Fa delle pause?
Quando lavoro, lavoro, quando non lavoro, non lavoro. Non faccio pause, non c’è tv, tolgo la suoneria al telefono e lascio la segreteria: mi possono lasciare un messaggio. Non guardo le e-mail se non dopo tre o quattro ore, quando ascolto anche i messaggi.
Metodo di scrittura?
Riscrivo all’infinito, scrivo una frase e la riscrivo, e la riscrivo. Alla fine del giorno, ho bisogno di stampare, qualunque cosa abbia combinato durante la giornata. Altrimenti, non mi sembra vero. Uso carta molto economica.
Musica di sottofondo?
Ascolto musica nel mio studio. Ogni giorno, quando arrivo, metto su qualcosa. Spesso ascolto, quando scrivo, cose diverse a seconda di quello a cui sto lavorando. Può essere il Requiem di Mozart, può essere Laurie Andreson, i White Stripes, Anthony and the Johnsons… Il ritmo, la musica delle parole è importante, per me, quanto il loro significato.
Le idee migliori dove nascono?
Ho bisogno di preservare un minimo di stato di isolamento. E quando ho finito, ho finito, esco, penso ad altro, non prendo appunti, se sono in un caffè, non mi metto alla ricerca di un tovagliolo sul quale scrivere idee che ho paura di dimenticare.
I suoi personaggi sono presi dalla vita reale?
Ma certo, sì! E le dirò di più… un po’ tutti i miei personaggi c’est moi. Se un personaggio non fosse almeno in parte autobiografico, non so se riuscirei a scriverne.
Cosa ruba dalla realtà?
Io sono gay e sono uno scrittore. Voglio usare la mia esperienza per scrivere i libri migliori, per quanto mi è possibile. E credo di avere una prospettiva più ampia, perché, stando un pochino al di fuori del mondo, riesco forse a vederlo meglio. E quindi proprio la mia esperienza come gay forse mi permette di scrivere di persone molto diverse tra di loro.
Libri per ispirarsi?
Leggo continuamente. A volte gli scrittori dicono che devono stare attenti, per non farsi influenzare. Io penso invece che se leggo Garcia Marquez e ne vengo influenzato… va bene. Ascolto e leggo più che posso.
Come usa i libri?
Non ho mai collezionato libri, non sono un bibliofilo, non mi importa dell’aspetto esteriore di un libro. Se i libri vengono usati, macchiati, annotati, per me va bene.
Scrive come agli esordi o il suo approccio al lavoro è cambiato?
È cambiata la mia vita, non ho più ansie legate alla sopravvivenza. Il rapporto con la scrittura non credo possa cambiare davvero. Del resto, non esiste un modo di scrivere definitivo e statico, per un artista. Si impara sino all’ultimo giorno, e la nostra scrittura non è che un continuo perfezionarsi, pagina dopo pagina.
Anche lei confida nella disciplina?
Non esistono segreti fondamentali per diventare grandi autori, tutto si scopre lavorando con costanza, con sofferenza, con passione. Il pittore Monet, quando morì, stava lavorando a cercare di riprodurre il suono delle canne spinte dal vento. È una cosa che mi commuove. Quando penso a me come scrittore, vorrei poter dire lo stesso e poter vivere come visse Monet: affamato di imparare ogni giorno di più il mio mestiere.
Con quale stato d’animo legge le recensioni?
Non le leggo. L’ho fatto per lungo tempo, e ho smesso. Non saprò mai raccomandare abbastanza questa scelta. Le recensioni buone sono utili, gratificanti. Quelle negative scoraggianti. Per me tutto ciò è fuorviante. Non bisogna badarci.
I suoi lettori?
Il tuo libro, buono o cattivo che sia, vive soprattutto grazie ai lettori, e grazie a loro durerà molto più a lungo dei suoi critici.
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L’ALAMBICCO DI SANDRO VERONESI
Il grosso del lavoro è avvenuto, come sempre, nell’inconscio di Sandro Veronesi: “Io posso solo dire che il romanzo ha cominciato a esistere nella mia testa quando si sono incontrate un’idea e una reminiscenza”. L’idea, che rappresenta il nucleo di Caos calmo (Bompiani), di un uomo che passa tutto il giorno davanti a una scuola e la reminiscenza di un remoto salvataggio in mare compiuto veramente dallo scrittore e dal fratello. Veronesi, che sostiene di non avere il privilegio di poter scegliere, scrive la mattina, perché può solo la mattina. In camera da pranzo, poiché non ha uno studio ma solo tavolino inglese molto bello “che mi ha regalato tanti anni fa Vincenzo Cerami e rimane il pezzo d’arredo più prezioso della mia casa”.
Macchina per scrivere o computer?
Computer. Navigare su Internet mi aiuta in vari modi. Mi permette di perdermi, e da persi si scrive meglio.
Fa delle pause quando lavora?
Ne faccio tantissime, con tutte le scuse possibili. Soprattutto quando sta filando tutto liscio.
Sfizi, generi di conforto?
Quando fumo, sigarette.
Musica di sottofondo?
Di continuo. Ascolto la roba scaricata da Internet. A volte scarico mentre scrivo.
Le idee migliori come nascono?
Per me nascono scrivendo, evocate dall’atto stesso di scrivere.
Disciplina o ispirazione?
La disciplina è ispirazione.
La creatività si esaurisce?
Non ne ho idea.
Blocchi, incubo della pagina bianca?
Non mi fa più paura. Le pause sono forse meno dolorose dello scrivere.
Libri per ispirarsi?
Evito accuratamente di leggere i libri che m’influenzerebbero negativamente, per una questione di stile. Per esempio, scrivendo Caos calmo ho evitato di leggere Carver.
Per quale scrittore prova invidia?
David Foster Wallace.
A cosa sta lavorando?
A un romanzo.
Metodo di scrittura?
Lavoro molto per decidere tempo e persona di narrazione,nel senso che faccio prove e prove. Poi, quando ho deciso, vado avanti il più regolarmente possibile, senza struttura, senza sapere bene cosa scriverò. Però di solito so più o meno dove voglio andare a parare.
Quando un personaggio può dirsi ben delineato?
Quando comincia a venirmi a noia.
Ha mai ‘rubato’ ad altri?
Sì. In genere si tratta di ritmo compositivo, stacchi dialogo/didascalie, eccetera. Ci sono dei maestri, nel mondo.
Hanno mai ‘rubato’ a lei?
Non ne ho idea.
Le capita di rileggersi?
No.
In quanto tempo è pronto un suo romanzo?
Parecchi anni, in genere.
Hai mai buttato un intero dattiloscritto che non la soddisfaceva?
Intero no. Metà sì.
La semplicità nello scrivere: meta o punto di partenza?
Le cose difficili, semplificale. Quelle semplici, complicale.
Meglio tagliare una frase inefficace o tagliarsi un dito?
Le frasi inefficaci non dovrebbero nemmeno esser scritte. Se sono davvero inefficaci e non si riesce a non scriverle, tagliarle è facile. Il problema è che le frasi non sono quasi mai inefficaci.
Quante pagine produce in un giorno?
0,75 circa, di media.
Scrivere è faticoso?
Doloroso, più che altro. Per me.
A chi fa leggere in anteprima?
Prima avevo una persona, ma non l’ho più. Ne devo trovare un’altra.
Lo stile?
Intervengo su tutto. Ci vogliono parecchi passaggi all’alambicco della correzione, perché una mia pagina diventi buona.
La correzione delle bozze che momento è?
A quel punto il mio lavoro è già fatto.
Accetta i consigli dell’editore?
Sì, li accetto. Nel primo romanzo l’editore mi disse che il romanzo cominciava a pagina cinque, e io tagliai le prime quattro pagine.
I critici?
Credo di avere avuto abbastanza fortuna, con la critica. Ma dinanzi a una recensione non mi stupisco, né lusingo, né tanto meno offendo più da molto tempo. Mi piace quando qualcuno trova qualcosa che stava nascosto nel mio libro e che nemmeno io avevo trovato.
Sa chi sono i suoi lettori?
Quelli a cui non piace quello che scrivo sono lo stesso miei lettori? Perché ovviamente non vengono a dirmelo, e io non ho mai modo di conoscerli. Conosco solo i lettori che si fanno avanti per farmi i complimenti, ma non è che posso considerare miei solo quelli. No, non so chi sono.
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AGGIORNAMENTO DEL 6 GIUGNO 2008
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INTERVISTA A MELANIA MAZZUCCO, vincitrice del premio Strega 2003 (per gentile concessione di Mariano Sabatini e della casa editrice “Nutrimenti”)
LA STANZA CHIUSA DI MELANIA MAZZUCCO
Il suono di una sirena che squarciava il silenzio di una notte, a Roma, parecchi anni fa: Melania Mazzucco si è chiesta che cosa gridasse. Se chiedeva aiuto, se qualcuno stava morendo e si poteva salvare, se qualcuno aveva solo fretta di tornare a casa. Stava passando un’ambulanza o era la volante della polizia? E cosa era successo? “Tutto era accaduto in una stanza chiusa, sigillata contro di me come sempre le vite degli altri – spiega l’autrice di Un giorno perfetto (Rizzoli). – E io volevo entrare in quella stanza. Gli scrittori non fanno altro. Sono io l’intruso, il poliziotto scelto che sfonda la porta dell’appartamento di via Carlo Alberto”.
Per lei la scrittura ha qualcosa a che fare con la notte, col buio che libera i demoni e restituisce la libertà ai sogni. Perciò di solito comincia a scrivere nella seconda metà del giorno. Nel riquadro della finestra, alla sinistra della scrivania, vede appassire il sole e scendere l’oscurità. “A poco a poco è come guardare un quadro interamente nero. Questa essenzialità mi riconcilia con le parole, e con il loro significato più vero. Scrivo finché vado a letto, molto tardi”.
Il suo studio è di una semplicità totale. C’è un tavolo col ripiano di vetro, la scrivania dove si affastellano quaderni, agende, fogli volanti e microscopici brandelli di carta su cui appunto liste di parole, aggettivi e nomi. Ci sono due librerie rigurgitanti libri e carte, una piattaia da cucina che ha riconvertito in archivio e un vecchio mobile-grammofono degli anni Quaranta, l’unico oggetto che ho ereditato dalla nonna. Per terra, c’è una colonna friabile, sempre sul punto di franare. Sono lettere, alcune vecchie anche di un anno o due o perfino di più: “Il ritardo con cui rispondo è sempre scandaloso. Sono una pessima corrispondente”.
Il tavolo che storia ha?
Quadrato, col ripiano di vetro. Nero. Anni fa, era il mio tavolo da pranzo. Quando sono andata a vivere da sola, mi sono concessa il lusso di comprarmi solo due cose: il letto, un tremendo letto di legno, di quelli che si montano con la sparachiodi, e quel tavolo con sei sedie, dallo schienale altissimo. Ancora oggi, non ne ho altre.
Usa il computer?
Fin dal 1986. Il computer, peraltro, non l’ho mai cambiato ed è ancora quello – col sistema operativo dos. La mia prima macchina da scrivere, una vecchissima Olivetti M40 che mi regalò mio padre e su cui scrissi la mia prima sceneggiatura nel 1975, è diventata un soprammobile.
A mano non scrive niente?
Ho scritto il mio primo racconto a mano, e tutti i miei appunti li prendo a mano, come una copista medievale. Però ho scelto presto il computer. Ci siamo piaciuti al primo istante. Solo lui aveva la velocità dei miei pensieri. E in effetti lo considero un’estensione della mia mente. Ma questo non ha niente a che vedere con la creatività. Se non lo avessero inventato, avrei continuato a ticchettare sulla Olivetti, o a scrivere a mano, con la matita. L’unica differenza, forse, riguarda i filologi: per loro sarà difficile lavorare sulle varianti dei romanzi scritti al computer. I computer hanno la memoria corta.
Le pause dalle sessioni di scrittura?
Mai. Mi incollo alla sedia come una conchiglia allo scoglio. L’immobilità mi libera la mente, mi consente una specie di beatitudine zen. Un giorno, però, mi metterò a contare quante sigarette si è aspirato Un giorno perfetto. Grosso modo, per quattrocento pagine, direi uno scaffale del duty-free. È una considerazione allarmante.
Musica di sottofondo mentre scrive?
Sempre. Di solito la radio, per la precisione Radio Globo o RDS, le uniche che, nella zona della città oscurata dai ripetitori di radio più potenti, riesco a captare. La musica techno mi è congeniale. Però metto anche i miei cd preferiti – Moby, Portishead, Radiohead, Primal Scream, Fat slim boy, Amalia Rodriguez, Cecilia Bartoli, qualche volta anche musica da camera di Fauré e Franck. I musicisti italiani, che pure amo, non posso ascoltarli per via delle interferenze che la comune lingua provocherebbe. Nei giorni di mood malinconico, metto anche Le nozze di Figaro e la Norma.
Il telefono e il cellulare?
Accesi, ma non rispondo mai. Una vecchia storia dice che uno scrittore romano… chi era, Orazio? Ovidio? Petronio?… faceva dire alla sua schiava: non sono in casa. E se la schiava non c’era, lo diceva lui stesso: “Non sono in casa”. Beh, faccio qualcosa del genere.
Le idee migliori dove nascono? C’è un modo per evocarle e favorirle?
Non saprei rispondere. A volte in sogno. A volte nel dormiveglia, a volte parlando con qualcuno, ma anche nei momenti morti della giornata, su un autobus, aspettando davanti a un cinema, guardando fuori dalla finestra, camminando su un sentiero di montagna. Forse le idee nascono dal vuoto, per una sorta di effetto di osmosi. Io mi concentro molto anche quando corro sul tapis-roulant: mi guardo nello specchio davanti alla macchina e non vedo me stessa, ma i miei pensieri.
Rituali di inizio e fine lavoro?
Non ne ho nessuno. L’unico gesto che compio sempre è accendere il computer, all’inizio. Mi piace il suono di quel click. È come accendere la mente.
Disciplina o ispirazione, cosa serve di più?
L’ispirazione è disciplina e viceversa. L’una favorisce l’altra, l’una sabota l’altra. Bisogna essere abbastanza sconsiderati per ignorare le trappole della disciplina, e abbastanza umili per accettare i limiti dell’ispirazione.
La creatività si esaurisce?
Fatemi di nuovo questa domanda fra dieci anni.
Blocchi, incubo della pagina bianca?
Siccome non sono una che si mette a scrivere perché deve timbrare il cartellino, non mi metto mai davanti allo schermo se non ho una storia da raccontare, una frase da correggere o un personaggio cui trovare un corpo e un nome. Eludo i periodi vuoti semplicemente non scrivendo. A volte questi periodi di astinenza durano mesi, perfino un anno.
Libri per ispirarsi?
No, è impossibile. Il ritmo e lo stile delle frasi degli altri può restare in mente, e influenzare il proprio. Nei periodi in cui scrivo leggo pochissimo, e spesso solo di argomenti attinenti a quello sul quale sto scrivendo, per studio diciamo. Mi rifaccio nei lunghi mesi di astinenza dalla scrittura. Allora sono una belva onnivora, divoro mattoni in pochi giorni, affamata.
Prova invidia per qualche collega?
L’invidia è l’unico peccato capitale che non ho praticato mai. Invidiare qualcuno significa ammettere una propria mancanza e sono troppo orgogliosa per stimarmi tanto poco. L’ammirazione invece è un sentimento che mi assale spesso. Perciò potrei nominarne tantissimi. Tutti gli scrittori che ho amato da quando ho cominciato a leggere, perciò da sempre. Alla fine, per non farla tanto lunga, posso dire che ammiro la creatività anagrafica di Dumas e Balzac, la concisione di Jane Austen, la leggerezza di Stendhal, il genio di Bulgakov, lo sterminato periodare di Proust, i personaggi bambini di Elsa Morante, i malvagi di Dostoevskij e, per nominare qualche vivente, la cultura di Ghosh, l’ironia di Esterhazy, la stralunata visionarietà di Ransmayr.
A cosa sta lavorando?
È uno di quei periodi in cui non scrivo. Sono in archivio da quasi due anni, sto inseguendo, a volte rintracciando e a volte perdendo, una bellissima storia dimenticata, che sarà il mio prossimo romanzo.
Vuole provare a descrivere il suo metodo di scrittura?
Riempio dozzine di quaderni, taccuini, foglietti, anche se non sempre utilizzo ciò che annoto. Del resto spesso semplicemente non lo trovo, perché gli appunti non hanno un indice. C’è un aggettivo che mi piace tanto – coriaceo – che volevo inserire in Un giorno perfetto.
E non l’ha fatto?
Credo di averlo dimenticato, perché è ancora lì, appuntato su un foglietto che ancora mi guarda da sotto il portacenere.
Fa delle scalette?
Scrivo la prima versione di un romanzo senza scaletta, senza conoscere il destino dei personaggi, e mai in ordine cronologico, dall’inizio alla fine. Ma sequenza per sequenza, a seconda della tensione del momento, di solito molto rapidamente. Per evitare equivoci, chiarisco che rapidamente per me significa cinque, sei mesi.
Quante pagine produce in un giorno?
Non produco niente, è una parola che non mi piace. Comunque non vorrei mai produrre pagine. Non sono una macchina né un’industria, semmai un artigiano geloso che cura con amore gli oggetti che escono dal suo laboratorio. Non sono regolare, non mi impongo obiettivi.
Allora, diciamo quanto riesce a scrivere.
Nei momenti “dionisiaci” posso scrivere anche quaranta pagine tutte di seguito, come in una sorta di scrittura automatica. Nei momenti “apollinei”, quando correggo, rivedo e sono per così dire in fase di montaggio alla moviola, in un giorno è già tanto se ne limo una.
Per lei, scrivere è faticoso?
Per me è un’attività fisica e naturale come respirare. Coinvolge tutti i cinque sensi… per non parlar del sesto. Scrivere è il tatto delle dita sulla tastiera, l’olfatto teso alla ricerca mentale degli odori di cui stai parlando, la vista delle parole che galleggiano sullo schermo e delle cose che vedi davanti a te e in realtà non ci sono, e così via. Perciò è faticoso, sì, ma anche meraviglioso, come vivere.
Scrittori si nasce o si diventa?
Chi era che disse “diventa ciò che sei”? Forse era Socrate, o Epicuro o sant’Agostino, e se non era nessuno di loro, chiedo loro perdono di averli scomodati per tanto poco. Credo non si possa comunque spiegare meglio il percorso che ognuno di noi deve seguire per conoscersi. Bisogna trovare dentro di noi la cosa che ci appartiene, ed è solo nostra. Se è la scrittura, prima o poi, emergerà, e diventeremo ciò che siamo sempre stati, senza saperlo.
A chi fa leggere in anteprima?
Alla persona che ho scelto e che è la parte migliore di me.
Per raggiungere lo stile desiderato?
Intervengo su tutto. Il ritmo di una frase, l’aggettivo attaccato a una parola come un parassita, un verbo inappropriato, una descrizione generica, un dialogo che non suona, una digressione che bisogna proprio sopprimere.
Rilegge molto?
Mi rileggo ossessivamente per mesi, anni a volte, ma poi, quando ho pubblicato un libro, non mi rileggo mai senza vero disagio. Il testo diventa quello di un altro. Ovviamente, se mi rileggessi, continuerei a trovare qualcosa che mi è sfuggito, sbavature ed errori: la scrittura è un processo potenzialmente infinito.
Nel senso che potrebbe lavorare su un testo anche a distanza di anni?
Nel senso che anche lo stile cambia: ciò che a vent’anni mi sembrava stupendo, non mi pare più così oggi. Io vivo e cambio, e i miei libri vivono e cambiano con me. Però l’imperfezione rende vivo un libro. Le sue asperità, i suoi stridori, lo restituiscono al mondo.
Rilegge ad alta voce?
Sempre. Ho imparato a farlo fin da ragazzina, essendo cresciuta nella casa di un uomo di teatro. Guardavo gli attori leggere il copione, e le parole cadono subito nel vuoto quando la battuta è sbagliata. Così oggi se una pagina non suona, non funziona e la elimino.
Idiosincrasie linguistiche?
Sono ossessionata dai luoghi comuni. Non mi perdono quando ne scrivo uno non intenzionalmente, per farne parodia.
Come sceglie le parole?
Ah, sono avida di parole, le colleziono, le riesumo e a volte le invento. Mi piacciono gli strafalcioni e gli slittamenti di senso, i dialetti, i gerghi specialistici. Con una passione per quello medico. Scandaglio le lingue straniere, le parole in agonia che nessuno usa più e quelle celibi, che sono state usate una volta sola. Nessuna parola mi pare inutile, brutta o indegna. Aspiro all’orecchio assoluto per le parole.
Alla correzione delle bozze interviene molto?
Sono il terrore dei redattori. Sono stata una redattrice anch’io, perciò sono rimasta una cacciatrice di sviste e refusi. Ma continuo a correggere il testo anche stilisticamente, e strutturalmente, fino all’ultimo momento, quando sta per andare in stampa.
Accetta i consigli dell’editore?
Ho tagliato di seicento pagine il mio primo romanzo, Il Bacio della Medusa, che nella versione originale ne contava millecento e giustamente nessuno lo avrebbe mai pubblicato. Ho soppresso alcuni capitoli di Lei così amata, perché troppo digressivi rispetto alla vicenda. Mi confronto volentieri con l’editore, non ho la pretesa di avergli consegnato un testo sacro.
Legge gli articoli e le recensioni su di lei?
Le leggo sempre con molto ritardo, le lascio decantare in modo che il loro potere di offesa o lusinga sia attutito dal tempo. Così, a memoria, posso ricordare che mi piacque quando mi definirono “eccentrica” rispetto al panorama della narrativa contemporanea, quando scrissero che ero nata per narrare e che avevo uno stile fluviale. Una critica tedesca disse che ero come un uragano e mi divertì questa definizione perché sono nata l’anno dell’alluvione di Firenze e sento di avere qualcosa a che fare con l’acqua.
Offese?
Mi sentii ferita quando scrissero che avevo uno stile cinematografico, che mettevo troppi dettagli, consolandomi perché a Mozart dicevano che metteva troppe note, che ero troppo brava e questo mi avrebbe impedito di scrivere un bel romanzo. Mi ha piacevolmente sorpresa leggere delle belle recensioni uscite in paesi stranieri – Canada, Spagna o Olanda – e scoprirmi capita da qualcuno che vive realtà molto diverse dalla mia, che non mi conosce né mi conoscerà mai, che mi valuta solo attraverso le mie parole, alla fine la parte più vera di me.
Chi sono i suoi lettori affezionati?
Le persone più disparate, e questa mi pare la meraviglia della letteratura. Ragazze e pensionati, insegnanti e detenuti, professionisti e operai. C’è stato anche qualche lettore eccellente, il cui apprezzamento mi ha profondamente emozionato, ma non ho la volgarità per fare il suo nome. Finora, la mia lettrice più giovane ha dieci anni, è una ragazzina sensibile e speciale a cui auguro ogni bene. La più anziana ha compiuto ieri cento anni, è una vispa signora di favolosa arguzia, che sa tutto della vita. Non dimentico mai le parole che mi dicono i lettori, e alcune le tengo per me, come i miei ricordi più belli.
Com’è arrivata a farsi pubblicare?
Quando ho cominciato a far leggere il manoscritto del mio primo romanzo, tutti mi dicevano che avrei dovuto pubblicarlo. Io ho esitato, perché avevo paura di espormi, e sapevo quanta gioia e quante ferite mi sarebbe costato diventare per il mondo una scrittrice.
E quando si è decisa?
Poi hanno esitato anche gli editori. Mi hanno respinta con convinzione per tre anni. Alla fine, qualcuno mi ha apprezzato e mi ha fatto un’offerta. Siccome non sono vile, dopotutto, ho trattenuto il fiato e mi sono lanciata. È cominciato così.
Consigli a un giovane o vecchio aspirante scrittore?
Essere se stessi e non credere che conformarsi alle attese degli altri serva a qualcosa. Non demoralizzarsi per i rifiuti che inevitabilmente verranno, e saranno dolorosi, come se qualcuno ti accoltellasse un figlio. Né soffrire per i tempi lunghissimi, epocali, perché può essere interminabile l’attesa prima che un libro trovi la sua strada.
L’umiltà è utile?
Certo, bisogna accettare, a volte, il rifiuto, e comprenderlo. Imparare dall’errore e non avere paura di riscriversi, di cambiarsi, anche di rinunciare a una storia che ci sta a cuore per scriverne un’altra, completamente diversa. I manoscritti a volte si perdono, ma non muoiono: il parere sferzante di un lettore può diventare l’entusiasmo di un altro, e dalle ceneri di un romanzo che morirà inedito può nascere un romanzo che troverà migliaia di lettori.
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