lunedì, 11 maggio 2009
FUORI GIOCO di Salvatore Scalia
Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.
Mi chiedo, e vi chiedo…
I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?
Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?
Fare squadra ha ancora senso?
La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?
E qual è il rapporto tra successo e felicità?
Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)
Massimo Maugeri
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“Fuori gioco”. Un libro di Salvatore Scalia.
di Simona Lo Iacono (nella foto)
E’ notte. La ferita del cavòlo è uno spartiacque. Un’apertura che s’infigge tra la macchia. Che separa il regno dei vivi da quello dei morti.
Dalla sua bocca spalancata affiorano vecchie risate di magare, raspi di animali e fantasmi stanchi di girovagare. Destini che si accingono a compiersi – come quello di Paolo Malerba – tra le ombre.
E per questo non si stupirebbe, Paolo Malerba, di vedersi già lì, tra le foglie che profumano di tane nascoste, come un predestinato, o come un viandante di questo regno a metà tra luce e buio. Un Caronte, forse, che si trascina da una riva all’altra.
Non si stupirebbe neanche di riflettersi nelle rarefazioni serali, di cogliere nel globo della luna una vaga somiglianza con la propria vita, con la palla che lui spintona tra le erbe, sui campi di calcetto, dribblando tra compagni sudati, tesi a raggiungere la rete come in punto di morte.
Non si stupirebbe.
Perché fin da bambino ha allertato i sensi. Ha forse intravisto nella la sciara del vulcano, un segno. Un tizzo di carbone in mezzo a granitiche masse vulcaniche.
Ecco cos’è la sua vita.
Una fragilità spersa sotto un sole che impazza, che galoppa su giochi striscianti, furbeschi, messi su da picciotti di malaffare, politici gaudenti, donne affatate dal potere.
E lui che – stretto nella sua maglia della Libertas - vuole solo fare goal.
Ma che lo voglia davvero Paolo Malerba? Spintonare quel pallone che – se si perde – solo l’allampanato Gino dei palloni perduti riesce a trovare, e che – se si porta in rete – ti si rivolta contro, non regge paragoni coi sogni? Che la voglia davvero questa illusione, questo scampolo di felicità che si frantuma in nebbia, in giorni uguali, in vacilli di memoria al bar, o tra i pacchi costosi di una donna che non ti ama?
Forse dal cavòlo la risposta già mugghia come un vento. Forse – loro, le magare – già sanno. Di padri che non perdonano ai figli di non corrispondere ai propri desideri. Di madri che – invece – perdonano tutto. Di figli che si affannano ad esaudire, a offrire una stella baluginante e cadente, che rivola tracce scomposte del proprio sangue solo per sentirsi dire “bravo”.
E invece l’amore perduto non si raccatta come i palloni che Gino riesce sempre a scovare. Ma è anzi quella partita persa fin dal principio che Paolo Malerba, infondo, non vuole giocare, che t’imprime addosso quel segno che il cavòlo blatera in tutte le sue notti. Che ti mette fuori gioco anche prima di cominciare la gara.
“Fuori gioco” di Salvatore Scalia (Marsilio, pagg. 125, € 12,00), si addentra nell’unicità di un destino raccontando tutti i destini, e di una terra oltraggiata e svilita raccontando le terre di tutto il mondo.
Lo fa con lingua prepotente, sensuale, segreta, con l’arrembaggio di gusti e personaggi che popolano quest’isola abbandonata dagli dèi e in cui tutti i vizi degli stessi dèi sembrano incarnarsi.
Da sicula abituata agli sguardi, non mi stupisce il teatrame che assiepa Paolo Malerba, calciatore degli anni “70 e nel cui cognome colgo già un’assonanza dolorosa, un anticipo di destino.
Mi stupisce però la vita che trasuda pur nello scenario di morte, la sensualità incatenante di paesaggi e umori, l’intuizione di Salvatore Scalia che nel rogo dei sogni ha saputo raccontare l’origine dei sogni, proprio perché ogni illusione nasce da una mancanza.
-Turi, perché, come scrivi tu, i “sogni buttano sangue”?
Buttano sangue i sogni a lungo coltivati che nel momento della disillusione si rivoltano contro chi li ha carezzati e cullati, mutandoli in angeli dannati.
- Essere fuori gioco vuol dire essere fuori dalla vita, o non è piuttosto l’unico modo per viverla? La follia, infondo, non è che questo: non accettare le regole del gioco.
Vivere al di fuori, non accettare le regole del gioco, essere veramente anticonformisti, tutto ciò attrae romanticamente, richiama il mito del titano, ma è di difficile attuazione, perché significa lottare contro la corrente, subire l’emarginazione. E’ più facile vivere con distacco, non lasciarsi coinvolgere, ma nell’attimo in cui si aspira a qualcosa, si è esposti a tutte le tempeste dell’esistenza.
- Il gioco è una splendida metafora. Vincere. Perdere. Essere ammoniti. Ricominciare. E forse il calcio coi suoi clamori è lo sport che meglio si adatta alla Sicilia, a tanto lustro di baraccame in fiera, a tanto vociare su pianti di morte, non credi?
Il calcio per me è metafora della vita non solo siciliana. Il campo è il rifugio geometrico in cui ogni animo inquieto trova le linee del suo pensiero, e il cerchio del centrocampo è lo zero da cui si origina il tutto. In questa prospettiva metafisica l’arbitro diventa sì il giudice supremo ma anche la divinità che dà inizio al gioco e poi non si cura di niente. La Sicilia entra fortemente nella caratterizzazione dei personaggi, vulcanici, magmatici, dalla sensualità esplosiva ma fragili.
- E poi. La squadra. Ma fare squadra sembra quasi un’ironia quando l’individualismo più esasperato – in realtà – ti reclude in un ruolo e ti costringe a recitarlo. Pensi che un siciliano possa mai, veramente, “fare squadra”?
Ogni siciliano, come diceva Karl Kraus degli inglesi, è un’isola. Ognuno recita a soggetto. Il fascino e la maledizione dei siciliani sono dovuti alla loro inguaribile anarchia.
- Parlaci del cavòlo. Di questo dirupo in cui vivono strìe, animulare, fantasmi. Di questa fenditura che risuona di tutti i lamenti. Sembra un’anima. E’ l’anima di Paolo? E’ la tua anima?
Il cavòlo è il luogo degli spiriti sotterranei, del mistero e della magia. E’ il riflesso dell’anima oscura di Paolo e, in questo caso, anche della mia.
- L’ultimo atto. Il filosofo Empedocle che si lancia nelle fauci dell’Etna. La leggenda che si traduce in una fine umana. Il mito non è forse che questo. Una prefigurazione del nostro destino. Sei d’accordo?
Dici bene, il mito è una prefigurazione e trasfigurazione del nostro destino. La natura, offesa e violentata, alla fine vincerà su tutto. L’uomo può essere di passaggio sulla terra, ma l’energia dell’universo, di cui il fuoco dell’Etna è emanazione, resterà eterna.
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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia
di Salvo Zappulla (nella foto)
Il primo aggettivo che mi viene in mente, finito di leggere questo nuovo romanzo di Turi Scalia, è: impietoso. Forse persino brutale. O semplicemente: umano. Perché la vita stessa sa essere impietosa e brutale con i più deboli. (Fuori gioco, di Salvatore Scalia, Marsilio Editori, pagg. 125, € 12,00). Ho rivissuto le stesse sensazioni che mi ha trasmesso quell’immenso capolavoro di Dino Buzzati, “Il deserto dei tartari”. L’attesa perenne dell’evento che dovrà servire a riscattare un’intera esistenza, a darne un senso. Lo sgocciolio lento dei minuti che si consumano, così come la fiammella della vita, fino a spegnersi senza aver rischiarato nulla. Sentiva il battito del tempo scandire avidamente la vita. L’attesa. L’infinita attesa che dovrà dare una svolta alla nostra vita, quell’evento che invano aneliamo e invece ci sfugge inesorabilmente come sabbia stretta dentro il pugno. Scalia ha la capacità di assemblare in maniera superba fiuto giornalistico e vena narrativa e i risultati sono sempre romanzi di profondo spessore introspettivo, che scavano dentro le miniere di un microcosmo provinciale estraendone pepite. Come nel primo romanzo pesca nel torbido della sua provincia: mafia, corruttela, personaggi melliflui. Gioca a intrecciare sentimenti di ricche signore annoiate e aspirazioni di ragazzi bramosi di prendere a morsi il futuro, anche con mezzi poco leciti. La parlata catanese, certi modi di dire persino gloriosi, vanto ed espressione linguistica di una sicilianità che si trincera a protezione del tempo che avanza, infarciscono il testo di ingredienti saporiti e stuzzicanti. U pacchiu, per un ragazzo delle zone popolari, non evoca sentimenti di tenero amore, ma è un trofeo da conquistare, di cui fare pettegolezzo sottovoce negli spogliatoi di un campo di calcio, tra una gomitata e uno sfottò. E se una volta tanto non è quello prezzolato della bagascia di turno ma appartiene alla moglie del presidente, diventa scalata sociale, pacchio d’autore in cui inebriarsi e perderci il senno. E Paolo, il protagonista del romanzo, persona realmente vissuta, il senno lo perde veramente, affranto dal gravoso peso dei suoi fallimenti. Il campo da gioco assurge a metafora della vita. L’arbitro fischia l’inizio e si dà il via alla competizione, si tenta di superare gli avversari, con una finta o uno scatto fulmineo. Paolo ci prova, ha talento da vendere ma il destino beffardo ha deciso di giocargli un brutto tiro. Arriva il momento delle disillusioni, le amarezze si accumulano e alla fine decide di rinunciare, va in fuori gioco, si estranea, si tira fuori dalla mischia. E il finale è drammatico. Sulla copertina la foto di Petruzzu Anastasi, indimenticabile gloria calcistica degli anni settanta, dolce chimera per gli assetati. Ma per un ragazzo che alza la testa, altri cento dovranno piegarla e magari elemosinare un posto di elettricista all’onorevole di turno, in cambio di servilismo e sottomissione. Scalia non esita a denunciare, a indignarsi, ad alzare forte la voce contro questa società malata i cui modelli da imitare sono diventati letterine e veline. E le isole dei famosi, i quiz e le ruote della fortuna. Tutto ciò che abbaglia e ammalia. Luci fosforescenti e nastrini colorati.
Salvatore Scalia, etneo di Mascalucia, vive di giornalismo e dirige le pagine culturali del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Ha scritto per il teatro e i suoi lavori sono andati in scena alla rassegna internazionale Taormina arte e allo Stabile di Catania. Ha pubblicato Teatro, Trilogia del malessere e Appunti e per Marsilio nel 2006, La punizione, due edizioni.
Tags: fuori gioco, marsilio, salvatore scalia, salvo zappulla, simona lo iacono
Scritto lunedì, 11 maggio 2009 alle 00:02 nella categoria LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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