giovedì, 30 agosto 2007
IN RICORDO DI RAFFAELE CROVI
Un altro grande autore della nostra letteratura ci ha appena lasciato. Noi di Letteratitudine vogliamo ricordarlo partendo proprio dai suoi esordi letterari.
Lo facciamo proponendo questo scritto di Andrea Di Consoli sul romanzo Carnevale a Milano, opera prima di Raffaele Crovi, pubblicato nel ’59 da Feltrinelli e riproposto recentemente da Avagliano.
(Massimo Maugeri)
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E’ una boutade, ma ha qualcosa di serio: anche Raffaele Crovi è stato un “giovane scrittore”. Carnevale a Milano è il primo romanzo dello scrittore emiliano; scritto tra il 1956 e il 1957, è ambientato nella Milano del 1955. Fu pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli nell’aprile del 1959, in una collana che si pubblicizzava in questo modo: “E’ la prima volta che opere prime di giovani autori, non di rado alla prima loro esperienza letteraria, vengano presentate ad un pubblico vasto, popolare, con il criterio editoriale del basso prezzo e dell’alta tiratura”. Crovi, comunque, aveva appena venticinque anni, e a quei tempi aveva pubblicato una raccolta di poesie con il mitico Schwarz, e lavorava già con profitto nell’editoria.
Il risvolto non firmato dell’edizione feltrinelliana di Carnevale a Milano è una testimonianza preziosa della cultura degli anni Cinquanta. Leggiamone uno stralcio: “Raffaele Crovi, con un acuto e smaliziato esame, senza abbandoni sentimentali e con un attento rigore intellettuale, affronta qui il giudizio della gioventù italiana d’oggi, quella che usa, come strumenti di vitalità, il flipper, i gettoni del juke-box, e indossa i blue-jeans. Ragazze per le quali il pudore non è più una difesa, quindi una verità; ragazzi senza passione, senza illusioni, e tuttavia non cinici, non indifferenti”. Da notare almeno due cose: la moda del momento (i jeans, il juke-box) e la faccenda delle ragazze, che non considerano più il pudore una difesa, cioè una verità. Tutti i “giovani scrittori” dovranno attendere la prova della ruggine e dell’erosione, ché ciò che oggi è dirompente, forse domani strapperà un sorriso appena. Il mondo, purtroppo, galoppa; ma anche se galoppa, molte cose rimangono. Carnevale a Milano, sia detto con franchezza, è un romanzo che regge alla prova del tempo. Forse, addirittura, è uno dei migliori romanzi di Crovi, che pure ha scritto tanti libri importanti. Ma l’alta temperatura di questo romanzo rimane un unicum, una felice sorpresa. Si ristampa Carnevale a Milano con l’ovvio intento di rendere reperibile un testo introvabile. Però c’è anche dell’altro; per esempio ci piacerebbe sapere nei lettori di Crovi che “posto” andrà a occupare questo romanzo; e poi non ci dispiacerebbe una riflessione a più voci sui destini della “giovane letteratura” nel tempo. Un romanzo “giovane” è “giovane” per sempre?
Non era facile esordire nel 1959. L’Italia letteraria era nella sua fase dorata. In circolazione c’erano, giusto per fare qualche nome, Pasolini, Gadda, Moravia, Vittorini e Calvino. Si stava sotto lo schiaffo dei grandi. Eppure il Novecento è una miniera inesauribile. Basta affondare la mano nel suo fondo, e anche l’opera prima di uno scrittore venticinquenne risulta di grande importanza. Chi aveva la forza di esordire ai tempi dei giganti, poteva considerarsi un vero scrittore. Il giovane Crovi è nella foto di gruppo dell’epoca d’oro delle lettere italiane. Quanti “giovani scrittori” di oggi avrebbero ricevuto sberle sulla nuca dai giganti del ‘59?
Si parta dall’epigrafe, in questo caso di Tommaso Landolfi: “Perdo tempo come si perde sangue”. Epigrafe assai adeguata al senso del romanzo. Carnevale a Milano è un romanzo di giovani impiegati, operai, intellettuali nella Milano del boom economico, continuamente alla ricerca di un senso, di una “serietà” esistenziale, epperò eternamente risucchiati nell’inadeguatezza, nella noia, nella inconcludenza e nella malinconia. I personaggi del romanzo sono “senza soluzione”. La Milano del romanzo è invernale, coperta di neve. L’inverno di Crovi ferisce il cuore (“Nel buio, anche se ero nella grande Milano, non potevo impedirmi di sentire il freddo ferirmi”). E’ una Milano di studenti senza soldi, di pensioni periferiche e di latterie. Nella latteria di via B., Sergio, studente proveniente dalla provincia e voce narrante, trova per la prima volta degli amici. Dice Sergio: “Nessuno di noi aveva molti soldi (questo lo scoprimmo subito) e fu la prima ragione che ci tenne uniti”. Tutti i ragazzi di Carnevale a Milano cercano “un’occasione ancora per fare passare del tempo”. Tutti cercano compagnia, un pretesto per chiacchierare in latteria o per stringersi a una ragazza. Trovare degli amici significa “potersi commiserare insieme”, “trovare una scusa ai pentimenti”. Occhio ai dettagli. Quando Aldo propone di andare a donne, Sergio dice: “Uscimmo senza aggiustarci le cravatte”. E’ un’Italia di studenti ancora con la cravatta, epperò con l’anima già in rivolta, in apatica attesa di uno sconvolgimento. Nella Milano di Crovi ci si attacca a tutto pur di sentire un po’ di tepore; anche l’odore del caffè proveniente dal cortile può dare un po’ di calore a chi cerca la sua strada in una grande città. E’ una gioventù maliziosa che pure sente i morsi dell’impotenza. Tutti si prendono e si lasciano “con stanchezza”, e anche quando si beve e ci si diverte, la tristezza è in sottofondo, come un murmure. Carnevale a Milano è un lungo inverno, ma “l’inverno è sempre lungo” per chi cerca la sua strada.
Sergio ha fatto anche politica. Il suo compito era quello di trasformare in comizi le notizie dei giornali. Per questa ragione ha ben conosciuto Roma. Ma Milano gli piace di più, perché “a Milano, nonostante tutto, mi pareva di poter camminare più libero, raccolto in me stesso, capace di difendere il mio pudore d’uomo, in una città che ha un suo pudore”. Un giorno, con Gerardo, Sergio va a un comizio monarchico. Gerardo provoca una rissa e viene fermato dai poliziotti. Qualche pagina prima il triste presentimento: “Forse diventeremo deputati o segretari di partito: e saremo vecchi anche noi”. Non sognano a occhi aperti, i giovani di Carnevale a Milano, ma avvertono l’oscura minaccia della maturità, della vecchiaia, ovvero della inevitabile “serietà” delle responsabilità. Sergio sa bene che il mondo non è solo suo. In questo è di una maturità sconvolgente (“Il sole è fatto anche per gli altri, e così il freddo, il pane, la sera. Devi anche essere disposto a cedere, a ricompensare la gente della compagnia che ti fa, del credito che concede”). Il sole è anche degli altri.
Non si può correre a lungo senza stanchezza. E forse nell’inverno ci si può nascondere, perché il freddo “ti scusa se non hai voglia di parlare”. Sergio forse ama Giuliana; forse la sposerà. Ma Giuliana vive a Genova, e la distanza fiacca la sua vitalità sentimentale. Nell’attesa, gioca con le ragazze. Una sera, al cinema, tocca il seno di Delia. Lei si fa toccare. Solo, a un certo punto gli dice: “Perché tremi?” Sergio è giovane, cerca la sua strada, tira tardi con gli amici e con le ragazze, ma poi c’è sempre un dettaglio che lo tradisce; che tradisce il suo distacco, la sua inadeguatezza, il suo fragile tremore. Scappare, partire non serve (“Se lasci qualcosa, quando torni lo ritrovi. E’ un posto dove fermarsi che bisogna cercare”). E’ rimanere che conta, trovare una “serietà” nel proprio tempo.
Tutti sappiamo che Raffaele Crovi ha avuto un maestro d’eccezione. A Elio Vittorini ha dedicato un libro stupendo. Ed echi vittoriniani sono ben presenti in questo romanzo. Un esempio per tutti: “Ci sono giorni più tristi degli altri e venerdì d’inverno che sono i più freddi giorni dell’inverno. Pioggia per tutta la notte e la neve sporca”. Qui l’andamento è evidentemente poetico e sincopato à la Vittorini; la pioggia di Carnevale a Milano non è troppo diversa dalla pioggia nelle scarpe rotte di Conversazione in Sicilia. E la Milano di Crovi è piena di meridionali; tra di loro c’è sicuramente gente come Silvestro. La padrona del chiosco delle castagne dice: “Sono loro che comprano le castagne. Senza calabresi e siciliani, io qui ci morirei di fame”. E intanto si balla, tristemente; si beve cognac cantando “Oci ciornia, oh che sbornia”. E c’è malinconia, paura di non farcela, d’invecchiare senza essersi ancorati a nulla. Sergio ricorda con struggimento le parole del padre lontano: “Sta’ attento”, e quelle parole stringono il cuore. Il passaggio dalla civiltà contadina alla vita cittadina è in fase avanzata. La strada di Sergio è ormai una strada senza ritorno.
Intanto il carnevale si avvicina e il sole è come un miraggio lontano. Quando Giuliana, al telefono, chiede a Sergio notizie sugli esami, lui non risponde, ma domanda: “C’è il sole lì da te?” Spesso Sergio si trova “davanti al sole” come davanti a un miracolo, anche se poi passa e svanisce nel grigiore.
Nei giorni di Carnevale a Milano “Eisenhower aveva avuto un colloquio con Dulles, la Lollobrigida strava interpretando Trapezio, a Barcellona gli studenti disertavano i tram”. Nessuno, però, dice Sergio, “parlava del rumore delle nostre forchette, degli sbadigli di Paolo, della nostra noia”. C’è vento a Milano, tanto che per accendere una sigaretta si sprecano tanti fiammiferi. Il cielo è buio dovunque, e fa freddo. Sergio le sue mani le riscalda sulla stufa di terracotta. Nella sua stanza c’è odore di aglio e di biancheria stirata. Alla radio si ascoltano i valzer trasmessi dal “Notturno dall’Italia”, programma radiofonico oggi trasmesso in AM da Rai International per i soli nostalgici. Anche se annoiati, i giovani di Carnevale a Milano sono seri; in una lettera spedita a Giuliana, Sergio scrive: “Mi piaceva la tua umiltà, la tua serietà”. Si cerca una “serietà di vita”, anche se la modernità incombe con i suoi tanti dubbi e lusinghe. Ma si continua a perdere tempo “come si perde sangue”, e “ormai c’era l’abitudine di perderlo”. In questo romanzo tutti cercano “qualcosa d’imprevisto”, una scossa vitale; oppure un posto dove fermarsi. Sergio, probabilmente, trova la sua “fermezza” nel matrimonio con Giuliana. E anche se la modernità rompe gli schemi e disintegra le certezze, ugualmente i personaggi di Crovi cercano dei punti fermi. Non solo li cercano, ma li trovano, come testimoniano i romanzi successivi di Raffaele Crovi, uno scrittore che ha attraversato la modernità senza rinunciare alla costruzione di una “forma”, di una “serietà” esistenziale.
Andrea Di Consoli
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Aggiornamento del 30 agosto 2007, h. 21.20
Segue un articolo, firmato da Andrea Di Consoli, che sarà pubblicato sulle pagine culturali de L’Unità di domani (31 agosto). Lo offriamo, come anticipazione, ai lettori di Letteratitudine.
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Si è spento ieri pomeriggio, nell’ospedale “Umanitas” di Rozzano, in provincia di Milano, Raffaele Crovi, scrittore, poeta e intellettuale tra i più importanti degli ultimi anni. Era nato nel 1934 a Calderara di Paderno Dugnano, ma era cresciuto a Cola, paese dell’Appennino reggiano dove, soleva dire, “ho una casa, una biblioteca e una tomba”. Nel 1952 si trasferì a Milano, dove si laureò in giurisprudenza, mentre dal 1956 al 1960 collaborò con la casa editrice Einaudi in qualità di assistente di Elio Vittorini, prima come redattore della collana-rivista “I Gettoni” e poi della rivista-collana “il menabò”.
Raffaele Crovi non è stato soltanto uno scrittore; è stato a lungo uno dei grandi protagonisti dell’editoria italiana (vicedirettore della Mondadori, direttore della Rusconi, della Bompiani-Fabbri-Sonzogno, fondatore di Camunia e, dal 2000, direttore della casa editrice Aragno), della politica italiana (nella DC e nel Partito Popolare, collaborando con Mino Martinazzoli), della televisione e del teatro (è stato responsabile dei programmi culturali della Rai di Milano e ha diretto il teatro “Verdi” di Milano).
Eppure è nel campo letterario che Crovi ha riscosso i successi maggiori, sin dal suo esordio come narratore nel 1959 con Carnevale a Milano (Feltrinelli), recentemente ristampato da Avagliano. Tra i suoi romanzi ricordiamo: La corsa del topo (Mondadori, 1970), Il mondo nudo (Einaudi 1975, ristampato da Fanucci nel 2006), Le parole del padre (Rusconi, 1991), La valle dei cavalieri (Mondadori, 1993, Premio Supercampiello), L’indagine di via Rapallo (Piemme, 1996), Appennino (Mondadori, 2003), Cameo (Mondadori, 2006) e Nerofumo (Mondadori, 2007). Importanti anche la produzione poetica, da Fariseo e pubblicano (Mondadori, 1968) a Elogio del disertore (Mondadori, 1973), da L’utopia del natale (Rusconi, 1982) fino al recente libro struggente e gioviale La vita sopravvissuta (Einaudi, 2007). Importante, infine, l’attività saggistica. Ricordiamo il monumentale Il lungo viaggio di Vittorini (Marsilio, 1998), Diario del Sud (Manni, 2005) e Vittorini cavalcava la tigre (Avagliano, 2006). Sterminata la bibliografia critica sulla sua opera (per farsene un’idea basta leggere il volume monografico a lui dedicato dallo scrittore Giuseppe Lupo, Le utopie della ragione, Aliberti editore), nonché l’attività di Crovi sul versante della critica letteraria, come collaboratore di numerose riviste e quotidiani (da “Il Giorno” al “Corriere della sera”).
Con Raffaele Crovi scompare uno scrittore fortemente novecentesco (della letteratura del Novecento conosceva anche le pieghe più segrete), un intellettuale con forti motivazioni morali, nonché un romanziere che ha lungamente lavorato intorno a nuclei tematici ben precisi: il potere, il romanzo antropologico, il rapporto tra provincia e metropoli, la terra, la paternità, la memoria, la politica italiana. Uno scrittore che ha saputo dialogare con i “padri”, e che ha saputo indicare rotte precise a centinaia di scrittori italiani (dai “marginali” o “dimenticati” fino agli scrittori di genere, che lui ha sdoganato in tempi non sospetti). Da questo punto di vista si può parlare di un vero e proprio magistero, editoriale, letterario e umano. Fu lui, per esempio, a pubblicare I fuochi del Basento (Camunia, 1987) di Raffaele Nigro, aprendo finalmente le porte dell’editoria ai nuovi scrittori meridionali che fino a quel momento erano stati emarginati.
Raffaele Crovi ha lavorato sino agli ultimi giorni della sua vita, nonostante un tumore lo tormentasse da un paio d’anni; questo coraggio implacabile ha il sapore di un insegnamento fondamentale, ché la vita, nonostante tutto, deve trionfare fino alla fine (Crovi amava l’Italia, le cene con gli amici, i viaggi, scoprire gli angoli nascosti del nostro paese, e andare ai premi per stare in compagnia). Questo amore per la vita è la grande eredità che lascia ai figli, ai suoi collaboratori (il più stretto è Andrea Casoli, redattore della Aragno) e ai tanti scrittori e intellettuali che da lui hanno imparato qualcosa. I funerali si svolgeranno sabato mattina a Milano (messa di monsignor Ravasi) e sabato pomeriggio a Cola, paese nel quale verrà seppellito.
Per saperne di più si può visitare il sito www.raffaelecrovi.it
Andrea Di Consoli
Tags: Carnevale a Milano, in memoria, Raffaele Crovi
Scritto giovedì, 30 agosto 2007 alle 16:19 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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