giovedì, 13 marzo 2008
MAURIZIO DE GIOVANNI, FILIPPO TUENA
In questo post presentiamo i due libri italiani più votati nell’ambito del gioco “eleggiamo il miglior libro dell’anno 2007”. Si tratta di “Il senso del dolore” di Maurizio De Giovanni (Fandango, pagg. 256, euro 10) e “L’ultimo parallelo” di Filippo Tuena (Rizzoli, pagg. 352, euro 18).
Presentiamo di seguito due recensioni. La prima, relativa al libro di De Giovanni, già pubblicata sul sito del Premio Napoli, porta la firma di Luigi Pincitore. La seconda, per il libro di Tuena, è stata pubblicata su Diario da Gian Luca Favetto.
I due autori sono caldamente invitati a partecipare al dibattito sui loro libri.
Gli amici di Letteratitudine sono invitati a esprimere le loro considerazioni e ad accogliere i due autori con la massima cordialità.
(Massimo Maugeri)
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Il senso del dolore di Maurizio De Giovanni
Tolstoj diceva che le famiglie felici sono simili le una alle altre. Talvolta capita che i libri felici siano simili l’uno all’altro. Ai lettori succede di scoprire un punto, anche piccolo – una pagina oppure una semplice immagine – che magicamente richiamano alla mente pagine o immagini di altri libri che pure si sono amati. Leggendo l’esordio di Maurizio De Giovanni (Il senso del dolore – Fandango) viene in mente quello straordinario racconto che è I Morti, scritto da Joyce a chiusura di Gente di Dublino. Due libri diversissimi, appartenenti a due scrittori altrettanto diversi. Uno, italiano, alle prese con un giallo solido e dall’impianto tradizionale, con protagonista principale un commissario di polizia impegnato nello scoprire l’assassino di un noto tenore. E qui il lettore più consumato può tranquillamente storcere il naso, dal momento che giallo e noir, per l’abuso che se n’è fatto negli ultimi anni, possono provocare una naturale crisi di rigetto. Senza contare quella distinzione che certa critica traccia tra letteratura alta e letteratura bassa, o di genere. Dimenticando che l’unica vera distinzione andrebbe fatta tra libri che emozionano e libri che non emozionano.Ma il gancio con il genio di Joyce c’è. E’ in quel lento cadere della neve, che scende sulla città di Dublino all’alba di un primo gennaio, e che sempre lentamente va a posarsi ovunque, su tutti i vivi e su tutti i morti; e paralizza lo sguardo di Gabriel, il protagonista del racconto, costretto a rimettere a fuoco quella cosa strana che chiamiamo realtà, e che nasconde sempre porzioni che ad un primo sguardo ci sfuggono. Nel libro di De Giovanni è il vento a cadere, letteralmente, sulla città. Un vento inusuale; non è lo scirocco africano che ci ricorda che Napoli è città mediterranea. E’ un vento freddo, australe, e anche qui cade sui vivi e sui morti. E ci fa scoprire che la città è davvero piena di morti. Più di quelli che un occhio qualunque possa normalmente vedere. Mentre il commissario Ricciardi li vede. E soprattutto li sente. Ha qualcosa, un potere, il fatto lo chiamo lui. E questo fatto, che non è potere parapsicologico da thriller americano, lo mette in comunicazione con i morti assassinati, di cui percepisce il dolore, di cui rivive nella carne e nello spirito l’agonia che diventa la sua. E così va avanti, senza poter raccontare ad alcuno di questo suo segreto, perché una volta ci provò, ragazzino, ma non fu creduto. Va avanti mescolando il suo dolore originario con quelli che vede e assorbe, antenna terminabile di un unico grande dolore che accomuna tutti i vivi e tutti i morti.
Ecco che salta subito all’occhio la componente cristologica del romanzo, il protagonista è condannato ad un eccesso di empatia verso l’umanità. E questa empatia, se da un lato gli permette di scavalcare l’immagine più semplice e banale del cadavere che ha di fronte, dall’altro lo condanna a scendere ogni volta in quel cuore di tenebra che ci portiamo dentro e che nell’istante della morte probabilmente illumina in un’ultima smorfia il nostro volto. Destino segnato il suo, perché evidentemente solo commissario poteva diventare uno che percepisce con tanta violenza emozionale il trapasso degli altri. Ma non c’è nessuna filosofia in questo fatto, Ricciardi non interroga forzatamente la propria identità. Oramai la accetta. E’ la sua nausea, e fa parte di lui. Egli è solo un povero Cristo, e ha la sua croce, e forse accettando di portarla silenziosamente sulle spalle aiuterà l’umanità dolente ad espiare.
Da questo punto di vista siamo nei territori dell’hard boiled, con la figura del detective solitario e a suo modo eroico. Che ha un amore inespresso che abita a pochi metri di distanza. Che ha occhi spesso socchiusi, perché la realtà è una luce che ferisce. E che incide dentro. Potrebbe bere whisky e fumare sotto la pioggia. Ma non siamo nell’America anni quaranta, ma, e qui c’è l’altro elemento di originalità del libro, siamo nella Napoli degli anni trenta. In pieno ventennio fascista. Quel vento che spazza le strade della città sembra alludere al vento del consenso, che spianava tutte le divergenze, gli alti e bassi, ammutoliva la gente entrando con forza in bocca, perché all’esterno fosse presentata un’unica facciata tersa e accogliente.
Romanzo quindi, questo di De Giovanni, in cui scorre sottopelle una cifra politica. Il segreto del commissario Ricciardi, all’esterno uomo del potere, emanazione di questori e potestà, allude al segreto di quanti in quegli anni erano costretti al silenzio e alla macerazione interiore, pena l’esilio e il confino. E così mentre indaga per ricomporre i tasselli che lo porteranno allo scioglimento del giallo, si immerge in quell’altro grande enigma narrativo e antropologico che è Napoli. Città da sempre problematica da raccontare. In questo romanzo l’autore opta per un’iconografia organica, presentando il dedalo di vicoli, il sovrapporsi di quartieri alti e quartieri bassi, con la folla spesso silenziosa e inerte che sciama per le strade, alla stregua di un reticolato di arterie e vene, dove scorre sempre molto sangue.
Quindi in una struttura di genere, basata sulla triade omicidio-indagine-interrogatori, si inseriscono alcuni piani che tendono a sbilanciare la narrazione, a farla uscire dai perimetri consolidati e canonici. L’autore sembra puntare soprattutto a costruire un mood, un’atmosfera che si faccia carico di sottolineare il non detto della vicenda, i momenti di sospensione e di precarietà.
Se nell’hard boiled chandleriano la solitudine di fondo del detective Marlowe era controbilanciata dalla secchezza dei dialoghi, dal machismo insistito e quasi autocompiaciuto di un certo stile di vita, qui siamo in un territorio diverso. Nonostante il vento Napoli si fa sentire, e batte sulla pelle del protagonista incidendola con la sua radice marina. Aleggia in queste pagine la solitudine salina di Montale, il detective creato dal grande scrittore francese Jean Claude Izzo. I dialoghi virano dal duro al malinconico. E la città nonostante non sia al centro della narrazione, se non durante i tragitti che il commissario compie, spostandosi in tram o a piedi, è in realtà sempre presente. Si direbbe anzi, che il mood del romanzo è in questa sospensione tra malinconia del protagonista e malinconia della città. Entrambi fuori posto, entrambi preda di un destino più grande. L’uomo schiavo del fatto, che ne regola il percorso biologico e umano. La città schiava della sua impasse storica e di un fascismo che non si accorda con il suo cuore segreto.
Potrebbero fondersi questi due eroi – uomo e città – ma non è possibile, se non in brevi e fulminanti momenti. A volte si incontrano, quando la morte di un uomo famoso cristallizza la scena. Altre volte si vivono uno addosso all’altro, ma poi ognuno torna sulla propria strada. Ricciardi si lascia alle spalle il teatro San Carlo entrando nel vento furioso che spazza Napoli. E Napoli va in quello stesso vento che però non la spinge mai abbastanza oltre.
Luigi Pingitore
Il romanzo uscito nel 2006 per un piccole editore napoletano come Graus, ha avuto un locale ma fulmineo successo. Immediatamente adocchiato da un grande editore come Fandango, è stato ripubblicato per essere riproposto ad una platea più ampia. http://www.premionapoli.it/2007/dolore.html
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L’ultimo parallelo di Filippo Tuena
Alla fine, ma nemmeno troppo alla fine, già quando ci sei in mezzo fra pony, cani, tende, marce, cartine e ghiaccio, tanto ghiaccio, solo ghiaccio e neve, non pensi più che sia solo un libro. Mentre lo leggi, è un’avventura, un’esperienza. Sei lì che spii. Come fossi in un diario intimo, dentro una confessione, la confessione di un’ombra che racconta.Racconta che hanno giacche a vento di cotone e scarponi di cuoio, sci di legno pesantissimi e fragili, stivali di pelle di foca, due o tre paia di calzettoni di lana grezza, due o tre maglioni o camicie o maglie di cotone, grandi guanti di pelle di foca e sotto ancora guanti di lana, e poi slitte cariche e ingombranti. Hanno una missione, un’impresa, un sogno, un’ambizione, che poi è un’ossessione, un incubo, una solitudine: raggiungere il luogo che non c’è, un’idea di luogo, l’idea di un luogo, una metafora geografica, il cuore del deserto di ghiaccio. Raggiungerlo e piantarci una bandiera. Arrivarci per primi e poi tornare. Anche tornare, vogliono, questa è l’ambizione.Non ci riescono. Muoiono. E passano alla storia. E la storia passa su di loro. Passando su di loro, inchiodandoli nel ghiaccio, li restituisce immortali. Si chiamano Scott, Wilson, Bowers, Oates, Evans. Dal gennaio 1911 al marzo 1912, insieme a un’altra quindicina di uomini si sono trasferiti a Sud, all’estremo Sud, in Antartide, per cercare di conquistare il Polo. Ma come si può conquistare il nulla? E infatti è il nulla a conquistare loro, se li prende e li trascina con sé.Robert Falcon Scott è l’inglese arrivato il mese dopo, il 17 gennaio 1912. Prima di lui, il 15 dicembre 1911, nel centro del nulla aveva piantato tenda e bandiera il norvegese Roald Amundsen, e gli aveva lasciato anche una lettera personale. Anche Scott lascia una lettera, ma è una Lettera al pubblico. La scrive nella tenda in cui muore di freddo e di fame. Sulla via del ritorno. Stremato dai ricordi e dagli errori.Di freddo, di fame e di stenti sono già morti i quattro compagni che hanno provato l’ultimo attacco al Polo, i prescelti, dopo che tutti gli altri, a poco a poco, in varie occasioni, sono stati rimandati al campo base: Edward Adrian Wilson, dolce sguardo misuratore, esperto di alambicchi e pozioni; Henry Bowers, capitano della Indian Navy, che sapeva fare quasi tutto; Lawrence Oates, capitano dei dragoni, zoppo, costruttore di pessimismo; Edgard Evans, marinaio, il gigante che sembrava indistruttibile. Gli altri compagni si sono salvati – se ci può essere salvezza, in fondo.La Lettera di Scott è il resoconto di un viaggio solitario durante il quale gli esploratori si perdettero. Queste parole, così come le stringate definizioni degli uomini della spedizione, così come una straordinaria poesia che ha forza epica e narrativa, le trovi nell’Ultimo parallelo di Filippo Tuena: non un romanzo, non un saggio, non un’indagine storica, ma un bel modo per non fare passare il tempo e viverlo, non spenderlo, ma guadagnarlo attraverso una storia emozionante e una scrittura alta.Quasi prendi gli occhi di colui che procede incappucciato avvolto in un mantello bruno, l’uomo in più, quello che gli esploratori, al limite insopportabile della fatica, credono di scorgere al proprio fianco, la loro ombra silenziosa. Che è poi la voce narrante di questa storia.
Quasi diventi gli occhi di Edward Atkinson, chirurgo di marina, che ha raggiunto i cadaveri degli amici e per primo ha letto i loro diari. Come lui, l’uomo della riserva, tu leggi per primo i loro diari attraverso l’Ultimo parallelo. Sono le parole e la storia dei vinti, ma non sconfitti, di quelli che stanno sempre sulla battigia fra oblio e memoria. Ma quando ci arrivi anche solo una volta, alle loro imprese, al loro destino, non li dimentichi più. È il miglior regalo che ti possa fare un libro: dare la struggente sensazione di essere scritto per te.
Gian Luca Favetto
da Diario
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