giovedì, 27 marzo 2008
1982 di Roberto Alajmo
Ogni anno ha il suo fascino. Ogni anno ha le sue luci e le sue zone d’ombra. Eppure ci sono anni che riescono a infilarsi meglio di altri nelle pieghe dell’esistenza. Per Roberto Alajmo il 1982 rientra nella suddetta categoria.
“1982” (pagg. 167, euro 10) è il titolo di un volume edito di recente da Laterza e che fa parte dell’ottima collana “Contromano” dove Alajmo, peraltro, è già presente con “Palermo è una cipolla”.
In queste “Memorie di un giovane vecchio”, questo il sottotitolo, l’autore siciliano passa in rassegna il suo personale 1982 per spaziare, poi, dalla politica al cinema, dallo sport alla televisione, dalla musica alla letteratura, disegnando abilmente una fitta rete di incroci tra le esperienze del singolo e fatti e avvenimenti di interesse collettivo.
Non v’è dubbio che in Italia, quando si parla di 1982, il pensiero corre al Mundial spagnolo vinto dalla mitica nazionale di Bearzot. E agli azzurri campioni del mondo è dedicato un importante capitolo, sebbene l’autore del volume – come racconta egli stesso – fu costretto a seguire alcune delle partite più importanti attraverso una misera radiolina “su una torretta a fare la guardia al nulla”. Sì, perché il 1982 è anche l’anno in cui Alajmo presta il servizio di leva; quello in cui i capelli cominciano a incanutirsi e la ragazza gli volta le spalle.
Anno importante, si diceva. Passano a miglior vita gente del calibro di Philip K. Dick, Gilles Villeneuve, Ingrid Bergman, Grace Kelly. Nascono i calciatori Adriano, Kakà, Gilardino, Cassano, la valletta Eleonora Pedron e il motociclista Marco Meandri. Vanno in onda i canali televisivi Italia 1 e Rete 4. Debutta Radio Deejay. Viene al mondo il primo bambino in provetta, va sul mercato il compact disc, mentre la rivista “Time” assegna il titolo di uomo dell’anno – con tanto di foto – a un personaggio particolare: il computer.
Alajmo dimostra ancora una volta che è possibile scrivere ottimi libri affidandosi a una scrittura leggera, frizzante e ironica (persino autoironica). Una scrittura che sa essere lieve anche quando si misura con il racconto di storie dure e traumatiche: dalla guerra delle Falkland a quella del Libano, dall’omicidio di Pio La Torre a quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, dallo scandalo del Banco ambrosiano al suicidio di Roberto Calvi.
Notizie, quelle citate, che sfiorano l’autore senza riuscire a coinvolgerlo fino in fondo. Effetto dei risvolti alienanti del servizio militare; almeno fin quando un esaurimento nervoso “salvifico” (“Se mi date un’altra volta un fucile in mano, io mi ci sparo”) non riesce a sottrarlo dalle grinfie della caserma.
“Che poi”, scrive in chiusura Alajmo, “a pensarci col senno di poi, non è stato affatto così tremendo. Malgrado tutto il resto, la mia vita è risultata tutto sommato felice, a partire da quell’anno e per tutti gli anni che sono venuti di seguito, discendendo, per quanto mi riguarda, proprio dal 1982. Ecco, in sintesi, come è andata a finire. O era del mondo, che vi interessava sapere?”
Massimo Maugeri
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1982 di Roberto Alajmo
Laterza, Contromano, 2007
pagg. 167, euro 10
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Cari amici,
vi invito a intervenire in questo post:
- dialogando con Roberto Alajmo, in merito al suo libro;
- provando a raccontare il “vostro” 1982 nello spazio di un commento (cos’è stato quell’anno per voi? avete ricordi particolari? aneddoti o esperienze da raccontare?).
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Di seguito avrete la possibilità di leggere il primo capitolo del libro che presentiamo.
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E poi un’anticipazione sul nuovo romanzo di Alajmo che uscirà a breve per Mondadori. Il titolo è: “La mossa del matto affogato”. Un romanzo dove, con implacabile leggerezza e ironia, si racconta la disfatta di un avventuriero, mostrando l’estraneità improvvisa che talvolta possono riservare i rapporti affettivi.
Ho letto qualche brano del libro e vi assicuro che è davvero molto particolare, anche per via della scelta tecnica di improntare la narrazione con l’uso della seconda persona.
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(PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE LATERZA, PUBBLICHIAMO IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO “1982 – MEMORIE DI UN GIOVANE VECCHIO”, DI ROBERTO ALAJMO)
PROLOGO
NON È UN CAPELLO
In questi casi, il classico dei classici è svegliarti una mattina, andare in bagno, sciacquarti la faccia e scrutare nello specchio. Dopodiché accorgerti di qualcosa e avvicinarti ancora un po’ alla tua immagine riflessa per accertarti di aver visto bene. Non può essere. Sì che può essere.
Sì, effettivamente.
C’è.
Il capello bianco. C’è. Il capello bianco c’è.
Dev’essere spuntato durante la notte. Non c’è altra spiegazione possibile, perché ieri non c’era e oggi invece sì. Cerchi di consolarti pensando che prima o poi doveva succedere. Minimizzi, ti sforzi di prenderla con ironia. Certe volte funziona. Dipende. Rimane comunque da stabilire come regolarsi ora che è successo. Poi verrà il tempo delle eventuali tinture, ma lì per lì l’istinto porterebbe a prenderlo con due dita e cercare di estirparlo, prima che la sua presenza possa contagiarsi agli altri capelli, rinviando così almeno di qualche giorno la svolta psicologica che si prospetta nella tua vita, una soglia paragonabile al compimento dei venti, trenta, quarant’anni. Quando scopri che ti è spuntato il primo capello bianco sei portato a fare riflessioni di un certo spessore, stilare bilanci, formulare propositi. Se non ti viene in mente nulla di significativo da tramandare almeno a te stesso vuol dire che sei davvero povero di spirito. Strano: dai capelli bianchi ci si aspetta che siano forieri di saggezza, oltre che di depressione.
Oppure, se riesci a resistere al primo istinto distruttivo, dopo avere individuato e preso fra due dita quell’unico capello bianco, ti fermi a indugiare sulla sorte che deciderai di destinargli. E alla fine lo lasci vivere, nel ricordo di quella scaramanzia che intima: sette capelli bianchi ricresciuti per ognuno strappato via. La rappresaglia tricologia funge da deterrente, ma i sette capelli bianchi dopo una settimana probabilmente ti spunteranno lo stesso, crudeli come certi nazisti da film, che malgrado il sacrificio dell’eroe, davano ordine di procedere lo stesso con la fucilazione degli ostaggi.
Così succede, di solito. Comunque si voglia reagire, il giorno della scoperta del primo capello bianco è di quelli cruciali, da segnare nel calendario della tua vita a caratteri maiuscoli. Neri e maiuscoli.
Nel mio caso, però, la dinamica è diversa. Niente risveglio, niente specchio, niente soprassalto alla scoperta del singolo capello bianco, né tentazione di strapparlo via. Tutto è successo in un periodo in cui non mi guardavo mai allo specchio. Diciamo quasi mai. Mi trascuravo un po’, o forse la cura dell’aspetto fisico era diventata meno importante. Da qualche mese la mattina avevo ridotto al minimo le abluzioni e persino le funzioni corporali per cercare di guadagnare tempo e presentarmi puntuale all’adunata del mattino. Perché sì: era il periodo del servizio militare. Non che mi piacesse indugiare a letto dopo la sveglia. Tutt’altro. Anzi, quando mi capitava di svegliarmi anzitempo, correvo in bagno e mi lavavo prima degli altri. Questo perché dieci minuti dopo il suono della tromba, nei bagni si creava un ingorgo umano cui cercavo sempre di sfuggire, provando a scansare la pesantezza dei primi scherzi da caserma della giornata.
Il mio sistema consisteva nell’indossare la divisa prima ancora di lavarmi. E solo poi, quando la maggior parte degli altri era intenta alla vestizione, quando l’ingorgo si scioglieva, andavo in bagno e mi immischiavo ai ritardatari ancora in mutande, io che già indossavo persino il basco d’ordinanza, per non lasciarlo in camerata col rischio che me lo fregassero. Si fregavano tutto, pure i baschi. Per non bagnare i vestiti mi lavavo alla meno peggio, limitando al massimo il contatto con l’acqua gelata, oltre che coi commilitoni. Non mi piacevano i commilitoni. Per niente. Né loro, né la situazione in cui mi trovavo. E per la verità, sospetto, nemmeno io piacevo a loro.
Insomma, in quel periodo allo specchio mi guardavo poco, e malgrado l’ora di punta ai bagni fosse passata, mi restava poca voglia di indugiare nella cura del dettaglio estetico personale. Inoltre, per il motivo che ho detto, quando mi capitava di guardarmi allo specchio, il più delle volte indossavo il berretto. Quindi, il giorno in cui il famoso Primo Capello Bianco ha deciso di spuntarmi sulla testa, io me lo sono perso in pieno. Non ho dovuto mai affrontare il dubbio strappo-non strappo, per il semplice motivo che quando me ne sono accorto, i capelli bianchi erano diventati già troppi per essere affrontati in termini di sterminio collettivo.
Non è neppure escluso che possano essere diventati bianchi tutti assieme, magari in un momento di particolare stress. Dicono che succeda. O almeno succede nei romanzi dell’orrore: vedi un fantasma, e all’improvviso ti si imbiancano i capelli. Per quanto riguarda me, tuttavia, non c’è stato nessun fantasma, nessun istante di stress particolare. Si tratta di un momento difficile da individuare, perché tutto quel periodo era di particolare stress. La chimica che presiede a questo genere di mutazioni è imperscrutabile, e difatti non ricordo un inciampo particolare o uno di quegli spaventi che provocano, secondo la leggenda, l’imbiancamento repentino Può darsi che sia stato così: ma non lo so; per il semplice motivo che, non guardandomi allo specchio per lunghi periodi, non potevo accorgermene.
Né potevo sperare che se ne accorgesse qualcuno dei miei compagni d’arme; guardarsi reciprocamente, notare un dettaglio nell’aspetto personale di un altro era non proibito, ma di sicuro fuori luogo, indizio sicuro di effeminatezza. Ergo: né io guardavo gli altri, né gli altri guardavano me. Vivevamo con un paraocchi che ci ostruiva ogni visione laterale. Potevamo vedere solo gli oggetti che ci si presentavano frontalmente, individuare solo i beni di prima necessità e soddisfare solo bisogni primari: bere, mangiare, respirare. Stop: anche gli altri bisogni primari, come vedremo, potevano essere sospesi. Solo esercitando un letargo dell’intelligenza e dello spirito potevamo garantirci l’unico obiettivo possibile, nel contesto, ossia arrivare alla fine dei trecentosessantacinque giorni che ci toccava trascorrere in caserma. Cioè, sopravvivere. Ogni altra attività si configurava come un lusso e dunque, ancora, come indizio di effeminatezza. Leggere era effeminato, ascoltare musica era effeminato, persino andare in chiesa era considerata una manifestazione di effeminatezza. Guardare i capelli degli altri sarebbe stato il massimo dell’effeminatezza. Per cui non so se qualche mio effeminato commilitone si è accorto del fatto che i miei capelli erano diventati bianchi. Di sicuro nessuno mi ha detto niente, finché sono rimasto in caserma. Nemmeno io l’avrei fatto. Se mi fossi accorto di una mutazione del genere su un mio commilitone, me ne sarei stato zitto. Non volevo certo passare per effeminato.
È stata la mia fidanzata di allora, Maria, che se ne è accorta quando mi ha rivisto dopo quasi un mese, in occasione della prima licenza. Mi ha guardato senza espressione e ha detto:
- Hai i capelli bianchi.
Così ha detto. Senza un punto esclamativo alla fine, senza ironia o tenerezza. Senza allarme o compatimento. Come una pura e semplice constatazione. Io sono caduto dalle nuvole:
- Che dici?
Naturalmente sono corso allo specchio più vicino per verificare l’entità del danno. Lei non mi ha seguito, è rimasta ad aspettarmi in soggiorno. Il suo restare, contrapposto all’ipotesi di seguirmi con amore, avrebbe dovuto rivelarmi molte informazioni che per il momento era meglio ignorare. Un problema per volta. Sono andato in bagno da solo e ho guardato i miei capelli. La proliferazione di quelli bianchi era molto più avanzata di quanto potessi immaginare, tanto che mi sono chiesto distintamente come avessi fatto a non accorgermene prima. Ho mosso la testa passando le dita fra i capelli per verificare che non fosse uno scherzo della luce riflessa, ma no: quelli bianchi erano davvero moltissimi. Non proprio maggioranza, ma di sicuro, almeno, minoranza più che qualificata. Spiccavano sul nero in maniera uniforme, senza zone di concentrazione. Impensabile procedere a un’estirpazione individuale.
Ho immaginato che fosse successo la notte prima, ma ho dovuto ammettere di fronte a me stesso che non era affatto probabile. Poteva essere successo una notte qualsiasi del mese precedente, oppure anche un poco alla volta, nell’arco dello stesso periodo. La sostanza non cambiava. La sostanza era che i miei capelli avevano cominciato a imbiancare in maniera drastica.
La scoperta è bastata a rovinare l’incontro con Maria, incontro che pure avevamo (avevo) desiderato con spasmi di passione inediti, se si considerano i precedenti del nostro rapporto. Lei stessa, che nei primi tempi fra noi era quella più innamorata, stentava a riconoscere quella retorica passionale di cui farcivo le lettere che le spedivo dalla cattività. A Orvieto, dove espiavo il periodo del cosiddetto CAR, vivevo in una solitudine animalesca, circondato da creature primordiali, prive di qualsiasi sensibilità umana. In quei trenta giorni mi ero aggrappato al ricordo di Maria in maniera disperata, fino a capovolgere i ruoli consolidati nel nostro rapporto, dove fino ad allora io ero stato la parte più sfuggente. Per forza: lei era tutto ciò che rimaneva del mio passato di essere umano per cultura e sentimenti. Lei era la mia ancora di salvezza. Lei e I., naturalmente. Ma quello di I. è un altro discorso, che affronteremo al momento opportuno.
Quando sono tornato in soggiorno Maria era ancora dove l’avevo lasciata. Io ho detto solo:
- E’ vero, sono tutti bianchi.
Al che mi sarei aspettato che lei rispondesse: Ma no, ma che dici, non tutti, sono solo un po’ bianchi. Invece lei non l’ha detto. Non ha nemmeno abbozzato qualcosa che somigliasse a una forma di consolazione. Mi ha risposto:
- Eh, te l’ho detto.
Dopodiché la conversazione fra noi ha preso altre strade, strade più convenevoli, tralasciando del tutto la scoperta dei capelli bianchi. Col senno di poi, posso dire di non ricordare nulla, di quel che abbiamo detto. Posso anzi dire di non avere mai saputo nulla, di quella conversazione. Non si ricorda, tecnicamente parlando, qualcosa che all’inizio si ricordava: ma non è questo il caso. Lei parlava e io non ascoltavo. Ero distratto. La mia mente era dirottata su quell’unico binario possibile: i capelli bianchi. Mi erano venuti i capelli bianchi.
Nella maniera certo approssimativa dei ventenni, mi rendevo conto di avere appena varcato una soglia biologica impercettibile e fondamentale, però. Il mio corpo aveva cominciato a invecchiare. Stavo mutando. Era cominciata una metastasi incruenta che però sempre metastasi risultava. E il destino di quella mutazione sapevo quale sarebbe stato. Il destino innominabile, lontanissimo, eppure, a partire da quell’indizio che avevo appena scoperto, un po’ più vicino.
Mentre Maria parlava, io pensavo ai fatti miei. Per la precisione: cercavo di capire che cosa avesse provocato quella proliferazione di capelli bianchi. Doveva per forza esserci un motivo scatenante. Doveva esserci e dovevo scoprirlo. A un certo punto la mia ragazza – il mio ingrizzo, si diceva a Palermo in quegli anni – mi ha richiamato all’ordine dei discorsi che stava facendo. Discorsi più che impegnativi, che riguardavano la fine dell’amore e altri dispiaceri di minor conto. Le circostanze mi spingevano ad abbandonare l’indagine sui motivi della canizie. Ma una parte di me, mentre Maria mi stava lasciando, non smetteva di ruminare. Non vale la pena di pensarci, mi dicevo. Ormai è successo, amen. Ora la mia ragazza mi sta dicendo che ha deciso di lasciarmi, concentriamoci su questo. Fin quando, effettivamente, Maria ha ottenuto la mia attenzione ed è riuscita a farmi il discorsetto che si era preparata, alla fine del quale mi sono ritrovato single, oltre che vittima di una canizie già in stato di avanzamento. È stato allora che ho scelto di stabilire delle priorità, lasciando perdere le riflessioni sui capelli e concentrando piuttosto ogni sforzo per rimediare al nuovo stato di solitudine sentimentale.
A distanza di tempo, tuttavia, mi viene il sospetto di aver sbagliato nella selezione delle priorità. Forse, se non avessi lasciato perdere, se avessi proseguito le indagini nell’immediatezza dei fatti, sarei riuscito a scoprire il motivo per cui avevo cominciato a invecchiare. Addirittura, una volta scoperto il movente, avrei potuto intervenire sulle cause e risolvere il problema alla radice, restando giovane ancora per un po’, se non per sempre, come allora credevo possibile. Non l’ho fatto, e ancora me ne dispiaccio.
Arrivano però momenti della vita in cui bisogna tornare indietro e riflettere. Come quando in autostrada si scopre che bisognava imboccare una certa uscita. Ormai è troppo tardi, siamo andati troppo avanti, non si può tornare a marcia indietro. Tuttavia è possibile uscire dall’autostrada successivamente e tornare indietro percorrendo strade secondarie. Strade, certe volte, addirittura divergenti rispetto alla nostra destinazione. Non solo è possibile tornare indietro, ma addirittura bisogna farlo. Non c’è altra possibilità. Chi l’ha detto che ormai è troppo tardi? Non è passato poi troppo tempo. Non stiamo parlando di un passato talmente remoto da non poter essere ricostruito, almeno per sommi capi.
Per cui, ho deciso. È arrivato il momento di portare a termine l’indagine lasciata in sospeso a suo tempo e capire perché i miei capelli sono diventati bianchi proprio allora. Scoprire dove è cominciata la mutazione, e con la mutazione la china discendente. Dove io ho sbagliato a imboccare l’uscita dall’autostrada. E forse non solo io: è il genere umano, l’intero pianeta terra che a partire da quel momento ha iniziato a perdere la sua innocenza. È ora di tornare indietro, al dove, al quando e al perché.
Cominciamo a inquadrare l’anno.
Era il millenovecentottantadue.
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