lunedì, 4 agosto 2008
IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI
Cent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).
Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
Cosa rimane di Elio Vittorini?
Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Insomma… Vittorini.
Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
Massimo Maugeri
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Il centenario della nascita di Elio Vittorini
di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)
Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.
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Cosa rimane di Vittorini?
di Maria Lucia Riccioli
23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:
Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:
È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.
Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.
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Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
di Salvo Zappulla
Vittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.
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Vittorini e l’Isola
di Simona Lo Iacono
Si dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
Si dice.
Ma non si dice soltanto.
Si sente.
Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
Si sente se è uomo di isola o di continente.
Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
E che – anzi – non è neanche nome.
Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
Del morire.
Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
Doppio esilio.
Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
Che per te si raddoppierà sempre.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
Tags: centenario, einaudi, elio vittorini, ernesto ferrero, maria lucia riccioli, salvo zappulla, simona lo iacono
Scritto lunedì, 4 agosto 2008 alle 15:32 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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