venerdì, 24 aprile 2009
NON SONO MAI PARTITO, di Pietro Treccagnoli
Pietro Treccagnoli vive a Napoli e lavora a «Il Mattino». Ha scritto “Non lo chiamano veleno” (Avagliano, 2006). “Non sono mai partito” è il suo secondo romanzo (Cento Autori, pagg. 112, euro 10).
In questo nuovo libro Treccagnoli tratteggia un viaggio a cavallo tra i favolosi anni Sessanta e un ’77 troppo presto dimenticato, tra terroristi e figli dei fiori, tra un passato di rivoluzioni vere o sognate e un presente da reality show.
Su l’Indice dei libri del mese Vincenzo Aiello ne parla così:
«Dopo l’esordio narrativo del 2006 con Non lo chiamano veleno (Avagliano), dove la mafia dei Casalesi veniva vista – ante Gomorra – sotto la lente narrativa di un noir livido e ironico, con Non sono mai partito, Pietro Treccagnoli torna a parlarci, con la sua lingua saporitamente narrativa, di questo oggi fatto di reality finti e di finte realtà. L’autore fa questo ricorrendo a due registri narrativi. Il primo vede protagonista il commissario Ascione in pensione che cerca, su invito di un padre, il di lui figlio Serafino, un fricchettone del 1977, che al momento del rapimento Moro era sparito da Giugliano per andare a liberare lo statista democristiano. Nell’altro controcanto metaletterario si trova un cinquantenne che, dopo trent’anni da quegli avvenimenti, spinto da una figlia quindicenne, si spinge a ricordare i suoi sogni che diventarono presto bisogni”. (…) Il pastiche dialettale si sposa con un buon italiano, in un esperimento narrativo, che al di là dei fatti narrati, è la vera cifra di questo alfabeto giuglianese che sa di mele annurche e di scampie».
Ne parliamo in maniera approfondita con lo stesso autore e con Simonetta Santamaria e Francesco Di Domenico, che hanno recensito il libro e mi aiuteranno ad animare e moderare la discussione.
Vi propongo un paio di domande per avviare un dibattito collaterale sui temi affrontati dal libro:
Fino a che punto è possibile liberarsi dei fantasmi del proprio passato?
Ma poi è giusto tentare di liberarsene?
Non è meglio conviverci, correndo il rischio di dover ammettere a se stessi: non sono mai partito?
Di seguito, le recensioni della Santamaria e di Di Domenico.
Massimo Maugeri
——-
——-
NON SONO MAI PARTITO
recensione di Francesco Di Domenico
Un pesante scarpone, che calpesta un pesante passato, fa’ da prima di copertina a questo viaggio in una valigia mai disfatta, di Pietro Treccagnoli.
Un libro a due voci narranti, che viaggiano parallelamente nel tempo di ieri, quello dei 50enni di oggi, a cui sembra mancare, paradossalmente, proprio il passato, quello prossimo.
Sono i 20enni del ’77, l’ultima generazione politica, una generazione fluida, di cerniera con quella sessantottina, e l’altra, dell’edonismo e del riflusso, quella della Milano da bere e della vita, “da bere”.
Le voci che si rincorrono e si accavallano sono, una: quella del Commissario Ascione, personaggio già usato nell’opera d’esordio del giornalista Treccagnoli (“Non lo chiamano veleno – Avagliano Editore”).
Un poliziotto in pensione, arido e cattivo, che per scacciare la noia del riposo forzato s’incammina svogliatamente in un’indagine non autorizzata, un’inchiesta che serve solo a se stesso per sentirsi vivo. Attraverso la ricerca di un uomo, scomparso 30 anni prima, “Ascione” scopre di essere sopravvissuto solo alla sua blanda vita.
L’altra voce narrante, che si va ad incastrare nell’inchiesta su di una scomparsa di un ragazzo, figura retorica di “quel tempo”, possiamo ben credere che sia quella dell’autore che entra nel passato per trovare risposte a domande mai poste su quella che è anche la sua generazione, scoprendo che, quelli dell’77, differentemente dai fratelli maggiori, nelle loro battaglie, tra goliardia e falso rivoluzionarismo, non rinnegavano il padre biologico, ma quello politico: il mastodonte Pci.
P.T. Cerca di penetrare nei meccanismi culturali che fecero di quella fascia giovanile, la prima delle “generazioni perdenti”. La ricerca della libertà culturale, senza la sofferenza della lotta, che era stata bandiera del ’68 (ce n’est q’un debut, continuon le combat…) fu uno dei pilastri della “generazione degli sballati”. Da Bologna a Roma, i ragazzi del ’77, inventarono forme di proteste a due dimensioni, o estremamente goliardiche, o fortemente violente, con la tragica deriva terroristica. Quello fu anche il confine tra la cosiddetta “violenza proletaria” e la neo “violenza tecnologica”, quando Toni Negri affermava: “…la geometrica bellezza del Sequestro Moro…”
“Non sono mai partito” è due cose, un amarcord personale e politico allo stesso tempo, con nessuna verosimiglianza con un concomitante libro uscito su Bologna di Brizzi.
Treccagnoli penetra in quel periodo con la cognizione di chi “c’era”, usando con orgoglio il linguaggio delle radici e il napoletano dell’interland, intercettando quello che si parla oggi nei suburbi partenopei, dove il rifiuto della lingua nazionale è anche sinonimo di rivolta, non politica, ma di contiguità con lo “stato che funziona”, quello del malaffare.
E’ un libro coraggioso dal punto di vista linguistico, vi si legge il frutto di una ricerca, ricca anche di memoria, sarà sicuramente comprensibile, come lo è stato il milanese di Dario Fò per noi del Sud e il linguaggio di Troisi per il Nord.
Francesco Di Domenico
—————–
NON SONO MAI PARTITO
recensione di Simonetta Santamaria
Leggendo questo libro, per prima cosa mi sono detta: ma il passato non passa mai? Perché è così, gente: il passato è continuamente tra noi, rievocato, celebrato, spesso rimpianto. Eternato, si dovrebbe chiamare, in realtà.
Ed è proprio quella sensazione di un’immersione nel passato, anzi di una serie di immersioni, che ha regnato per tutta la durata di Non sono mai partito, il secondo romanzo del giornalista napoletano Pietro Treccagnoli. Un passato neppure troppo lontano, quello che appartiene agli anni ’70, almeno per noi che li abbiamo vissuti e che a dirlo, questo numero, ci pare ancora ieri. Tutti incentrati sull’omicidio di Aldo Moro, le Brigate Rosse, Autonomia Operaia, la Democrazia Cristiana, le radio libere, le canzoni alternative, gli spinelli. Gli Anni di Piombo. I giovani che non hanno vissuto il ’68 ci si sono potuti rifare; anche loro volevano cambiare il mondo, imporre i loro ideali, darsi alla politica sovversiva. In città come in provincia, alla periferia della Rivoluzione.
E tra questi c’era Serafino, il co-protagonista del romanzo che invece, in quel fatidico 1978, si mette in testa di sfidare le BR e liberare Aldo Moro. E sparisce. Considerato da tutti uno “fuori”, Serafino incarna il vero anticonformista di quell’epoca, il libero pensatore, quello che remava da solo col suo canottino nell’enorme mare delle convenzioni. E, a distanza di trent’anni, un padre che non si dà pace coinvolge in una sorta di ricerca postuma il sonnolento commissario Ascione che il suo mestiere l’ha fatto e ora vorrebbe godersi la pensione “senza fa’ ‘nu cazzo”. In realtà Ascione è un rozzo individuo asociale e omofobo che resta pur sempre un poliziotto, anche se in disarmo, e che attraverso Serafino rivive i suoi stessi ricordi di quel ’78 in cui sentiva anche lui di essere senza fili, avere il mondo in mano e l’eternità in tasca. Una gimcana tra l’America on the road e l’Italia dei rioni, Eric Clapton e Claudio Lolli, Oggi le Comiche e un reality dall’impronta politico-sociologica che vuole ispirarsi al rapimento di Moro per dare ai cinquantenni di oggi – quelli stravaccati sul divano in pantofole e telecomando – un po’ di come eravamo, una presa di amarcord che scuota i neuroni e riattivi le sinapsi e che serva a far a dire ai loro figli, non senza una punta di vanto: io c’ero.
Senza per questo volergli affibbiare delle etichette, definirei Non sono mai partito un noir partenopeo, con le sue incursioni marcate in un dialetto che sfocia spesso nello slang di periferia e che, se da un lato rischia di togliergli leggibilità se a leggerlo non è un napoletano, dall’altro lo inquadra con precisione fotografica. Un tocco molto apprezzato dalla sottoscritta, devo ammettere. Ho trovato nella genuinità di questo romanzo il suo punto di forza: quella dei suoi personaggi, del loro linguaggio, la scelta di ricorrere nelle giusti dosi anche al lessico grezzo che i ragazzi di ieri definivano semplicemente anticonformista. Niente è cambiato, se non dei numeri su una data.
E altrettanto apprezzata è stata la sorpresa della splendida playlist che compare a pagina 105: già pillole delle canzoni di quegli anni si spandono in tutto il testo miscelandosi ai dialoghi e alle descrizioni, a volte creando gustosi calembour del tipo “Santa voglia di vivere e dolce venere di rimmel. E rimmélle, rimmélle” (E dimmelo, dimmelo). Ma vederle tutte lì, in fila, ti fa davvero venire una attacco di senile tenerezza a ripensare a quel cantautore o a quel testo mai dimenticato ma magari solo riposto nello scantinato della memoria.
Perché il passato non passa mai davvero.
Simonetta Santamaria
Tags: cento autori, francesco di domenico, pietro treccagnoli, simonetta santamaria
Scritto venerdì, 24 aprile 2009 alle 16:11 nella categoria SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
Commenti recenti