martedì, 16 giugno 2009
SOLO! (e non solo), di Sergio Rilletti
Riporto su questo post dedicato a Sergio Rilletti.
Questo post non è più solo… nel senso che in coda troverete un nuovo racconto di Rilletti (alias Mr. Noir). Si tratta di un racconto che fa parte dell’antologia “CRIMINI DI REGIME” (Editrice Laurum).
Sergio si autodefinisce diversamente abile. Per me è abile. Solo… abile.
Bravo, Sergio!
Massimo Maugeri
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Giorni fa scrissi un post dal titolo: Quando un “diversamente abile”… è solo”.
Il protagonista di quel post è lo scrittore Sergio Rilletti (nella foto). Quello che vi propongo qui di seguito è una breve presentazione del racconto “Solo!” scritto dallo stesso Rilletti in occasione di un’esperienza non particolarmente piacevole che è stato costretto a subire. Seguirà il racconto. Il post è un po’ lungo ma vi invito a leggerlo da cima a fondo. Ci tengo molto. Magari salvate la pagina sul vostro pc e leggete off-line. Poi tornate qui e, se vi va, lasciate le vostre impressioni come commento.
Vi ringrazio molto per l’attenzione.
(Massimo Maugeri).
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Un autore di thriller crea i propri alter ego proprio per far vivere loro delle esperienze da brivido, che ovviamente auspica di non dover vivere mai.
Non può certo immaginare che, un giorno, una persona di sua conoscenza lo scambi per il suo eroe seriale e decida di metterlo in una situazione assolutamente poco confortevole!
E’ quanto accaduto a me – creatore di Mister Noir, detective privato in carrozzina -, il 9 aprile scorso al parco di Monza, quando, come avevo brevemente narrato nell’appello pubblicato sullo scorso numero di M-Rivista del mistero, un “branco di amici” mi ha mollato in mezzo al parco di Monza, a bordo della mia piccola carrozzina elettrica, per farsi un giro in risciò. Senza voltarsi più. Costringendomi a cavarmela, e a ritrovarli, da solo.
Sì, Solo!, come il titolo di questo racconto, il primo sequel narrativo di una rubrica della posta.
E, come in tutti i sequel che si rispettano, vengono svelate (parzialmente) le identità professionali di alcuni personaggi, tutte le strategie che ho dovuto attuare, tutte le mie emozioni, e lo stretto rapporto – breve ma intenso – con i due ragazzi che alla fine mi hanno aiutato in modo ottimale e che, come ho scritto nello scorso numero, vorrei assolutamente ritrovare e ringraziare.
Non solo. Ma, come in un enorme gioco dei paradossi, che mi piace tanto sviluppare nei miei racconti, i ruoli si confondono, e chi ufficialmente è considerato un handicappato si dimostra improvvisamente un “super-dotato”, surclassando in capacità chi, invece, deve accontentarsi della sua perenne condizione di “normodotato”.
Oltre 90 minuti di autentica tensione, narrati onestamente in soggettiva, in cui ogni lettore non potrà fare a meno di essere me!
Un racconto che determina la nascita di un nuovo genere letterario: il reality novel!
Sergio Rilletti
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SOLO!
Racconto di Sergio Rilletti
Quest’anno ho scoperto che il Destino è un mio grandissimo fan; un fan un po’ apprensivo, a dir la verità, che, ingiustamente preoccupato che rimanga senza ispirazioni per i miei thriller, me ne fa capitare di tutti i colori. La storia che state per leggere è assolutamente vera. Dopo una lunga e attenta meditazione ho deciso di scriverla “in soggettiva”, telecamera immaginaria alla mano, per portarvi con me, a bordo della mia carrozzina elettrica, e farvi vivere quello che ho vissuto io, esattamente come l’ho vissuto io: pensieri compresi. La data e i luoghi sono veri, i nomi dei personaggi sono ovviamente modificati per salvaguardare la loro privacy. Solo i nomi di Lisa e, mi pare, Mauro (ho una certa idiosincrasia con i nomi maschili), protagonisti assoluti del terzo capitolo, sono veri; e ho voluto mantenerli tali in modo che loro si possano riconoscere e io possa ringraziarli. Ma ora basta con le chiacchiere, e seguitemi nei meandri del parco di Monza e della mia mente. (Sergio Rilletti) .
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Domenica 9 aprile 2006, Ore 13.10 circa, Parco di Monza
Vanno. Loro vanno. E io, rimango sempre più indietro.
Certo che seguire due risciò con una carrozzina elettrica di modeste dimensioni e di scarsa potenza come la mia, non mi sembra un’idea proprio geniale, anche perché il terreno qui è sconnesso. Ma come potevo impedire agli altri di andarci? Ora dovrò fare la passeggiata da solo, e accontentarmi dei momenti di contatto che avrò quando si fermeranno ad aspettarmi. Accontentarmi e gustarmeli. Fino in fondo.
Già, accontentarmi. Loro davanti, tutti assieme, che si divertono; e io qui dietro, da solo, che arranco. D’altronde, non potevo certo oppormi, non potevo impedire agli altri di fare questa bell’esperienza.
Ma come ha potuto Carletto fare una proposta del genere?
Speriamo almeno che si fermino. Qui il terreno è accidentato, e la carrozzina traballa.
Sì, sì; sicuramente si fermeranno. Carletto è un professionista: sa quello che fa. Sì, ecco, si fermano. Bravo, Carletto: sapevo di poter contare su di te! Ora vi raggiungo. Ancora qualche metro su questo terreno sconnesso, e sono da voi. Una buca, due buche, una pozzanghera di fango, un dosso di terra battuta, e ancora una buca. La carrozzina traballa per tutto il tempo, ma alla fine vi raggiungo. Sorrido. Anche Carletto sorride, e poi mi fa: “Senti… Possiamo andare avanti?”
A me si raggela il sangue e non dico nulla, paralizzato, sbalordito; ma Carletto non si accorge di niente e prosegue: “Ti fai una bella passeggiata da solo nel parco fino alla cascina. Tanto la strada è facile: vai avanti fino all’autodromo e poi giri a sinistra, costeggiandolo.”
Sconcertato, rispondo di sì. Io non sopporto l’idea di rimanere da solo in un luogo pubblico, soprattutto in un parco; un parco non mi dà alcun senso di sicurezza: si può incontrare chiunque, in un parco, assolutamente chiunque. Ma che diritto ho io di limitare agli altri questa bell’esperienza? Domando di nuovo la strada, con espressione estremamente titubante, per far capire che non sono affatto sicuro, Carletto me la ripete, e io, sempre titubante, li saluto. Tanto, penso, si gireranno. Non mi perderanno certo di vista!
Vanno. Loro vanno. Senza voltarsi.
E mi distanziano sempre più.
Io arranco con la mia piccola carrozzina elettrica. Qui il terreno è asfaltato, procedo abbastanza bene. Li vedo allontanarsi. Già, si allontanano. E non si voltano.
Cazzo, ma voltatevi!
Niente. Non si voltano.
Vedo, lontano, una curva; una curva che devono intraprendere. Sarei tentato di tagliare per il prato, per avere almeno una piccola possibilità di raggiungerli, ma se mi ribalto che faccio? Il terreno erboso è il più insidioso di tutti, perché l’erba copre, e, sotto l’apparenza di un terreno verde e pianeggiante, si cela sempre un terreno accidentato, pieno di dune, pendenze, e avvallamenti. E le possibilità di ribaltarsi sarebbero infinitamente superiori! Non mi fido, e decido di proseguire per la strada principale; anche se sono consapevole che non li raggiungerò mai.
Continuo, senza perderli di vista.
Finché posso.
Poi salgono su una montagnetta; su, su, fino in cima.
Li guardo, per vedere se si girano. Si gireranno sicuramente per salutarmi. Si girano? No, se ne vanno: proseguono. Lasciandomi definitivamente solo.
Oh, cazzo! Speriamo in bene! Avanti fino all’autodromo e poi giri a sinistra, mi hanno detto. Devo costeggiare l’autodromo. Ma dov’è l’autodromo? Speriamo almeno che la batteria della carrozzina duri fino alla cascina, che non si scarichi prima. Proseguo, tesissimo. Maledico il momento in cui ho accettato. Maledetta generosità! Ora loro (Carletto, i due assistenti dell’Organizzazione, e i tre miei compagni) sono tutti insieme a divertirsi, mentre io sono qui a girare da solo come un pirla! Mi impongo di calmarmi, ci riesco; tanto ormai è inutile: sono da solo! Quindi, ho due alternative: o continuare a recriminare o godermi il panorama. Opto per la seconda. Intanto proseguo sempre dritto, per un bel po’. Dritto, e poi all’autodromo a sinistra, costeggiandolo, mi ripeto. Meno male almeno che il tempo è bello. Pensa un po’ se minacciasse di piovere…
Continuo la mia marcia forzata ostentando un interesse particolare per tutto il verde che mi circonda. Laggiù, lontano, vedo anche le montagne innevate. Non che mi interessi in modo particolare un panorama che, andando a questa velocità, cambia poco; ma almeno mi aiuta a distrarmi e a non pensare che sono solo… e che devo trovare la strada per tornare alla cascina. A proposito: dove cazzo è l’autodromo? Ormai è da un po’ che sto camminando. Possibile che sia così avanti? Possibile che siano andati così avanti? Mi fermo, scruto l’orizzonte, ma dell’autodromo non si vede neanche l’ombra. Eppure non è piccolino. È un autodromo, voglio dire: se ci fosse, lo vedrei! Anche lontano, magari, ma lo vedrei! Rischio di farmi prendere dal panico; invece no, non devo!
Aziono la cloche della mia carrozzina, e procedo. Se ti hanno detto vai avanti fino all’autodromo, e non vedi ancora l’autodromo, vuol dire che non sei ancora arrivato. Semplice, no?
Semplice un corno! Se sei in un posto sconosciuto, hai solo una vaga idea di dove dover andare (sperando, tra l’altro, di aver capito bene), non vedi mai arrivare questo cazzo di punto di riferimento (peraltro neanche tanto piccolo), ti guardi intorno e ti sembra tutto uguale, e non puoi neanche chiedere una conferma a qualcuno perché le tue difficoltà motorie ti creano qualche problemino nel farlo, allora no, non è affatto semplice essere sicuri di non aver sbagliato strada. Ma proprio neanche un po’. E comunque non ti preoccupare, mi dico. Appena non ti vedranno arrivare, ti verranno sicuramente a cercare! Ora non devi fare altro che andare avanti fino…
Mi blocco.
Mi raggelo.
Ma no… non è possibile!
E mo’, dove vado?
MA DOVE CAZZO E’ L’AUTODROMO?!
Sono arrivato a un incrocio a T. Davanti a me la strada è sbarrata da un paio di panettoni. O meglio: non è che sia proprio sbarrata, ma comunque il passaggio non è abbastanza largo per un risciò. E poi, al di là dei panettoni, il terreno sembra sabbioso. Evidentemente è qui che devo girare a sinistra. Sì, ma… Dove è l’autodromo?
Vado. Ma le cose non stanno andando come previsto. E questo non mi piace neanche un po’. Sto abbandonando il viale principale. Non è prudente, lo so, ma per un po’ rimarrò comunque ben visibile: se ripassassero, mi vedrebbero sicuramente! E poi, loro mi aspettano in cascina. L’appuntamento è là!
Arrivo a un altro incrocio. Ora ho tre possibilità: o attraversare la strada e proseguire diritto (però quella mi sembra una zona un po’ troppo boscosa), o immettermi in questa strada dove scorrazzano le auto (e non ci penso proprio!), oppure seguire questo controviale pedonale che costeggia la carreggiata delle auto. Sì, questa terza soluzione mi sembra la migliore: la seguo. Anche perché, in effetti, quelle auto devono pur fermarsi da qualche parte. Non è detto, ma magari vanno proprio all’autodromo. Procedo lungo il controviale, mentre le auto continuano a sfrecciare alla mia sinistra. Ecco. Ora ho completamente abbandonato il viale principale, non lo vedo più; e per ogni metro che faccio su questa strada, la tensione aumenta. Speriamo in bene, speriamo di aver fatto la scelta giusta!
No!…
Rallento.
No!…
Rallento.
No!…
Mi fermo.
Di nuovo. Per forza.
Nooo!… Ma porcaputtana! Ma non è possibile!… E che è?!
La strada è sbarrata, di nuovo. E questa volta non si tratta di semplici panettoni, tra cui, magari, potrei passare; no, è proprio sbarrata, chiusa!
Ansimo. Sento un brivido corrermi lungo la schiena: parte dalla cervicale e si snoda in tutto il corpo. Dondolo la testa da una parte e dall’altra, per sgranchire i muscoli del collo e scaricare la tensione. Scoppio in una risata isterica, giro la carrozzina, e mi affretto a tornare indietro. Ecco, ora sono proprio nei guai. Ma proprio Guai Guai Guai! Non vedo l’ora di tornare sul viale principale. Cazzo, adesso come faccio? Magari mi si scarica pure la batteria della carrozzina! Ma che coglioni!
Sono tornato sul viale principale, finalmente. Giro fiducioso la testa a destra e a sinistra, ma di Carletto & Co. neanche l’ombra. Ma che coglioni! Vado a destra e poi torno indietro, mantenendo una posizione ben centrale. Vedo scorrazzare molti risciò, ma nessuno con tre persone a bordo. Finalmente ne vedo uno con tre passeggeri. Mi sento sollevato. Alzo la mano sinistra e preparo un bel sorriso, pronto a fare un allegro cazziatone; ma quando il risciò si avvicina… devo ritirare tutto: mano e sorriso. Non sono loro! Ma che cosa aspettano a venirmi a cercare? Non si sono accorti che non ci sono? Qui devo razionalizzare i movimenti, non posso continuare così! Se mi si scarica la carrozzina, sono guai! E sì che Carletto è un professionista: dovrebbe ben sapere che potrebbe scaricarsi la batteria. Ma che coglione! Torno indietro, fino alla mappa del parco che avevo notato, e guardo dov’è la cascina. È un po’ lontana, ma decido di riprovarci.
Parto. Comincio a ripercorrere la stessa strada di prima, ma la tensione e la rabbia hanno raggiunto livelli ormai incontrollabili. Ma guarda un po’ cosa mi doveva capitare: il professionista coglione! Ma quando arrivo a casa, quelli dell’Organizzazione mi sentono! Che poi loro, quelli dell’Organizzazione, in effetti non hanno colpa: Carletto ha un curriculum favoloso, è normale che scegliessero lui! Chi poteva immaginare che, uno con un curriculum favoloso come il suo, potesse combinare una stronzata del genere? E ora, che faccio? Sto percorrendo di nuovo questa strada, e loro non ci sono ancora! Non posso continuare a girare così a caso: la carrozzina rischia di scaricarsi! Devo chiedere aiuto. Ma a chi? Anche ammesso di riuscire a parlare in modo abbastanza chiaro da farmi comprendere, a chi chiedo informazioni? Qui è pieno di gente, è vero, ma sono comunque tutti dei passanti: non è detto che sappiano dove è la cascina. Mentre cerco invano la figura di Carletto & Co., uno spiraglio si apre. Uno spiraglio di speranza. A forma di entrata. A circa venti metri da me, sulla destra, c’è una deviazione che porta a due colonne che delimitano l’entrata di un rione. Mentre mi avvicino guardo meglio: sembra un quartiere agricolo, e ci sono delle case. Sono un po’ in dubbio se entrare o no: si tratta comunque di abbandonare di nuovo il viale principale; consumerei batteria, il terreno lì è molto sconnesso, e il risultato è incerto. Ma comunque, se voglio chiedere aiuto, è lì che devo andare.
Varco l’entrata, e mi sembra di ritrovarmi in aperta campagna. Vado avanti per il sentiero sterrato stando ben attento a dove metto le ruote, per non ribaltarmi. Alla mia sinistra vedo un vecchio contadino raccogliere legna, qualche metro dietro a lui c’è un bel fuoco, e, un po’ più lontano, quasi di fronte a me, leggermente alla mia destra, una donna bruna sbuca dal cortile del rione, camminando a passo spedito. Sarà per l’aspetto giovane ed eretto, sarà perché, per esperienza, so che le donne sono spesso più sveglie di noi uomini, sarà per la mia naturale propensione verso il sesso femminile, ma opto per lei. Io opto per lei ma lei non opta per me, e devia verso un altro sentiero. Rimango stupito: pensavo che la mia fosse l’unica strada per entrare e uscire da quel rione; e invece, a quanto pare, no. Capisco subito che non la raggiungerò più e mi dirigo verso l’agglomerato di case, disposte a ferro di cavallo. Entro nel cortile e mi colloco nel centro. Lo spettacolo è deprimente e angosciante; mi sembra di essere capitato in una città fantasma. Case bianche e fatiscenti, con persiane verdi e porte marroni. Forse, una volta, erano belle, ma ormai i muri sono sporchi e scrostati, logorati dal tempo, e le porte, anche se chiuse a chiave, non danno certo l’idea di sicurezza e protezione.
Comincio a gridare (“Aiuto! Aiuto! Aiuto!”), ma la parola Aiuto ha una combinazione di lettere davvero ostica per me, quindi riesco a pronunciare solo la A, mentre tutte le altre lettere mi muoiono in gola.
Nessuno si affaccia. È inutile rimanere oltre.
Decido di tentare con il contadino. Torno indietro, ma… No! Dov’è?… Dov’è finito il contadino? Mi dirigo nell’esatto punto dove l’avevo visto prima; mi guardo intorno: il fuoco c’è ancora… ma il contadino no. No, non è possibile! Ho perso l’unico contatto che avevo! Calma, calma. Sta’ calmo e ragiona. Se ha preso della legna e al fuoco non c’è, vuol dire che l’ha portata da qualche altra parte. Ma dove?… A casa, certo: è andato a casa! Torno nel cortile, e scruto tutte le porte delle case. Laggiù, in fondo, ce n’è una aperta. Il contadino dev’essere là! Mi avvicino. Il contadino esce, mi guarda incuriosito, e mi viene incontro. “Hai bisogno di aiuto?“ mi chiede.
La sua voce fessa non promette nulla di buono, ma io faccio cenno di sì.
“Ti sei perso?”
La risposta esatta sarebbe “No, mi hanno perso”, ma, per semplificare, taglio corto e rispondo di sì.
Eh-eh! E mo’ viene il bello! In casi come questo, quando devi spiegare una tua impellente necessità ad un estraneo, devi proprio dimenticarti qualsiasi forma di preambolo, di sintassi, e di educazione, che impegnerebbero l’attenzione e il tempo dell’altro inutilmente, e concentrarti solo sull’informazione primaria in sé. Sono un po’ incerto sull’informazione da chiedere. Indicargli la borsa, per fargli prendere la mia agenda e telefonare a qualcuno, mi sembra troppo complicato; quindi, mi rimangono due possibilità: Cascina o Autodromo? ‘Fanculo l’autodromo!, mi rispondo. Lo guardo fisso negli occhi, e, scadendo bene le parole, dico semplicemente: “Cascina Costa Alta.”
“Cascina Costa Alta?! mi ripete. Come, mi ha capito? Sono sinceramente stupito: non mi aspettavo che ci saremmo capiti così, al primo colpo; mi affretto a dire di sì. Lui mi guarda un po’ perplesso. “Sei un po’ lontano: la cascina che dici tu è a due chilometri da qui.”
Io lo guardo sbigottito. Rimango senza parole, anche nella mente.
“Guarda: Tu, uscito da qui, vai a sinistra; poi, a un certo punto, vedrai un cartello con l’indicazione ‘Bocciodromo’. – Il contadino mi spiega tutta la strada, sembra facile, ma poi conclude: – Comunque, secondo me, non ce la fai ad arrivare, perché alla fine c’è una salita così. Hai capito?”
Dentro rabbrividisco, ma comunque non posso chiedergli di più: rispondo di sì, lo ringrazio, e, anche se insicuro, vado. Incontro di nuovo la donna bruna; sarei tentato di chiederle aiuto, ma ho paura che il contadino, vedendomi, possa rimaner male. Proseguo senza dir niente.
Esco dal rione e comincio a cercare febbrilmente l’indicazione per il bocciodromo, sperando sempre che la carrozzina non si scarichi. Finalmente la trovo, esulto, e la seguo. Ma anche quella strada porta da nessuna parte. Torno indietro sul viale principale, e mi guardo intorno. Ci sono? No, macché! Ma che gruppo di coglioni!… Ma che branco di handicappati! Decido di andare ancora alla mappa, per chiedere aiuto da lì. Ma che imbecilli! La mappa, oltre alla cartina del parco, mostra, in basso, sei cerchi con i luoghi più importanti del parco. Io mi posiziono il più vicino possibile, in modo da poter indicare con facilità Cascina Costa Alta. Comincio a gridare agitando le braccia, per attirare l’attenzione; le persone, però, non mi degnano neppure e tirano dritto.
Dopo un po’ vedo arrivare una famigliola – papà, mamma, e bambino -, e io, avendo una fiducia smodata nelle famiglie, gesticolo ancora di più. L’uomo mi vede sbracciarmi e gesticolare, mi guarda, e, con lo sguardo assente come il suo cervello, mi risponde: “Ciao!”
“Eh, Buonanotte!” lo saluto io.
Finalmente arriva un giovane pattinatore, castano e riccioluto; arriva sparato sui rollerblade, e, dopo qualche giravolta di rallentamento, si ferma proprio accanto a me. Io gli indico la cascina, e lui mi indica la strada; si assicura che abbia capito, e poi se ne va, sparato com’era arrivato. Vado, ricordandomi che a un certo punto devo girare a sinistra. Io vado, ma qui è tutto uguale. Dov’è che devo girare? Sono depresso, angosciato, non ce la faccio più. Il mio sguardo vaga alla ricerca di Carletto & Co., oppure, in alternativa, di qualche vigile o poliziotto a cavallo (so che esistono). Avrei voluto evitarlo, ma dopotutto… Cazzi loro: a mali estremi, estremi rimedi!
Non vedo nessuno.
C’è un viale a sinistra: lo prendo; ma mi sembra dannatamente uguale a quello che mi aveva portato alla strada carreggiata e al controviale pedonale senza uscita, e mi faccio prendere dal panico. Sono sull’orlo d’una crisi di nervi. Incrocio un uomo; vorrei chiedergli aiuto, ma è troppo impegnato con il suo cellulare. Proseguo.
Pochi metri davanti a me compaiono due ragazzi: lei è una deliziosa biondina, con i capelli lunghi e il viso rotondo, pieno di nei ma “pulito”; lui è bruno, capelli corti, viso tendente al rotondo ma con lineamenti più marcati. Mi vengono incontro. Io devo avere un’espressione abbastanza spaventata, perché lei mi chiede subito se mi serve aiuto, senza bisogno che io dica A: io mi affretto ad annuire.
“Ma è da solo?” si chiede lei con stupore e voce carezzevole, guardandosi intorno. E poi, rivolgendosi a me: “Ma eri con qualcuno?”
“Con un gruppo.”
“Vedi, era con un gruppo!” esclama, rivolta al ragazzo.
“Ma io non vedo nessuno”, risponde lui, scrutando l’orizzonte.
“Neanch’io” ribadisce lei.
Io scoppio in una piccola risatina isterica. Eh! Non ditelo a me!
“Guarda nella sua borsa, magari ha un numero da chiamare”, dice lei.
Io sto per assentire, ma lui, con un tono dolce e imbarazzato, dice: “No… Non me la sento di mettergli le mani in borsa .”
“Vabbe’… Andiamo in là, vedrai che li troviamo!” dice la ragazza, rivolgendosi a me. Io non sono proprio così ottimista, ma capisco che non mi abbandoneranno, e mi sento al sicuro. Li identifico subito come due angeli custodi mandati da Dio, e lo ringrazio. Sul serio! Io non sono particolarmente avvezzo a questo tipo di pensieri, non mi capita molto spesso di ringraziare Dio, e quasi mai lo faccio tempestivamente; ma, questa volta sì.
C’incamminiamo, e io mi mantengo qualche metro davanti a loro; abbastanza vicino perché capiscano che sono sempre con loro, ma abbastanza lontano perché possano continuare a godersi un po’ di intimità. Li sento ridere e scambiarsi paroline affettuose. È un piacere sentirli: mi fanno andare indietro nel tempo; agli amori giovanili dei miei primi amici. Sì, è proprio un piacere sentirli. Parlano tra loro, ma so che sono con me. Sì, loro sono con me, e sento lei dire: “Ma l’hanno lasciato solo? Ma che gente è?… Ma come si fa a lasciarlo solo?”
Sogghigno, con soddisfazione e sollievo. La tipa è sveglia, ha colto proprio nel segno: non pensa che mi sono perso, pensa che mi hanno perso!
Arriviamo al viale principale, ci guardiamo intorno, ma… Toh, che strano. Non c’è nessuno.
“Io non vedo nessun gruppo. Se ci fosse un gruppo, lo vedremmo”, dice lei con aria smarrita e stupefatta.
“Che facciamo, chiamiamo i vigili?” propone lui.
“No, aspetta. Magari in borsa ha un numero da chiamare!”
“Ma a me non va di mettere le mani nella sua borsa”, ribadisce lui, timido e imbarazzato al tempo stesso. Mi fa proprio una bella impressione: il rispetto, quasi reverenziale, che ha per me e per la mia privacy mi colpisce e mi commuove. Ma questo non è il momento della riservatezza, e faccio chiaramente capire che non deve farsi problemi e di guardare pure nella mia borsa.
“Ecco, vedi, vuole che guardiamo nella sua borsa; giusto?”
Annuisco con veemenza. “Ho una agenda” mi dico, scandendo bene le parole.
“Hai un’agenda?” ripete lei. Poi, vedendo la mia espressione meravigliata, mi fa: “Sei stupito perché ho capito? Ma io sono abituata con i bambini, faccio la maestra. Eh sì: la maestra Lisa capisce sempre tutto!”
Maestra? Ma come maestra? Io pensavo che andasse ancora a scuola.
Chiedendomi ancora una volta il permesso, il ragazzo comincia a frugare nella mia borsa, maneggiando ogni cosa come fosse una reliquia antica di immensa fragilità, finché trova la mia agenda.
“Chi dobbiamo chiamare?” mi chiede Lisa.
La cosa più facile sarebbe far aprire l’agenda alla prima pagina, dove ho i numeri dei miei familiari e parenti, e far chiamare i miei genitori. Ma, se lo faccio, mia madre si terrorizza. So di non avere il numero di quell’imbecille di Carletto, ma so di avere quello di Filomena, una delle assistenti che era rimasta in cascina con altri ragazzi. So di avere il suo numero di casa; spero di avere anche quello di cellulare. Dico di aprire l’agenda alla lettera F, indico il nome di Filomena, ma… Ho soltanto il suo numero di casa! Il cuore mi sale in gola, ma non dico niente. Lisa prende il mio cellulare, lo accende, ma si accorge che dovrebbe mettere il pin per attivarlo; e, anziché chiedermi il codice, mi rimette via il telefono, chiedendo al ragazzo di usare il suo. Io lo lascio tentare. C’è ancora una piccola possibilità, una fievole speranza: Asdrubale, il neo-ex fidanzato di Filomena, in quel momento potrebbe essere proprio lì, a raccogliere le sue cose.
Asdrubale risponde. Il ragazzo gli parla, e deve ripetergli due volte che mi hanno trovato a girare da solo in mezzo al parco di Monza, e che sono molto agitato; gli dà il suo numero di cellulare, di cui, purtroppo, memorizzo solo le prime tre cifre, e gli dice di richiamarlo per fargli sapere dove dobbiamo trovarci. Riattacca, e ci riferisce che Asdrubale si è incazzato e ha detto frasi del tipo: “Ma come da solo?… Ma sono impazziti?”
Il cellulare suona: è Carletto. Il ragazzo non riesce fargli capire dove siamo, e allora gli dice che li aspetteremo all’incrocio dove c’è la mappa.
Ci avviamo. Io vorrei chiedere al ragazzo il suo numero di cellulare, per poterli richiamare, ringraziare bene, e magari, perché no, rivederli con un po’ più di tranquillità per chiacchierare un po’; vorrei proprio farlo, ma, invece, mi blocco: mi stanno aiutando, stiamo procedendo verso un obiettivo ben preciso, non voglio distogliere la loro attenzione, per magari agitarli o imbarazzarli. Tanto, penso, Carletto e Asdrubale ce l’hanno. Sicuramente me lo daranno. Do la precedenza a una parola, una soltanto, che devo per forza dire ora, se no poi, nella confusione, magari non riesco più a pronunciare: “Grazie.”
“Di niente, figurati!” risponde prontamente lei.
Chiedo a lui come si chiama.
“Mauro”, dice sorridendo.
Lei si affretta a ridirmi che si chiama Lisa, ma in realtà il suo nome l’ho già memorizzato da prima. “E tu?” fa lei, con voce gioiosa.
“Sergio.”
“Ah, Sergio.”
Arriviamo all’incrocio, e ci mettiamo proprio accanto alla mappa; così, giusto per essere sicuri che ci vedano. Lisa e Mauro sono di fronte a me, e, mentre stiamo aspettando che arrivino, inaspettatamente, veloce come un lampo, tra loro schiocca e sboccia un bacio. È un bacio-lampo, reciproco e simultaneo, un bacio giocoso, uno di quelli che solo due fidanzatini possono scambiarsi. Un bacio fresco, giovane, primaverile, che si fonde perfettamente con i colori di questa bella giornata. Non posso trattenere un moto di contentezza. Loro se ne accorgono e scoppiano a ridere, creando tra noi un legame magico e indissolubile.
Arriva Carletto, incredibile ma vero, con il pulmino dell’Organizzazione. Scende e, anziché dire frasi del tipo Come stai?… Scusami. Ma che pirla sono stato! oppure Grazie, ragazzi! Davvero, grazie mille!, comincia a sfottermi dicendo che non ho il senso dell’orientamento; e quando Lisa gli dice “Guarda che era molto spaventato! “ lui rincara la dose, facendo i versi che di solito si riservano ai bebè, e sostenendo che mi stavano cercando dappertutto e che, comunque, era tutto sotto controllo.
Minchia! Lo mando subito, e più volte, affanculo. Non gli dico dove deve mettersi il pulmino solo perché sul pulmino devo salirci anch’io. Mentre uno degli assistenti, senza proferir parola, mi carica di gran carriera, ho solo il tempo di un ultimo fugace sorriso con i due ragazzi. Lisa e Mauro sono lì; probabilmente si aspettano che Carletto dica loro qualcosa. Io lo guardo con due occhi grandi così. Adesso li ringrazierà, sì. Arriverà a capire che deve ringraziarli! No, macché! Carletto non arriva a capire neanche questo! Sale sul pulmino, e parte.
Mi guardo intorno, e mi accorgo che la compagnia è cambiata, a parte Carletto e l’assistente che mi aveva caricato sul pulmino. Non sono quelli che erano partiti con me dalla cascina, sono quelli che erano rimasti dentro. E ci sono pure dei miei compagni in carrozzina! Sono scioccato. Ma come? Venite a cercare me, e, anziché organizzare un gruppo di soli assistenti in modo da poter essere più liberi nei movimenti, vi portate dietro le carrozzine? No, non è possibile! Non è proprio possibile!
Filomena, seduta accanto a me, è al telefono con Asdrubale. Mi dice che Asdrubale poi mi darà il numero di cellulare del ragazzo, e io, contento, lo ringrazio. Filomena comincia a farmi domande a raffica, come se potessi spiegare in cinque minuti cosa mi era accaduto, e alla fine, bella bella esclama: “Sai, Sergio, di questa storia potresti scrivere un racconto!”
“Sì, sì… Contaci!”
Cascina Costa Alta, Ore 15.30
Mi trovo qui, nel salone. Sono tornato da poco, e ora sto mangiando. Mi sento ancora un po’ scosso per quello che mi è accaduto. Tutti mi hanno accolto con un grande applauso, è vero, ma nessuno mi chiede niente. Perché? Neanche Guido e Viola, i due assistenti con cui ho più confidenza, mi chiedono niente; neanche come sto. Perché? Il cellulare di Carletto suona: è mia madre. Carletto le dice “che ho fatto una cosa…!”, facendole supporre che si tratti di una bricconata.
La saluto, dicendole solo che ora sto bene. Tanto, penso, ho tutto il tempo per far rabbrividire familiari, parenti, e un nugolo di amici!…
Quando ho iniziato a scrivere questo racconto, non immaginavo che venisse così lungo. Il fatto è che nelle mie molteplici narrazioni orali, per quanto fossero dettagliate, ho sempre tagliato i particolari dei miei pensieri, delle sensazioni, e degli imprevisti che incontravo, parti fondamentali della vicenda, per non affaticare troppo l’ascoltatore; quindi, quella che mi ricordavo all’inizio, al momento della premessa, era solo la versione “orale”, non quella “integrale”. Poi, scrivendo, mi è riaffiorato in mente tutto. E solo così, solo mettendo tutto quello che avevo visto e provato e pensato, espressioni da educanda infuriata comprese, potevo trasmettere esattamente quello che avevo vissuto, scandendo l’evoluzione della mia paura “momento per momento”, che comunque ho sempre dominato. Ma se la paura non ha mai governato la mia mente, ha però dominato quella degli assistenti, che, accomunati da un malsano concetto di unione di gruppo, si sono fatti fagocitare tutti dal terrore. E questa vicenda, purtroppo, ha un epilogo delirante. Io, in cuor mio, so già che deciderò di non querelare Carletto, anche se potrei diventare ricco con estrema facilità; un po’ perché appartengo comunque a una famiglia di santi, e un po’ per non creare dei problemi all’Organizzazione, che, in fondo, non ha colpa. Però non mi va di dirlo subito, e lo tengo per me. Filomena mi scrive un’e-mail dove mi dice che mi ha visto un po’ agitato e di confidarmi pure con lei, se voglio. Io mi fido, le scrivo in due righe quello che penso di Carletto, e lei non mi dice più nulla, né per e-mail né a voce. Gli altri assistenti, anche quelli che credevo affezionati, non mi dicono più nulla al riguardo; e quando mi vedono, fanno finta che sia successo niente. Non solo. Ma non riesco neppure a ottenere il numero di cellulare di Mauro: né Carletto né Asdrubale, che oltretutto me l’aveva promesso, l’hanno tenuto, compiendo così un atto gravissimo, deplorevole e senza senso (senza senso in tutti i sensi!), degno di un racconto non giallo, ma noir. E pensare che io li volevo solo ringraziare, quei due ragazzi. E l’ho più volte specificato a Carletto, ad Asdrubale, e all’Organizzazione, che volevo solo ringraziarli… L’unica vera soddisfazione in questa vicenda è essere riuscito a cavarmela in una situazione difficile e imprevedibile, e di aver scoperto di possedere, forse, più capacità di quelle che sospettavo. Quest’anno il Destino si è dimostrato un mio grandissimo fan, procurandomi parecchi colpi di scena… tra cui l’incontro con Lisa e Mauro. Spero proprio che un giorno, magari con l’aiuto di qualcuno o la complicità di qualche appuntamento di Alacran Edizioni, possa procurarmi un altro colpo di scena e farmeli incontrare di nuovo.
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COME IN FAMIGLIA
di Sergio Rilletti
Zagarolo, ottobre 1943
Lisa, uno scricciolo biondo di appena otto anni, era là fuori, a guardare l’immensa distesa verde che si estendeva verso nord-ovest. Alla sua sinistra c’era il bosco; alle sue spalle, la casa; e, sparsi un po’ ovunque, compreso lungo il sentiero da dove arrivavano le persone, una moltitudine di filari di vigneti diversi.
Sì, Lisa era lì, immobile, a pochi metri dal bosco.
Ma lei non aveva paura del bosco; perché, dal bosco, non spuntavano i lupi. Almeno non per lei.
I lupi, per Lisa, avevano le ali.
Lei li sentiva arrivare quand’erano ancora lontani. Arrivavano rombando, e devastavano tutto l’ambiente con i loro proiettili e le loro bombe.
I lupi volanti non ululavano, ma facevano ululare le sirene d’allarme nelle città.
Lei, però, non era più in città, a Milano, vicina ai suoi genitori e alle sue sorelle; era a Zagarolo, una località agricola vicino alla capitale, dalla famiglia di zia Nella. L’aveva portata lì suo padre, circa due mesi prima – a causa degli incessanti bombardamenti che subivano le grandi città – lontano da loro, ma al sicuro tra le braccia accoglienti di zia Nella.
Erano passati due mesi, ormai, e lei era ancora lontana dalla sua famiglia: senza avere la possibilità di avere notizie, senza telefono. Ma lei, Lisa, era sempre in contatto con i suoi genitori: ogni giorno si metteva ai margini di quell’immenso prato verde, sempre a guardare nella medesima direzione, e con la forza dell’immaginazione lo percorreva fino all’orizzonte, fino a Milano.
Improvvisamente lo sentì arrivare, rombando.
Lei si paralizzò. La voce spiegata di Marta, che stava sopraggiungendo di corsa dalla casa, sovrastava il ringhio del lupo volante. Il rombo dell’aereo diventava sempre più forte, le grida concitate di Marta si avvicinavano. Il lupo si scaricò, e, mentre l’ordigno precipitava a meno di cinquanta metri da lei, Marta stava arrivando a tutta velocità.
La bomba precipitò, e si infossò nel terreno; non esplose, per fortuna, ma sollevò un’immensa coltre di scorie che offuscò il cielo. Marta, dall’alto dei suoi vent’anni, si tuffò sul corpicino dell’adorata cuginetta, proteggendolo dalla pioggia di detriti.
Quando la pioggia cessò e il rombo dell’aereo scomparve, Marta si sollevò, guardò Lisa, ed emise un profondo sospiro di sollievo.
Si avviarono verso casa. Zia Nella corse loro incontro con due braccia larghe così; le abbracciò.
Il pomeriggio, Lisa lo trascorse in compagnia di Marta e Guglielmo, in salotto, ad osservare i loro sguardi e ad ascoltare l’Italiano stentato di lui. Marta sorrideva, impegnandosi con caparbietà nel suo ruolo di maestra.
Era una scena divertente, per una bambina come Lisa, e anche Marta – con la sua lunga chioma riccia e nera – sembrava divertirsi; anche se in realtà, all’insaputa della piccola, le orecchie della ragazza erano ben tese verso l’esterno, pronte a captare qualunque segnale d’allarme. Non che Zia Nella avesse qualcosa da nascondere, non per il suo animo almeno, ma rispetto a certe persone che frequentavano la casa, sì, era meglio che non mostrasse quanto fosse grande il suo animo.
E i suoi figli, Dario e Marta, avevano preso da lei.
Dario in quel periodo era a letto ammalato, ma Marta si stava impegnando, da parecchi giorni, ad insegnare l’Italiano a Guglielmo. Non perché lui fosse analfabeta, ma perché non era italiano.
Né lui né Bruno e Franco, i suoi due compagni.
I loro veri nomi erano William, Frank, e Brown; lui e Frank erano americani, Brown era inglese.
Fuggiti da chissà dove, erano sopraggiunti qualche giorno prima e avevano chiesto di rifugiarsi lì; e Zia Nella, per la quale tutti gli esseri umani bisognosi d’aiuto erano un essere umano unico, aveva accettato.
Non era detto, però, che tutti quelli a cui prestava aiuto era opportuno che si incontrassero; specialmente in quel periodo, in cui i ruoli dei nemici e degli alleati non erano più ben definiti e si rischiava di essere mitragliati da aerei americani che fino a pochi giorni prima erano nostri nemici, o di essere uccisi da soldati tedeschi che fino a pochi giorni prima erano nostri alleati. Oppure, per non far morire un regime ormai agonizzante, di essere perseguitati da militi in camicia nera che erano addirittura nostri connazionali.
Zia Nella comunque aiutava sempre tutti. Molti anni prima che Fabrizio De André componesse la sua canzone-capolavoro Il pescatore, Zia Nella aiutava già tutti. Indistintamente.
E Marta non era da meno. Lì, bella sorridente e con tutti i sensi all’erta, stava insegnando l’Italiano ad un fuggiasco americano, con soldati tedeschi installati nel circondario che potevano venire da un momento all’altro.
Arrivò la sera, e Dario era ancora a letto con la febbre.
Lisa, Zia Nella, Marta, e altri due cugini dell’età di Lisa – ospiti anche loro di Zia Nella -, erano in salotto, quando arrivarono Hans e Fredric, due soldati tedeschi che ogni sera andavano a gustarsi un bel bicchiere di vino prodotto da quella famiglia.
Entrarono allegramente in quella casa, dove sapevano di trovare un po’ di calore umano, uniti da un senso di simpatia, da parte dei tedeschi, e di fraternità, da parte di Zia Nella.
Già, ma come avrebbero reagito i due simpatici tedeschi se avessero scoperto che quell’accogliente famiglia prestava attenzioni anche ad un gruppo di loro mortali nemici? La famiglia di Zia Nella non lo sapeva, ma era opportuno non scoprirlo. I due soldati erano simpatici, ma era meglio non scoprire fino a che punto erano stati condizionati dal loro esercito.
Hans depositò un sacco di arance sul tavolo, e scompigliò allegramente i capelli biondi di Lisa.
Zia Nella ringraziò mestamente per le arance, che dovevano essere trasformate in spremute per Dario, e le affidò a Marta, che andò subito in cucina.
Mentre Marta preparava la spremuta, Zia Nella riempiva i bicchieri col loro buon vino per riscaldare l’animo di quei due soldati che erano lontani da casa, e Hans aveva preso sulle ginocchia Lisa esclamando – Pella Pampina Pionda! Ja, ja! –, dal piano di sopra si udì un tramestio e una breve frase concitata.
I due tedeschi si guardarono. Né Hans né Fredric avevano capito le parole, ma non sembrava la stessa lingua di quella famiglia.
Il silenzio fu totale.
Hans e Fredric notarono anche quello. Fredric si alzò. Aveva ancora le mani sul tavolo, quando la vocina di Lisa lo fermò: — E’ Guglielmo –.
– Gugljelmo??? – le domandò Hans con espressione buffa.
Zia Nella decise di intervenire: — E’ un nostro cugino –.
Marta comparve sulla soglia, con un bicchiere di spremuta in mano. – Vado da Dario – disse con un sorriso che irradiava gioia di vivere.
Fredric si mosse.
– Vuoi venire anche tu? – disse, inarcando le sopracciglia in modo ospitale. – Dài, vieni! –
Marta era snella e graziosa, era bello seguirla.
Passarono davanti alla camera degli ospiti, ma da lì non proveniva più alcun rumore: Guglielmo e i suoi compagni si erano paralizzati.
– Gugljelmo? – chiese il soldato, fermandosi per puro caso davanti alla camera giusta.
Marta si girò. – No, è per Dario – disse mostrando il bicchiere e fingendo di non capire. Si avviò a passi lunghi verso la camera del fratello.
– Dove è Gugljelmo? – la bloccò di nuovo Fredric, scandendo bene le poche parole che sapeva.
Lei si voltò piano. – Boh!… Sarà in bagno – rispose, stando ben attenta a non guardare verso la stanza degli ospiti.
Bussò ed entrò da Dario. Andò subito dal fratello, porgendogli la spremuta. – Ciao, come stai? –
Lui grugnì qualcosa dondolando la testa, e bevve.
– Guarda, è venuto Fredric a trovarti! –
Lui si avvicinò e gli disse, in tono affettuoso, un’incomprensibile frase in tedesco.
– Ja, ja! – rispose Dario a qualunque cosa avesse detto Fredric. Il tedesco scoppiò a ridere, confidenzialmente, a denti stretti.
Marta si congedò dal fratello, muovendo le dita della mano per salutare, e uscì. Arrivò davanti alla stanza di Guglielmo & compagni e, senza alterare il passo, l’oltrepassò; Fredric la seguì.
Giunto di nuovo in sala, Fredric si sedette e, in compagnia del suo amico Hans e di quell’allegra famiglia, bevve quel bel bicchiere di buon vino che gli aveva versato la donna.
I minuti trascorsero inesorabili, e per i due soldati venne il momento di tornare dai loro commilitoni. Zia Nella li accompagnò fuori dalla porta, con Marta alla sua destra e Lisa al centro.
– Cjao, Pella Pampina Pionda! – disse Hans, scompigliandole i capelli. Lisa ricambiò con un bellissimo sorriso.
Improvvisamente, vedendo Marta, Fredric si rabbuiò un po’: c’era un fatto che non era stato chiarito. Alzò lo sguardo lasciandolo vagare al piano superiore, dove era stato con la ragazza dopo aver sentito il rumore e quelle strane parole.
I cuori di Marta e Zia Nella si fermarono, ma le due donne mantennero la loro compostezza, infondendo sicurezza e serenità a Lisa.
Hans, conoscendo bene l’amico, lo distolse dal suo pensiero spronandolo ad andare.
I due soldati tedeschi e la famiglia italiana si salutarono cordialmente, dandosi appuntamento per l’indomani sera. Come sempre.
Lisa li salutò con la manina, aspettandoli per il giorno dopo e spalancando, per sempre, il suo cuore verso gli altri. Verso tutti gli altri.
Sono passati tanti anni, e Lisa è diventata una donna (nonché mia mamma); anche se, in effetti, non sono ben sicuro che si chiami proprio così.
Zia Nella, Marta, e gli altri personaggi di quella famiglia non li ho mai conosciuti, ma sono sempre stati dei miti per me, protagonisti di tante storie incredibili. Questo racconto vuole essere un piccolo omaggio a loro, anche se nella realtà hanno nomi diversi, a cui sarò sempre molto grato per aver protetto così bene la mia futura mamma.
Sì, perché la storia che ho raccontato è basata su fatti realmente accaduti; il minimo di finzione che ho aggiunto serve soltanto ad esaltare in poche righe ciò che quella famiglia ha fatto per molti mesi.
E tutto è andato bene, per fortuna. Altrimenti non avrei potuto raccontarvi questa storia.
Né questa né altre storie.
Perché non sarei mai esistito.
©Sergio Rilletti, 2007
Scritto martedì, 16 giugno 2009 alle 21:18 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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