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mercoledì, 10 giugno 2009

IL MARESCIALLO BONANNO E I PERSONAGGI SERIALI. Incontro con Roberto Mistretta

Con questo post vi invito a discutere sui personaggi seriali che popolano la letteratura. Sono tantissimi. Pensateci un attimo: dallo Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle, a Hercule Poirot di Agatha Christie; dal commissario Maigret di Georges Simenon al commissario Montalbano di Andrea Camilleri.
E ce ne sono tanti altri… e non solo nell’ambito della cosiddetta letteratura di genere. Basti citare – uno per tutti – Nathan Zuckerman di Philip Roth.

Vi chiedo:

Che rapporti avete con i personaggi seriali in letteratura?
Vi piacciono? Vi appassionano? Li detestate?

A vostro giudizio, chi è il personaggio letterario seriale più importante? E perché?

E qual è il vostro preferito? Quello a cui siete più legati?

Sarebbe bello riuscire a creare, nell’ambito di questo post, una sorta di “mappa” dei personaggi seriali che hanno attraversato le pagine dei libri. Ci proviamo?

Colgo l’occasione per ri-presentarvi un personaggio seriale di nuova generazione: il maresciallo Saverio Bonanno, ideato da Roberto Mistretta. Avevamo avuto modo di incontrarlo nell’ambito di questo post. Di recente è tornato in libreria con il romanzo “Il diadema di pietra“, anche questo edito da Cairo (in fondo al post potrete leggere la recensione di Salvo Zappulla).

Ma chi è il maresciallo Bonanno?
Ecco come si vede l’interessato a pag. 27 de “Il diadema di pietra”:

Bonanno si esaminava con occhio impietoso e disfattista: sbirro di provincia prossimo alla quarantina, perennemente in soprappeso, per non dire grasso, con una figlia già grande, un’ex moglie scappata di notte con un trapezista, una madre come donna Alfonsina e due cani che amava come veleno per topi.

Insomma… tutto un programma, questo Bonanno.

Ne approfitto per invitarvi alla presentazione catanese de “Il diadema di pietra” che si svolgerà presso la libreria Cavallotto di Catania – in C.so Sicilia – venerdì 12 giugno alle h. 18,00. Condurrò la presentazione insieme a Enrico Guarnieri (in arte, Litterio) e con la partecipazione dello stesso Roberto Mistretta.
Segue l’invito.
Massimo Maugeri
presentazione-il-diadema-di-pietra-cavallotto-12609.jpg

—————–

Il diadema di Pietradi Roberto Mistretta (Cairo editore, 2009, p. 314, euro 16)
recensione di Salvo Zappulla

Con questo romanzo Roberto Mistretta continua la fortunata serie del maresciallo Bonanno che tanto sta appassionando i lettori tedeschi e si avvia a ottenere lo stesso successo anche in Italia. Bonanno è personaggio sanguigno, vulcanico, fondamentalmente buono di carattere, detesta le soverchierie e non sopporta regole e gerarchie. Per questo piace. E se – come in questo caso- riesce pure a innamorarsi diventa persino vulnerabile. (Il diadema di Pietra, Cairo editore, pagg. 314, €16,00). Mistretta come sempre riesce a far vibrare le corde dell’animo umano, ci sbatte sul muso meschinità terrene oltre ogni immaginazione. E così due storie apparentemente lontane tra loro procedono parallele per chiudersi a incastro nel finale. Le piccole beghe di corna in un paese dell’entroterra siculo, assunte a dramma a causa dell’assassinio dei due amanti. Quale mano ha premuto il grilletto? Un ladro? Uno dei coniugi traditi? A Bonanno spetta sbrogliare la matassa. E le vicissitudini di un ragazzino albanese costretto in fretta e furia a diventare adulto per colpa di belve senza scrupoli che stuprano, saccheggiano, uccidono senza mai volgere lo sguardo al cielo. Uomo mangia uomo. Mishna ha un paio di stivali da recuperare e deve portare a compimento la propria missione. Ne va del suo onore. Ma l’innocenza non potrà mai più recuperarla. Come lui tanti altri bambini nel Kossovo. Bonanno ha la sua giustizia da salvaguardare e, quando c’è di mezzo il sangue versato di persone innocenti, non si arresterebbe neanche di fronte ai carri armati. Parte in quarta come un bufalo infuriato e se ne strafotte della deontologia professionale. A costo di rimetterci la carriera o di scontrarsi con un capitano presuntuoso. A costo di rinunciare ai suoi cannoli con la ricotta. E’ proprio questa la sua forza: la semplicità, l’autenticità, i suoi sbalzi di umore, le debolezze, i momenti di depressione che invogliano il lettore a parteggiare per lui. Un eroe – antieroe che conquista e ne fanno uno dei marescialli più amati della letteratura noir contemporanea.

Salvo Zappulla

——————–

AGGIORNAMENTO DEL 13 GIUGNO 2009

Aggiorno il post con alcuni video relativi a personaggi seriali che dai libri sono finiti sullo schermo. Inizio con una chicca: l’ultimissa versione di Sherlock Holmes. Ovvero, il trailer (sottotitolato) dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie interpretato da Robert Downey Jr. e Jude Law: il film arriverà nelle sale di tutto il mondo a Natale 2009.

Di seguito ne inserisco altri. Vi invito a guardarli e a… riconoscerli.
Qual è il vostro personaggio letterario serial-telvisivo preferito?

Infine… due chicche…


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Scritto mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:16 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

207 commenti a “IL MARESCIALLO BONANNO E I PERSONAGGI SERIALI. Incontro con Roberto Mistretta”

Nuovo post a “due corsie”.
Nella prima corsia vi invito a discutere sui personaggi seriali che popolano la letteratura.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:19 da Massimo Maugeri


Come ho scritto sul post… sono tantissimi: dallo Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle, a Hercule Poirot di Agatha Christie; dal commissario Maigret di Georges Simenon al commissario Montalbano di Andrea Camilleri.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:20 da Massimo Maugeri


Ovviamente ce ne sono tanti altri… e non solo nell’ambito della cosiddetta letteratura di genere.
Il Nathan Zuckerman di Philip Roth ne è un esempio.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:21 da Massimo Maugeri


Alcune domande per favorire la discussione…

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:21 da Massimo Maugeri


Che rapporti avete con i personaggi seriali in letteratura?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:22 da Massimo Maugeri


Vi piacciono? Vi appassionano? Li detestate?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:22 da Massimo Maugeri


A vostro giudizio, chi è il personaggio letterario seriale più importante? E perché?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:22 da Massimo Maugeri


E qual è il vostro preferito? Quello a cui siete più legati?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:23 da Massimo Maugeri


Proviamo a costruire una sorta di “mappa” dei personaggi seriali che hanno attraversato le pagine dei libri? Che ne dite?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:24 da Massimo Maugeri


Nell’altra “corsia” di questo post viaggia un personaggio seriale di nuova generazione. Il suo nome è Saverio Bonanno. È un maresciallo dei carabinieri.
Ha un padre (letterario).
Si chiama Roberto Mistretta

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:25 da Massimo Maugeri


Roberto Mistretta è tornato in libreria con “Il diadema di pietra” (Cairo). Nuova avventura di Bonanno e C.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:26 da Massimo Maugeri


Sul post potete leggere la recensione di Salvo Zappulla (che è invitato ad animare e regolare il “traffico” su questa “corsia” del post).

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:28 da Massimo Maugeri


Per il momento mi fermo qui e vi auguro buonanotte.
(Credo che questo post ci terrà compagnia per parecchi giorni).

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 01:28 da Massimo Maugeri


Purtroppo non amo i personaggi “seriali”…

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 08:50 da Fabio Lentini


Non ne farei una questione solo di gusto personale.
Direi invece che il personaggio seriale si insinua nell’immaginario collettivo e nel cuore se rappresenta e – al tempo stesso – svia il prototipo, se, pur calato in un ruolo, lo reinterpreta e lo capovolge, se nella “maschera” fa affiorare scaglie di umanità e finanche di imperfezione.
In questo modo ci somiglia.
Penso all’avvocato Guido Guerrieri creato da Gianrico Carofiglio, che ribalta la “maschera” dell’avvocato di grido, che non offre arringhe plateali ma sofferte, che malamente si tiene in equilibrio, che viene colto e raccontato non perchè principe del foro, ma perchè uomo in contrasto finanche con la professione. Col suo significato.
O penso a Harry Potter che non risolve tutto con la magia, che non può rimediare al lutto, che nonostante i poteri affidategli dal suo mondo, non è esentato dalla crescita e dalle sue scoperte.
Insomma, il “serial” deve spezzare la maschera. Non deve creare macchiette. Non deve essere artificioso. Anche se si insinua in “topos”.
Deve essere come noi, che infondo nella vita siamo “personaggi seriali”, che ci replichiamo sui nostri palcoscenici, ma che abbiamo guizzi e ferite solo nostre, uniche e dolenti.
Squarci nelle nostre notti, siamo.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 09:34 da simona lo iacono


Sono molto affezionata al Maigret di Simenon. Con lui ho trascorso parecchio tempo, ed è stato tempo speso bene.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 10:11 da Amelia


i personaggi seriali creano una sorta di fidelizzazione del lettore, che si sente coinvolto a conoscere gli sviluppi delle loro vicende, anche personali. a me piace molto kay scarpetta. la conoscete?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 10:29 da letizia di giacomo


In letteratura, in effetti, di “grandi” personaggi seriali ce ne sono. La loro presenza è fondamentale. Non si può sottovalutare il rapporto simbiotico che esiste tra alcuni personaggi, ed i luoghi in cui si muovono. Parigi l’ho conosciuta per la prima volta grazie al commissario Maigret di Simenon. Stesso posso dire per la Barcellona, molto meno sonnolenta della Parigi di Simenon, dell’investigatore privato Pepe Carvalo, nato dalla fantasia di Montalban. E come non amare il commissario Montalbano (Camilleri non può negarlo ha preso molto dal Pepe Carvalo di Montalban). Come non unirsi alle assurde situazioni che capitano a Benjamin Malaussène, di professione “capro espiatorio” del geniale Pennac.
Risposta a Simona Lo Iacono: perchè il personaggio seriale non può essere una macchietta ? Esistono personaggi seriali, appunto perchè diversi sono i personaggi, diversi sono gli scenari che si creano attorno a loro e diverse sono le intenzioni degli autori. Montalbano cresce. Il suo autore ce lo presenta sempre più stanco e rincoglionito. Addirittura lo fa quasi incontrare con il suo alter ego. Eppure è una macchietta. Una delle più interessanti e simpatiche del panorama internazionale dei personaggi seriali. E questo non sminuisce l’importanza e la serietà letteraria ed intellettuale dell’autore
Andrea

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 10:38 da Andrea


Come portatore insano di un personaggio seriale, devo dire che la cosa più bella è farsi partecipe di un mondo e andare a visitarlo ad ogni romanzo.
Seriale non è solo il protagonista ma il clima, i vestiti, i personaggi secondari. Si respirano un’aria e un’atmosfera che diventano cari allo scrittore prima che al lettore, che è bellissimo ritrovare e cercare.
Riscontro, tra i lettori che mi scrivono, il piacere di seguire non solo Ricciardi ma tutto il mondo di Napoli negli anni trenta. Magari l’autore non sarà granché, ma ai personaggi ci si affeziona.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 10:43 da Maurizio de Giovanni


un saluto al creatore del commissario ricciardi :)
quest’estate mi pappo i suoi libri

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:09 da letizia di giacomo


Grazie, carissima Letizia. Fammi sapere se riesci ad affezionarti a Ricciardi, e anche un po’ al suo autore.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:22 da Maurizio de Giovanni


Carissimo Andrea,
è molto bella e interessante la domanda che sollevi. Ma bisogna intendersi sul significato di “macchietta”.
La macchietta è una tipologia di personaggio che solitamente era associato alla canzoncina ironica e burlesca.

Nello spettacolo di varietà, nel periodo tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900, la macchietta era prevalentemente costituita da un numero comico. Aveva quindi per oggetto un “tipo” (la mantenuta, il ballerino, il deputato, la femminista, il prete, il benefattore, l’esattore delle tasse, il guappo, lo sciupafemmine …) presentato in modo caricaturale, esasperandone e deformandone il modo di esprimersi, di pensare, i caratteri fisici, comportamentali e psicologici. Era intrisa di allusioni spesso oscene, doppi sensi, volgarità, ma anche di spunti ironici, comici, sfacciatamente ridicoli, grotteschi, paradossali.

Avendo come unico obiettivo quello di fare ridere, non raggiunse il livello di satira di costume: il “tipo” presentato nella macchietta, analizzato in modo approssimativo e qualunquista, appariva spesso più come un caso isolato che come espressione della società del tempo.
Quando però fuoriusciva da questi prototipi e si venava di malinconie, sguardi, contenuti , la macchietta riusciva a mettere in luce ombre della società (un perbenismo di facciata, un conformismo bigotto, un opportunismo morale).
Pensiamo a Gastone (di Ettore Petrolini) o ai personaggi descritti da autori ed interpreti come Armando Gill, Ernesto Murolo o Aldo Fabrizi.
Ma già non erano più macchiette, nel senso grottesco del termine.
Erano personaggi.
Quindi non credo che Montalbano possa essere definito una macchietta nel seno tradizionale del termine (grottesco e caricaturale).
Ma un personaggio a tutto tondo, che pur con caratteristiche della personalità ben identificabili ( e finanche spassosissime) , cambia, si evolve, cresce, ride e piange con noi.
Grazie di questa bellissima occasione di dibattito.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:23 da simona lo iacono


Personaggi seriali ce ne sono tanti, nei classici che ci hanno tramandato il gusto di affezionarci a figure che la telvisione e i film hanno contribuito a rafforzare nell’immaginario collettivo.Io sono particolarmente legata A Maigret perchè adoro Simenon,ma molto più il Simenon dei romanzi,dove permane il soffio dell’animo di maigret in sfumature di nuovi personaggi e nuovi ambienti.Metterei anche,permettetemi, il grande Harry Potter,che ha avuto il pregio di avvicinare alla lettura tanti ragazzini che prima non prendevano un libro in mano e ha dato nuovo impulso alla “favola moderna” per gente senza età.Resto un pochino perplessa quando oggi sfornano personaggi seriali molti scrittori emergenti senza un vero sfondo storico e ambientale,senza particolari cure dei dettagli,secondo me solo perchè sanno che commercialmente “tira”.Ci sarebbe da fare una bella scrematura fra le proposte attuali,non tutto ciò che è seriale è automaticamente avvincente,anche Brooke e Ridge di Beautiful in fondo sono personaggi seriali,durano da più di 25 anni, sono seguitissimi,ma non credo che siano figli di una buona letteratura.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:27 da francesca giulia


Quella dei personaggi seriali è una vecchia ma sempre interessante questione. Non riguarda, in realtà, molto il lettore quanto invece l’autore. Perché se da un punto di vista la serialità fa “marchio”, dall’altro può rendere lo scrittore schiavo fino all’insofferenza, nonostante il successo. Proprio Conan Doyle, per esempio, in un romanzo decise di far morire Holmes in quanto lo scrittore non ne poteva più di essere legato a quel personaggio. Tanta e tale fu la disapprovazione popolare che Conan Doyle fu costretto a “resuscitare” Holmes in un successivo romanzo.
Io, ragionando dal punto di vista dell’autore, sono sempre stato piuttosto perplesso. Mentra da lettore, certe “serialità” mi hanno sempre affascinato moltissimo. Forse, quella alla quale sono più legato è la saga dell’87° distretto creata da Ed McBain.
Ovviamente, come appassionato del genere, apprezzo anche moltissimo parecchi degli esempi che sono stati citati negli interventi precedenti.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:37 da enrico gregori


Non mi sono mai soffermata sulla mia eventuale preferenza o no verso i personaggi seriali, sarà perchè di solito da una lettura all’altra cambio totalmente genere e autore. C’è n’è uno però di cui ho letto 3 episodi che mi ha fatto innamorare per la sua ironia e savoir faire. E’ frutto della contemporanea letteratura d’evasione, quella americana per essere più precisi, e anche se so che molti non saranno d’accordo io lo adoro. E’ il detective John Corey di Nelson DeMille. Ci tengo a sottolineare però che non sono tanto i romanzi ad essermi piaciuti quanto il protagonista.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:43 da Morgana


Caro Andrea
è molto bello anche l’accostamento che proponi tra personaggio seriale e città.
Credo che l’uno non possa prescindere dall’altra (Montalbano – Vigata, Avoccato Guerrieri – Bari, Harry Potter – Londra, Ricciardi – Napoli…ecc).
E forse sono proprio i personaggi seriali a raccontare meglio le città, a tagliarle con sguardi diversi, a darcene un’immagine inusuale e segreta.
Bravo.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:46 da simona lo iacono


Nella mia vita, mi affeziono alle persone, ai posti, agli animali, ai libri, alle musiche, ai film. E ho voglia/bisogno di frequentarli più e più volte, per approfondire la loro conoscenza e rinsaldare il nostro rapporto. Dunque mi interesso anche ai personaggi (sia quelli di cui scrivo, sia quelli di cui leggo o vedo i film/telefilm).
Tornare e ritornare a un personaggio, ai suoi comprimari e al suo mondo significa dare sempre più spessore alle nostre letture, scoprire le sfaccettature di un universo narrativo, rendere vivo e vegeto il romanzo facendolo uscire dalla carta per entrare a pieno diritto nella realtà.
Tra i cicli narrativi, ne citerò solo qualcuno.
Nel giallo: Maigret, che leggo e rileggo da quando (nel 1966) avevo dodici anni. Ma anche padre Brown (di Chesterton) e la squadra dell’87° Distretto (di Ed McBain), Sanantonio (di Sanantonio) e Sarti Antonio (di Loriano Machiavelli), Kinsey Millhone (di Sue Grafton) e Catarella/Montalbano di Camilleri. E qui mi fermo.
Nel fantastico: il torturatore e boia Severian (dello stupendo ciclo Nuovo Sole di Gene Wolfe, Fafhrd e Gray Mouser (del fantasy ironico e picaresco Nehwon di Fritz Leiber), Dominic Flandry (di Poul Anderson) seguito dalla giovinezza fino ai 65 anni, Tarzan di Edgar Rice Burroughs (di gran lunga superiore ai film).
Nel fumetto: Corto Maltese (di Pratt) e i Peanuts (di Schulz), Sandman (dell’omonimo ciclo di fantasy colta scritto da Neil Gaiman) , il western di sinistra Ken Parker (di Giancarlo Berardi), i Paperi di Carl Barks, lo Zanardi di Pazienza e il principe Valiant di Forster.
Nella narrativa mainstream, il Zuckerman di Philip Roth e Lucien Rubemprè di Balzac.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:50 da luciano / idefix


Io vado pazzo per i personaggi che mi danno appuntamento di libro in libro: mi offrono un pretesto per infiltrarmi nel loro universo. Per me è come realizzare uno dei sogni più antichi dell’umanità: quello di diventare invisibile! E proprio come se fossi diventato un essere invisibile, io penetro nel mondo dei personaggi seriali e mi aggiro qua e là, spio le stanze da letto (ah, il voyeur…), ma anche i salotti e le suppellettili, le automobili e le ricette di cucina, e quando chiudo il libro, so che l’eroe seriale mi ha già dato un appuntamento per la volta successiva. Li amo tutti. Proprio tutti. Se proprio devo esprimere una preferenza, il mio plauso va al malinconico e affascinante Philip Marlowe (che io, stranamente, non immagino con l’aspetto di Humphrey Bogart che lo ha incarnato nel mirabile “Il grande sonno”, ma con le fattezze di Cary Grant che era in effetti l’interprete a cui pensava Raymond Chandler quando descriveva il suo personaggio). Per me è una voluttà erotica immergermi come invisibile moscerino nella Los Angeles degli anni Quaranta, piena di attricette e malfattori, e in “Il grande sonno” non è forse un appetitoso bocconcino il personaggio della piccola ninfomane Carmen Sternwood? Un altro eroe seriale che mi manda in estasi è l’immarcescibile Hercule Poirot, creato dalla grande Agatha Christie, e l’esaltante “Assassinio sull’Orient-Express” contiene un topos che è anche il mio: quello del complotto di un gruppo in apparenza eterogeneo, ma in realtà estremamente coeso. Ed è anche un omaggio a quel libro il mio ultimo romanzo, “Presto ti sveglierai”, che a sua volta narra di un complotto ai danni di una donna. Amo anche i telefilm girati in Gran Bretagna su Poirot: costumi appropriati, ed eccellenti lezioni di regia, per cui ognuno di quei telefilm vale tre film italiani di oggi che, senza offesa per nessuno, sono diretti abitualmente con desolante sciatteria e non li va a vedere nessuno (per disinnescare eventualki polemiche, aggiungo che contemplo naturalmente le debite eccezioni). E, last but not least, un altro personaggio seriale di mio profondo gradimento è il Ricciardi di Maurizio de Giovanni. Nel suspence delle sue inchieste si è innescato (grazie alla bravura del suo autore, che ho la fortuna di conoscere e che trovo un uomo adorabile, di grande affabilità e civiltà) un altro tipo di suspence: quanto resisterà il buon Luigi Alfredo ai richiami del gentil sesso? Vincerà dentro di lui la paralizzante fascinazione del regno dei morti o l’odore della carne di donna? Aspettiamo tutti la grande scena erotica: e chi sarà la fortunata mortale? Enrica o Livia? O entrerà in scena una terza ammaliatrice? E a questo punto lasciatemi annunciare che sto per partorire anch’io un personaggio seriale. Sto scrivendo (riscrivendo, anzi, perché mi è stato esplicitamente chiesto di modificare la voce narrante e di tramutare quindi la prima persona in terza persona) la sua prima avventura, collocata a Napoli nel 1924, nei giorni caldissimi dell’affare Matteotti. Il libro avrà approssimativamente la struttura narrativa del film “Psyco” perché a metà cambierà bruscamente protagonista. Il primo dei due, alquanto negativo, lascerà il posto al secondo che, nell’arte di uccidere, gli è forse superiore. Altro non posso dire. Funzionerà questo progetto? Ai posteri l’ardua sentenza. Il cuore mi batte forte. Nel frattempo vi stringo in un abbraccio, Francesco Costa

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 11:56 da francesco costa


La storia che propone Francesco è intrigante e la sua è una meravigliosa scrittura; sono certo, anzi certissimo che la struttura seriale sia perfettamente consonante al mood di questo fantastico scrittore, lasciatemi vantare, napoletano.
Fiero di essere tuo amico, Francesco, e fierissimo di condividere le tue fantasie. La serialità è come costruire una nuova famiglia, niente di più bello per noi lettori.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:02 da Maurizio de Giovanni


« Cognizioni di Sherlock Holmes:

1. Letteratura – zero.
2. Filosofia – zero.
3. Astronomia – zero.
4. Politica – scarse.
5. Botanica – variabili. Conosce a fondo le caratteristiche e le applicazioni della belladonna, dell’oppio, e dei veleni in generale. Non sa nulla di giardinaggio e di orticoltura.
6. Geologia – pratiche, ma limitate. Riconosce a prima vista le diverse qualità di terra. Dopo una passeggiata, mi ha mostrato delle macchie di fango sui suoi calzoni indicando, in base al loro colore e alla loro consistenza, in quale parte di Londra aveva raccolto il fango dell’uno e dell’altra.
7. Chimica – profonde.
8. Anatomia – esatte, ma poco sistematiche.
9. Letteratura criminale – illimitate. A quanto pare, conosce i particolari di tutti gli orrori perpetrati nel nostro secolo.
10. Suona bene il violino.
11. È abilissimo nel pugilato e nella scherma.
12. È dotato di buone cognizioni pratiche in fatto di legge inglese. »

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:31 da Manuela


@Francescoooooooo!!!!
Che bello! Un tuo personaggio seriale!!! Lo aspetto e lo divorerò!
Un bacio
Simo

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:32 da simona lo iacono


Non è grandioso, Mr. Holmes? :)

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:32 da Manuela


Vado pazza per il motto di Holmes:
« Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità. »

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:37 da Manuela


Ovviamente la citazione “Elementare, Watson!” (“Elementary, my dear Watson!”) è superflua.
Tutto questo per dire che per me Sherlock Holmes è il capostipite ed il più grande di tutti.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:39 da Manuela


Il diadema di pietra mi è arrivato ieri, lo leggerò al più presto e mi spiace di non poter presenziare alla presentazione di domani causa concerti scolastici. Un grande in bocca al lupo però!

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 12:40 da cinzia


Grazie infinite a Simona per la fiducia che ricambio e idem per Maurizio: a proposito di quest’ultimo, lancio un appello a chi si trovasse a Roma alle ore 18 di giovedì 2 luglio 2009! Chi si trovasse nella capitale il suddetto giorno, accorra alla libreria Bibli, sita in via dei Fienaroli nel cuore di Trastevere, e potrà avere il piacere di conoscere personalmente Maurizio de Giovanni che ivi presenterà (vi è piaciuto “ivi”?) la terza avventura del suo Ricciardi, edita da Fandango. Io ci sarò! Francesco Costa

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 13:32 da francesco costa


Io abito a Trieste e dunque la gran parte delle presentazioni, incontri, dibattiti, convegni, reading eccetera eccetera mi sono irraggiungibili.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 13:46 da luciano / idefix


Il personaggio seriale serve anche a far affezionare il lettore ai libri e ai luoghi, lo tiene sospeso in attesa di una nuova storia, di una nuova avventura. Se piace la prima volta, il lettore te lo sei affrancato per sempre.
Io sono cresciuta con miss Marple e Sherlock Holmes; in seguito sono arrivati l’anatomopatologa Kay Scarpetta, il detective Alex Cross, la poliziotta Jacqueline “Jack” Daniels, qualche altro che non mi ricordo ma che di certo c’è.
Degli autori italiani m’è piaciuto abbastanza il personaggio di Mirta/Luna della Palazzolo e l’ottimo commissario Ricciardi di Maurizio de Giovanni che per grazia di dio non è uno tra i tanti ma vive e opera in una Napoli del 1930.
Il più importante personaggio seriale non esiste, è un fatto soggettivo più che oggettivo.
Il maresciallo di Mistretta non lo conosco quindi non posso dire nulla se non: mi riprometto di leggere qualcosa.
Saluti a tutti!

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 13:54 da Simonetta Santamaria


Mi pare ci sia un gran proliferare ultimamente di commissari e marescialli nella produzione letteraria contemporanea. In particolare in Sicilia, terra che ha sempre vantato grande tradizione di scrittori. Penso a Valentina Gebbia e il suo particolare stile ironico (Dio benedica gli scrittori dotati di senso dell’ironia, hanno sempre una marcia in più rispetto agli altri), a Domenico Cacopardo, Gery Palazzotto, Piergiorgio Di Cara, Santo Piazzese, Ottavio Cappellani. Con buona pace di Calvino il quale sosteneva l’impossibilità di ambientare un giallo in Sicilia. Polemica ripresa ultimamente anche da Vincenzo Consolo che ribadisce la tesi del giallo poliziesco appartenente a un genere minore. Eppure i gialli, i noir sono i libri più richiesti in Italia e all’estero. Le ragioni sono molteplici e rispettabilissime; forse la gente trova in essi il desiderio di appagare un’ingiustizia, di ristabilire un ordine attraverso la condanna dell’omicida. Questo dimostra che il lettore alla fine è sempre quello che decide le sorti di un libro, in barba a qualsiasi polemica.
Insomma, quantomeno da un punto di vista squisitamente letterario il territorio siciliano sembra sotto controllo, tanto da infondere una sicurezza ingannevole. Mi capita, a volte, se mi ferma una pattuglia delle Forze dell’Ordine, di sentirmi tranquillo. Sarà la pattuglia del maresciallo Bonanno, mi dico. E’ un bonaccione, me la cavo con un vassoio di cannoli o, mal che vada, mi faccio raccomandare dal buon Mistretta. Il risveglio è assai più duro: “Quale minchia di Bonanno, Moltalbano sono…”

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 14:13 da Salvo zappulla


Il personaggio seriale crea fidelizzazione. Ci si affeziona a lui e si scruta la sua anima preoccupandoci di come sta andando la sua vita.
Capisco anche l’affezione che per lui prova il suo autore. Diventa come un amico di famiglia e ad ogni romanzo scritto si entra sempre più in sintonia con lui. Lo scrittore segue il suo personaggio e lo fa crescere, in umanità e anche in grandezza letteraria.
Però.
Io credo ci sia un però.
Dopo tante storie con lo stesso personaggio e dopo che lui è cresciuto tanto sotto le dita del suo creatore, potrebbe diventare una presenza ingombrante.
E inoltre potrebbe essere un vincolo troppo pesante trovarsi a scrivere storie di cui conosci già il personaggio principale.
Dove finisce l’effetto sorpresa di cui anche l’autore ha bisogno?
In che modo mantenere viva la passione per le proprie storie?
E se il personaggio seriale ingoiasse il suo autore e gli rubasse la ‘mano’?

Scusate, stavo già scrivendo una storia.
L’argomento mi prende. Arrivo proprio dalla lettura dell’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni e non posso fare a meno di pensare al caro Ricciardi. E queste domande me le sono fatte proprio durante la lettura di Il posto di ognuno.

Di Mistretta e del suo Bonanno non ho ancora letto e non posso dire nulla per ora.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 14:56 da morena fanti


[...] dimenticavo: un post interessante sui personaggi seriali, da non confondere con i killer [...]

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 15:12 da Sarò breve – diciannovesima lezione « Solo io e il silenzio


mi piacciono questi personaggi seriali (e le città seriali) nella letteratura poliziesca:
jb adamsberg/parigi della scrittrice fred vargas, pedra delicado/barcellona della gimenez-bartlett. due commissari, di cui il primo assolutamente out, che gettano una luce piuttosto nuova sul mestiere del poliziotto.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 15:25 da lucy


Mio caro Maigret,
sarà probabilmente sorpreso di ricevere una lettera da me, dal momento che siamo stati separati per circa sette anni. Quest’anno è il cinquantesimo anniversario del giorno in cui, a Delfzijl, ci siamo incontrati per la prima volta. Lei aveva circa quarantacinque anni, mentre io venticinque. Ma lei ha avuto la fortuna, da allora, di trascorrere un certo numero di anni senza invecchiare. [...]
Quindi, quanti anni avrebbe oggi? Non ne ho idea, dato questo privilegio di cui ha beneficiato per così a lungo. [...] Non so se lei sia ancora vivo, nella sua piccola casa in campagna di Meung-sur-Loire, né se vada ancora a pescare, o se, indossando il suo cappello di paglia, si prenda ancora cura del giardino, o se la signora Maigret le prepari ancora i piatti che le piacciono tanto, o se, come ho fatto io raggiunta la sua età, vada a giocare a carte nel bistrot del villaggio.
Quindi siamo qui, due pensionati, e spero che, anche lei, si stia assaporando le piccole gioie della vita, respirando l’aria del mattino, osservando con la stessa curiosità la natura e ciò che ci circonda.
Ero ansioso di augurarvi un felice anniversario, a lei e alla signora Maigret. Le dica che, grazie a un certo signor Courtinel, che si merita il titolo di “re dei gastronomi”, le sue ricette hanno viaggiato in tutto il mondo, e che, per esempio, sia in Giappone che in America meridionale, i gourmet non tralasciano quelle poche gocce di liquore alle prugne da aggiungere al loro coq au vin.[...] Vi abbraccio caramente, lei e la signora Maigret che probabilmente non sospetta che ci siano tante donne che la invidiano, e che molti uomini avrebbero voluto sposare una donna come lei, e che un’affascinante attrice giapponese, tra molte altre, abbia interpretato il suo ruolo alla televisione, mentre un attore giapponese interpreta lei.

Con affetto,

Georges Simenon

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 17:08 da Georges Simenon: lettera a Maigret


La fantasia è un’ottima serva, ma una pessima padrona. La spiegazione più semplice quasi sempre si rivela esatta.
[da 'Poirot a Styles Court']

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 17:27 da Hercule Poirot


Sicuramente il Maresciallo Bonanno è un personaggio che non può non entrare nel cuore del lettore. è talmene umano da essere insopportabile a volte. talmente vero che è impossibile non innamorarsene.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 18:23 da Nino Genovese


Maigret innazitutto, poi Marlowe (ma io trovo Robert Mitchum perfetto nella parte, col suo aspetto da “cane da botte”, più di Bogart o di un ipotetico Cary Grant), più recentemente Montalbano cui ancora più recentemente si è aggiunto Ricciardi. Questi i miei preferiti.
Tutti detective in qualche modo quelli più popolari, anche citati qui, a partire da Sherlock Holmes e fino a Kay Scarpetta e allo stesso Harry Potter, che deve ogni volta smascherare i piani del malefico Voldemort e neutralizzarli. E una ragione ci sarà.
Fuori dal genere poliziesco i casi sono molto più rari (forse in passato ce ne erano di più: basti pensare a Salgari, a Dumas, a Tarzan di E.R. Burroughs ): oggi c’è Zuckerman di Roth, dice Massimo, ma più che un personaggio seriale è l’alter-ego dello scrittore e mi pare un caso particolare e “a parte”.
Poi qualcuno ha citato Malausséne di Pennac. Mi chiedo: è letteratura “di genere” o lo diventa proprio grazie alla sua serialità?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 18:27 da Carlo S.


@Simo(nuccia)

…Deve essere come noi, che infondo nella vita siamo “personaggi seriali”, che ci replichiamo sui nostri palcoscenici, ma che abbiamo guizzi e ferite solo nostre, uniche e dolenti.
Squarci nelle nostre notti, siamo.

Questi quattro righi meriterebbero di essere incorniciati, bastano da soli a far venire i brividi. Cosa si nasconde dietro lo schermo freddo di un computer? quali volti? quali cuori? Palcoscenici dei tempi moderni dove possiamo esibirci, mostrare il nostro carattere brillante ed estroverso. E continuare a piangere in silenzio, non visti.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 19:52 da Salvo zappulla


@Nino. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa la tua fidanzata di questo innamoramento incondizionato per Bonanno.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 19:55 da Salvo zappulla


Cari amici, intanto un ringraziamento collettivo per i vostri interessantissimi commenti…

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:11 da Massimo Maugeri


I personaggi seriali hanno il pregio di abbarbicarsi al lettore che, quando inizia un nuovo libro, già sa cosa ha da aspettarsi dal protagonista ed eventualmente segue più la vicenda e le caratteristiche del seriale che l’autore deve dosare con prudenza. Alla lunga, però, finiscono con lo stancarmi, tranne in due casi: il Maigret di Simenon, forse perchè il talento dello scrittore è indiscutibile, e il commissario Ricciardi, di de Giovanni (ma in questo caso c’è da dire che i libri sono ancora pochi, per la precisione sono tre, di cui due, i primi, già letti con vero piacere).

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:13 da Renzo Montagnoli


@ Simona
Bello il collegamento tra personaggio seriale e immaginario collettivo, e alla… “maschera” che fa affiorare scaglie di umanità e finanche di imperfezione.
Ed è vero: anche noi, nella vita, siamo personaggi seriali…

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:14 da Massimo Maugeri


Caro Renzo, il nostro Maurizio sarà ben felice dell’accostamento a Simenon:-)
Gli auguriamo un eguale successo.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:19 da Massimo Maugeri


Un saluto a Fabio, Amelia, Andrea e Letizia.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:19 da Massimo Maugeri


@ Maurizio de Giovanni
Caro Maurizio,
tu ancora non lo sai (perché non ne abbiamo parlato), ma sarai presto ospite di Letteratitudine per discutere insieme a noi della terza stagione dell’ottimo commissario Ricciardi.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:20 da Massimo Maugeri


Ho detto Maurizio: Ma perchè Le stagioni del commissario Ricciardi? Solo 4 sono, dovevi fare almeno i mesi!

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:23 da Renzo Montagnoli


Per chi non lo sapesse…
abbiamo già avuto modo di discutere delle precedenti avventure del commissario Ricciardi, qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/13/maurizio-de-giovanni-filippo-tuena/
e qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:23 da Massimo Maugeri


@ Francesca Giulia
Per fortuna Brooke e Ridge di Beautiful non sono personaggi (seriali) letterari.
Ma meglio non dirlo “troppo forte”.
Non si sa mai:-))

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:25 da Massimo Maugeri


@ Enrico
Proprio vero. A un certo punto Conan Doyle provò a far fuori Holmes… ma fece male i suoi conti. Il personaggio era più forte del suo autore.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:27 da Massimo Maugeri


Beh, l’accostamento, improprio, fra Simenon e de Giovanni, sta nel fatto che Maigret e Ricciardi sono personaggi di grande umanità, fanno il loro lavoro con zelo, ma non si lasciano mai prendere la mano. Per altri aspetti del carattere tuttavia sono dissimili. Non parliamo poi dello stato civile, con un Maigret ammogliato, e un Ricciardi innamorato non dichiarato della dirimpettaia. E poi c’è altro che li distingue: Maigret ama la buona tavola e un bicchiere di quello doc, mentre per Ricciardi mangiare vuol dire soprattutto la necessità di alimentarsi.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:27 da Renzo Montagnoli


Un caro saluto a Morgana, Manuela, Lucy e Nino Genovese.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:28 da Massimo Maugeri


Grazie, Renzo. Però sono sicuro che Maurizio ha molto apprezzato l’accostamento (che ne dici, Maurizio?)

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:29 da Massimo Maugeri


Io mi limito a dire che Simenon e de Giovanni hanno caratteristiche diverse, ma comunque valide.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:31 da Renzo Montagnoli


@ Luciano
Caro Luciano, hai tratteggiato una bellissima mappa delle tue “letture seriali”. Grazie.
Io conosco un personaggio seriale che si chiama Michele Crismani.
Ne sai qualcosa?:-)

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:31 da Massimo Maugeri


Renzo, sono d’accordissimo con te.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:31 da Massimo Maugeri


@ Francesco Costa
Caro Francesco,
ci stai dando una bellissima notizia. Quando pensi che vedrà la luce questo nuovo figlio letterario?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:32 da Massimo Maugeri


a me piacciono molto i personaggi in serie. oltre a quelli nominati, che però non conosco bene tutti, a me piace molto il personaggio dell’alligatore, di massimo carlotto e tutti gli altri che vivono nei suoi libri. il bello della serialità è, oltre a quello che dice francesco costa e che sottoscrivo, il sentirsi parte di una cosmogonia, essere al centro della costruzione di un mondo che ti sorprenderà ogni volta ma che, anche, ti rassicurerà. il fascino, almeno per me, sta lì. capisco gli scrittori di noir che pensano di sentirsi legati dalla costruzione di un personaggio fisso ma, invece, a me sembrerebbe come dire, liberatorio, immaginare qualcuno e costruirgli la vita, passo passo, farlo essere come si vuole, insomma, diventare dio, almeno per un po’.
melania ceccarelli

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:33 da melania


Ringrazio moltissimo anche Cinzia, Simonetta e Morena.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:33 da Massimo Maugeri


Cara Melania, grazie per il tuo commento. Sì, Massimo Carlotto è un grande. Peraltro è un amico. Prima o poi lo inviterò qui.
È la prima volte che intervieni?
Nell’eventualità: benvenuta a Letteratitudine!:-)

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:36 da Massimo Maugeri


Carlotto è più un autore di noir che di gialli, però è valido.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:37 da Renzo Montagnoli


@ Salvo Zappulla
Con i pasticci che combinano alcuni tuoi personaggi è meglio che tu eviti di scrivere storie con “personaggi seriali”.
Sai a cosa mi riferisco:-)

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:37 da Massimo Maugeri


Caro Carlo,
poni una bella domanda: la letteratura “di genere” diventa tale proprio grazie alla sua serialità?
Gli altri cosa ne pensano?

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:39 da Massimo Maugeri


Sono d’accordo con Carlo.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:40 da Renzo Montagnoli


Domani dovrebbe intervenire Roberto Mistretta, al quale chiedo (intanto) di raccontarci come è nato il maresciallo Bonanno.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:40 da Massimo Maugeri


Beh, ora vado a interpretare il mio personaggio seriale preferito, quello di uno che va a letto, si legge una decina di pagine di un buon libro, poi spegne la luce e s’addormenta beatamente.
Buona notte.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:46 da Renzo Montagnoli


Buonanotte a te, Renzo. E buonanotte a tutti gli amici di Letteratitudine.
Per oggi chiudo qui anch’io…

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:56 da Massimo Maugeri


grazie del benvenuto, è la prima volta che commento ma non è certo la prima volta che leggo!

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 22:58 da melania


Buonasera a tutti gli amici di questo blog.
Sono appena rientrato da una presentazione e intervengo con ritardo.
Si parla di personaggi seriali e il buon Massimo mi ha chiamato in causa avendo scritto ben sei romanzi e un libro di racconti con lo stesso personaggio ovvero il maresciallo Saverio Bonanno, più altri libri per bambini con gli stessi protagonisti, e una trilogia col commissario siculo-americano Gelo Duncan.
La serialità ci conforta perché ritroviamo vecchi amici e in loro riconosciamo i nostri difetti e le nostre virtù.
Come credo molto di voi, anch’io sono cresciuto con personaggi seriali. Ieri Paperino ha compiuto 75 anni. Quante avventure ho vissuto con questo papero e con la brigata Disney: Topolino, Pippo, MInnie, Pluto, Paprone, Paperoga, Qui, Quo, Qua, la banda Bassotti.
La mente vola all’infanzia e la lista si allunga, per passare ai personaggi dell’adolescenza: Tex Willer, Zagor, Capitan MIki, Il grande Blek, Mister No e per finire ai fumetti dei maestri sudamericani: L’eternauta, Savarese, Dago, Nippur di Lagash.
E poi i tanti romanzi con personaggi immortali e talmente amati dai lettori che si sollevarono contro i loro stessi autori che avevano deciso di farli morire. Nel secolo scorso avvenne con Sherlock Holmes, in tempi più recenti con Belascoran, detective sui generisi (ex ingegnere che un bel giorno dice basta alla sua vita grigia a Città del Messico) inventato da Paco Ignacio Taibo II.
Col mio maresciallo Bonanno ormai conviviamo da diversi anni e potrei dire che siamo diventati amici e quando una storia mi opprime e non mi lascia dormire, so che ci sarà lui a darmi una mano nel tirarla fuori, portandomi là dove la sua indole mi guida.
Io racconto drammi sociali, lui stempera la tensione con le sue battute, la sua ironia, le sue pene amorose, i litigi con donna Alfonsina, mamma sicula vecchia maniera, e coi suoi problemi coi colleghi a cominciare dal supermacho maresciallo Marcelli.
In origine non avrebbe dovuto essere così. Bonanno era nato per fare da cornice ruspante ai quadri foschi che mi premeva raccontare, storie dure come l’incesto, la pedofilia, la guerra vista attraverso gli occhi dei bambini (tema portante de Il diadema di pietra). Sennonché il personaggio ha vampirizzato le storie fin dalla sua prima apparizione e quindi m’è toccato dargli una vita, trovargli una donna, mettergli accanto degni comprimari, costruirgli un passato e garantirgli un futuro.
Proprio in questi giorni ho concluso una sua nuova avventura dove dovrà fare i conti con lato buio che ognuno di noi si porta dentro.
Ma non sempre è agevole scrivere con lo stesso personaggio, si corre il rischio di ripetersi e al contempo di commettere degli svarioni, la scrittura seriale necessità di metodo. Ogni personaggio deve avere caratteristiche ben precise da ripescare di volta in volta. Sotto questo punto di vista si tratta di un ottimo esercizio mentale.
Ma sarebbe riduttivo se un personaggio seriale si riducesse soltanto a questo. La verità nuda e cruda è che quando un personaggio funziona si parte già con la consapevolezza che nei tortuosi percorsi che accompagnano la stesura di un romanzo, il tuo personaggio sarà lì a darti una mano e quando ti impantani e non sai come districarti dai lacciuoli che hai creato, con uno dei suoi guizzi lui riesce a farti riprendere la storia e a condurti per mano.
Per questo credo che i personaggi seriali quando sono ben caratterizzati, diventano immortali e sono amati da milioni di lettori in tutto il mondo.

Postato mercoledì, 10 giugno 2009 alle 23:42 da Roberto Mistretta


I personaggi seriali che amiamo ci fanno conoscere luoghi e mentalità di altri popoli o regioni. Stimolando le nostre capacità investigative, la nostra perspicacia, il nostro modo di fiutare avvenimenti e animi. Ci immedesimiamo in loro per dare – in fondo – delle risposte a noi stessi. Quelle risposte che da soli non riusciremmo mai a dare. Secondo il mio punto di vista, sia chiaro.
Personalmente amo più degli altri Maigret e Mr. Holmes.
Ma … Sì, il maresciallo Bonanno potrebbe diventare uno dei miei specchi.
In bocca al lupo! A. B.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 01:59 da ausilio bertoli


Condivido appieno il punto di visto di Ausilio Bertoli (il suo nome già mi intriga, chissà che non lo utilizzi per uno dei miei personaggi). Ogni personaggio porta in sé la cultura del proprio tempo e dei luoghi dove vive. Bonanno profuma di Siciia. Allego i primi due capitoli de Il diadema di pietra per dare l’idea.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 07:32 da Roberto Mistretta


ROBERTO MISTRETTA

IL DIADEMA
DI
PIETRA

ROMANZO
Profonde e amare sono le radici dell’odio
Che alimentano la brama di vendetta

1

Agatina Piditella si svegliò aspirando l’acido di chi giace senza
gioia. Unghiate maligne sulle pieghe del ventre morto.
Sonno agitato e sapore di fallimento.
Scese dal letto, il respiro rotto dall’angoscia. Il bacio gelido
del marmo le provocò un brivido sulle cosce. Rimase
in sottoveste, soffocando la voglia di urlare e fare a pezzi
quella stanza. L’austero palazzo barocco dov’era stata felice,
ora le andava stretto come una prigione. Da ragazza
aveva creduto agli uomini e alle loro promesse, ma gli anni
erano passati lasciando soltanto rughe sulla pelle e cicatrici
nell’anima.
Si mosse in silenzio verso la finestra, per non svegliare suo
marito che continuava a russare ignaro di tutto. Fuori albeggiava.
La Montanvalle era un profluvio di colori arancio e
turchese. Le campane della chiesa di Santa Lidia Purpuraria
riverberavano i primi bagliori del mattino, che si alzava dietro
le gibbosità delle colline. Il centro storico di Villabosco
galleggiava nel silenzio, avvolto nella nebbia come nella bambagia.
Un gallo salutò il giorno. Non era raro trovare nelle
case in pietra del quartiere delle vecchine che tenevano ancora
un pollaio per fare colazione con un tuorlo fresco mescolato
a marsala e zucchero, uno zabaione denso e gustoso,
che sapeva di famiglia.
Agatina respirò a fondo. Si riempì i polmoni cercando il
giorno anche dentro di sé, ma trovò soltanto rancore e solitudine.
Un rumore sordo la fece girare. Lui aveva steso il braccio
dalla sua parte, cercandola tra le pieghe del letto.
Lo fissò: un tempo l’aveva amato. Si era sentita protetta
da lui, così solido e sicuro, e lo aveva sposato. Al ricordo di
quel giorno felice, Agatina sentì il sangue ribollire nelle vene.
Si guardò allo specchio. Era giovane e bella. Occhi gitani le
scompaginarono i pensieri: l’albanese la desiderava, glielo
aveva letto in faccia, e nulla come la bramosia della carne
muoveva il mondo. L’idea di liberarsi di suo marito la ossessionava.
La calibro 38 era al solito posto. L’afferrò saggiandone
consistenza e peso, poi la puntò verso il letto e prese la mira.
Bum, fece piano con la bocca.
Sorrise.
Il sole picchia sulla pelle scottata.
È una rovente domenica di luglio. Il maresciallo Saverio
Bonanno passeggia sul bagnasciuga di Gallipoli, gronda sudore
e benedice quelle magnifiche giornate. Fatica a trattenere
la pancia mentre assapora i raggi che gli carezzano la
cuticagna. In momenti così il paradiso è a portata di mano: il
maresciallo immagina il collega Marcelli che dà la caccia ai
grassatori di capre e pecore nella lontana Villabosco, mentre
il sindaco Totino Prestoscendo sputacchia e protesta. Lui invece
è lì, a godersi le grazie di picciotte unte di crema che si
rosolano sulla spiaggia pugliese.
«Capperi, maresciallo, io sto congelando!»
Bonanno fu risucchiato dall’afa delle spiagge dove aveva
trascorso una settimana ad agosto e ripiombò nella sua fredda
realtà di sbirro di provincia.
«Se siamo sicuri che il merlo è dentro, per quale motivo
dobbiamo saziarci di corrente ghiacciata?» disse il brigadiere
capo Attilio Steppani, facendo il verso siciliano.
In effetti, la tramontana soffiava e l’aria, già in odore di
nevischio, tirava schiaffi che ubriacavano come vino sanguigno
di Sicilia. Soltanto ladruncoli o carabinieri come loro si
azzardavano ad andare per le stradine di Villabosco con quel
tempaccio. Erano appostati da ore nell’antro di un portone
in pietra nel quartiere della Madonna dei Sette Miracoli.
Bonanno fulminò Steppani con uno sguardo minaccioso:
«Resta con gli occhi aperti e non fiatare, non voglio sprecare
due ore d’appostamento per colpa tua. Il merlo è in casa,
Steppà, ma prima di muoverci ci serve una prova».
«Sarà, ma se continuiamo a restare qua, domattina saranno
gli spazzini a levarci di mezzo. Sto diventando un
pupazzo gelato, e a saperlo col piffero che mi facevo coinvolgere
in questo calappio» replicò il brigadiere. Lui, nato
e cresciuto nell’opulento Nord Italia, scimmiottava d’istinto
la parlata del suo ursigno maresciallo. Ma non era cosa
con Bonanno.
«Steppà, vedi di finirla» rispose Bonanno accompagnando
la frase con il movimento a violino delle mani. Steppani
intese la sonata: tempo addietro il maresciallo aveva minacciato
di piantargli una pallottola nel piede incollato sull’acceleratore
dell’Alfa 156, mentre il brigadiere abbordava le
curve della Montanvalle a tutta velocità. Il maresciallo non
sopportava le sue fisse da pilota rally, e quel movimento delle
mani era un avviso ben chiaro a piantarla.
«Facciamo così: fumo questa sigaretta e andiamo a pren-
derlo» aggiunse Bonanno. Cominciava a patire pure lui i primi
sintomi da congelamento.
«Era ora» rispose Steppani col naso purpureo e gli occhi
lacrimosi.
L’appostamento continuò. Bonanno voleva mettere i ferri
ai polsi di Peppino Mangiaracina, detto Porcufinu, piccolo
delinquente di paese. Quella testa di legno aveva rovinato
l’auto nuova del sindaco Totino Prestoscendo e il maresciallo
gliel’aveva giurata. Tutto era cominciato col mancato accoglimento
della richiesta di aumentare il contributo economico
a sostegno della famiglia di Mangiaracina: una moglie e
una caterva di figli, per lo più affidati ai vari istituti della
Montanvalle. Al diniego dell’ufficio Affari sociali, controfirmato
da Prestoscendo, Mangiaracina aveva minacciato sfaceli,
s’era incatenato davanti al palazzo comunale di Villabosco,
nessuno se l’era filato e alla fine se n’era tornato a casa.
Lo smacco però gli era rimasto di traverso, e una sera, mentre
il sindaco prendeva parte a Campolone a un convegno
dove si discuteva sulle future strategie turistiche da adottare
nella Montanvalle, Peppino vendeva noccioline e ceci abbrustoliti
agli astanti. Nel retro del suo scassato furgone teneva
un bidoncino. Il furgone perdeva olio ai freni e così, di
volta in volta, Porcufinu ne aggiungeva dell’altro travasandolo
dal contenitore.
Accadde che quella sera l’olio corrosivo finì sulla Ford
del sindaco, magnifica berlina da quarantamila testoni con
interni in pelle e vernice metallizzata. Prestoscendo aveva
aspettato un anno per ritirarla, rovinandosi il fegato a causa
dei continui rimandi del concessionario, che aveva già intascato
un sostanzioso anticipo. Visto che Porcufinu era stato
maldestro e qualcuno lo aveva notato, Prestoscendo aveva
presentato regolare denuncia all’Arma, pur sapendo che a
chiedere il rimborso dei danni avrebbe perso solo tempo.
Per competenza territoriale, il caso spettava al maresciallo
Michelozzi, comandante della Stazione di Campolone. Il
sindaco però riteneva Bonanno responsabile del mancato arresto
del vandalo e aveva presentato, per mezzo dei suoi referenti
politici, lagnanze verbali e scritte al colonnello Eugenio
Latella, comandante provinciale che aveva in simpatia
Bonanno come un attacco di dissenteria. Inutile spiegare al
sindaco che in mancanza della flagranza, ben poco poteva
fare. Prestoscendo non gli dava pace, lo perseguitava perfino
in ufficio con la storia di Porcufinu e della sua bella macchina
rovinata. Bonanno cercava di evitarlo, ma non c’era verso
di sfuggirgli. Per sua fortuna Mangiaracina aveva altri conti
in sospeso con la giustizia e così, quando Bonanno si ritrovò
tra le mani il mandato di carcerazione emesso dal Tribunale
per vecchie pendenze, festeggiò con tre piatti di trippa e fagioli
rossi maritati con pomodori, peperoncino e pecorino
stagionato.
Porcufinu doveva scontare cinque anni dietro le sbarre.
Le condanne, dopo i vari gradi del processo, erano diventate
definitive, ma avutone sentore – mai che gli avvocati si facessero
gli affari propri – si era reso irreperibile. Bonanno detestava
il ruolo di comandante reggente di Compagnia che pure
gli toccava per anzianità di servizio, e non sopportava più
le improvvisate del sindaco nel suo ufficio. Il tormento andava
avanti da tre mesi e pure la trippa gli aveva fatto acidità.
Quella sera Bonanno era convinto che fosse la volta buona.
Il calendario segnava il 19 marzo, festa di San Giuseppe;
nella Montanvalle per tradizione si allestivano imponenti tavolate
in onore del Santo falegname e c’era pure chi invitava
19 viccareddi – ovvero poveri – e apparecchiava loro un
pranzo degno di un imperatore. Con tali premesse, Peppino
Mangiaracina, proprio il giorno del suo onomastico, difficilmente
avrebbe rinunciato all’abbuffata. In un modo o nell’altro
avrebbe trovato il sistema di intrufolarsi e mangiare a
tradimento. Provando un poco d’invidia Bonanno lo vedeva
rimpinzarsi di leccornie e dolciumi, compresi quei finocchietti
selvatici fritti con le uova che a lui piacevano tanto,
pensando che sicuramente come digestivo si sarebbe sollazzato
sulle forme sfatte ma ancora sostanziose della moglie.
Con Steppani avevano preferito agire in borghese e per
non dare nell’occhio, avevano parcheggiato l’auto di servizio
in piazza, lontano e in bella vista, onde evitare che qualche
solerte amico soffiasse a Mangiaracina la sospetta quanto vicina
presenza degli sbirri.
Bonanno controllò l’orologio: quasi mezzanotte. Spense
la cicca. Bisognava agire. Steppani aveva ragione: le folate di
tramontana li stavano intirizzendo. La finestra al primo piano
si schiuse, mani carnose sbatterono un’enorme tovaglia,
liberandola dai rimasugli dell’abbondante libagione. Nina
Favarò, moglie di Peppino Mangiaracina, doveva aver già
messo a letto i figli che vivevano ancora con lei. Quella gran
tovaglia scutuliata a quell’ora di notte era la prova che Bonanno
aspettava. Una donna sola non mangiava tanto. Il
merlo era dentro. Non restava che andarlo a prelevare per
ficcarlo in gabbia.
L’abitazione di Mangiaracina si trovava al primo piano.
Ci si arrivava percorrendo una scala a cui si accedeva dal
portone esterno che quella sera era chiuso. Bonanno l’aveva
previsto e si era premunito portandosi dietro gli arnesi. Dopo
diversi tentativi andati a vuoto e lunghi minuti di febbrile
lavoro, che valsero a scaldargli le mani intirizzite e fargli
montare il nervoso, Steppani sbuffò: «Posso provarci io?»
Dandosi dell’imbecille per avere lasciato nel bagagliaio
della Punto il fidato piede di porco, Bonanno si fece da parte
con aria di sfida. Quel novellino pretendeva di insegnarli il
mestiere.
«È tutto tuo» disse stizzito.
Steppani infilò il ferro uncinato nella serratura, trafficò
qualche secondo poi si udì uno scatto. Con gesto plateale
Steppani si inchinò lasciando il passo al superiore: «Eccola
servita maresciallo».
«Come minchia facesti?» domandò Bonanno sconcertato.
«Glielo spiego un’altra volta, ora procediamo.»
«Io dico che usasti un trucco.»
«E a lei serve un corso accelerato di scasso. Andiamo?»
«E procediamo sì, buttana della miseria.»
Bonanno non si capacitava dell’abilità di Steppani nello
scassinare porte e lo scrutava con sospetto continuando a
mugugnare. Salirono le scale. Giunti davanti la porta di
Mangiaracina, la massacrò di pugni per sfogare la rabbia.
«Aprite, carabinieri!.»
Si udì un trambusto di sedie rovesciate e frasi concitate.
«Che volete a quest’ora?» prese tempo la donna.
«Aprite o sfondiamo la porta» minacciò Bonanno con voce
tonante.
Non aveva ultimato la frase che Steppani, con una poderosa
spallata, al grido «Quello ci scappa», buttò giù la porta
proiettandosi all’interno con un’acrobatica capriola. Ripresosi
dalla botta di sangue e già pensando ai danni da rimborsare,
Bonanno lo seguì a passo di carica. Steppani, era stato
lesto a rimettersi in piedi e ora stava fronteggiando Nina Fa-
varò. Sguardo feroce e determinato, il brigadiere stringeva la
pistola in pugno. La signora era in preda a un attacco di finissimo
scilinguagnolo: «Grandissimi figghi di buttana la
porta mi rovinaste».
«Dov’è suo marito?» domandò Steppani ispezionando
con lo sguardo la stanza. Bonanno era sconcertato: la sera
avanti il brigadiere doveva aver visto qualche poliziesco americano
tutto azione e pallottole.
«Ci dica subito dove si nasconde» disse a sua volta cercando
di darsi un tono. Di Peppino Mangiaracina non c’era
traccia. Accatastati nel lavello però, una montagna di piatti e
padelle unte testimoniavano il contrario: Porcufinu era rintanato
lì dentro.
La camicetta slacciata sul seno generoso, Nina Favarò
continuava a gesticolare e a inveire sbarrando il passo. La
porta della camera da letto era socchiusa, le coperte disfatte.
Come aveva supposto, dopo il luculliano banchetto, dovevano
aver deciso di smaltire le calorie con un poco di ginnastica
e loro due avevano guastato la festa. Per contenere gli ormoni
inappagati della donna, Bonanno passò alle vie di fatto.
Uno dei piccoli, svegliato dal trambusto, chiamava la mamma
dall’altra stanza, ma Nina Favarò non si muoveva. Parlava
e provocava i due carabinieri restando ben ferma sul logoro
tappeto della sala. Bonanno si insospettì.
«Steppà, sposta la signora» ordinò.
«Non ci penso proprio, peserà una quintalata!»
«Steppà: posa la pistola e pigliati la fimmina!»
«Perché non se la piglia lei?»
«Perché è un ordine di un tuo diretto superiore. Levala
da quella minchia di tappeto.»
Il tono non ammetteva repliche.
Steppani rinfoderò la pistola d’ordinanza, afferrò Nina
Favarò per le braccia e la allontanò di peso, beccandosi una
gomitata e un calcio nel collo del piede. Mentalmente li archiviò
con doppia sottolineatura nel libro dei favori da contraccambiare
al maresciallo.
Bonanno spostò il tappeto. Tombola. C’era una botola
mascherata nel pavimento. Sollevò il portello.
«Hai visto?» disse a mo’ di rimprovero a Steppani.
«Nuddu c’è dda sutta, marescià, sulu quarchi sorcio tintu
» si agitò la signora avvampando. Incurante di lei, Bonanno
fece cenno a Steppani di calarsi nella botola. Il brigadiere
discese i pochi pioli della malandata scala di legno e si guardò
attorno. L’oscurità allagava il locale, impossibile scorgere
qualcosa.
«Mi serve una torcia» disse Steppani.
«E dove la piglio?» replicò Bonanno.
«Qua non si vede niente.»
Bonanno sacramentò. Di chiedere in prestito alla signora
una candela o una torcia nemmeno a parlarne. I bambini intanto
s’erano svegliati tutti e due e frignavano. Doveva concludere
alla svelta, non voleva che i piccoli assistessero all’arresto
del padre. Si calò a sua volta nello scantinato, fece cenno
a Steppani di tacere e aspettare qualche secondo per abituare
gli occhi all’oscurità. Momenti lunghi una vita. Pure
Nina Favarò taceva. I bambini continuavano a piangere.
Nell’angolo più lontano c’era un vecchio materasso appoggiato
contro il muro. Sotto, spuntavano due piedi nudi.
Bonanno sorrise. Per vendicarsi delle angherie del sindaco
che fino a quel momento aveva dovuto sopportare, pensò di
giocare uno scherzo a Porcufinu.
«Lo sai che ti dico Steppà? Visto che la signora insiste che
qua sotto non ci sta nessuno, ora sparo qualche colpo in quel
vecchio materasso così magari becchiamo qualche sorcio nascosto.
»
«E io ci do una mano» rispose Steppani intuendo l’antifona
e tirando fuori il ferro. Bonanno fece scorrere il carrello
dell’arma. Steppani lo imitò. Clic clac.
A Peppino Mangiaracina detto Porcufinu, disarmato e
rannicchiato dietro il materasso, le gambe diventarono di
burro.
«FERMI!» gridò. Vi pigliò la testa? Non sparate, io sono,
Peppino Mangiaracina in persona fu Vastiano. Quale sorcio?
Non ce ne stanno sorci in casa mia, mi arrendo, non c’è bisogno
di sparare, arrestatemi pure!.»
Quando Steppani raccontò ai colleghi come avevano beccato
Porcufinu, le risate si sprecarono. Altro che sorcio, Porcufinu
era verde per lo spavento. Bonanno però non rideva, un
pensiero continuava a torturarlo: e se fosse partito un dannatissimo
colpo? Era già pentito di quella sua alzata d’ingegno
e il rimorso non lo aiutava a concentrarsi. Anzi, era un’autentica
tragedia. A farne le spese erano le sue unghie, già rosicchiate
fino alla pelle viva delle sue dita grassocce e nervose.
Che diavolo doveva scrivere nel rapporto? Come esporre
l’esatta sequenza della dinamica che li aveva portati ad arrestare
Mangiaracina detto Porcufinu? Al solo pensiero si sentiva
braccato e fumava in modo sconsiderato. Non aveva mai
avuto confidenza con carta e penna, peggio ancora con la
macchina da scrivere. A quelle incombenze da segretaria
preferiva appostamenti al freddo o sotto l’occhio del sole cocente,
ma purtroppo anche la burocrazia dell’Arma reclama-
va i suoi adempimenti. Decise di giocare sporco. Sollevò la
cornetta del telefono e ordinò perentorio: «Cacì, mandami
Steppani in ufficio».
«Comandate, marescià.» Occhio scuro e carnagione mediterranea,
il carabiniere scelto del suo Nucleo Operativo
Giovanpaolo Cacici, napoletano, adibito quel giorno alle
mansioni di centralinista, aveva intuito dal tono l’umore del
maresciallo e si affrettò a rintracciare il collega.
Soddisfatto, Bonanno tirò indietro la poltrona, intrecciò
le mani dietro la nuca e attese. Stava già pensando a come
imbastire un certo discorsetto, quando Steppani si presentò
col caffé. Cacici lo aveva avvertito del vento che tirava e un
buon caffé ristretto e zuccherato era la miglior carta per presentarsi
nell’ufficio del capo.
«Mi ha chiamato?»
«Accomodati, Steppani, pure il caffé portasti? Non c’era
bisogno di tanto disturbo. Ce ne fossero come te, allora sì
che le cose filerebbero come dico io.»
Il brigadiere cominciò a preoccuparsi: quando il maresciallo,
senza motivo apparente, si mostrava tanto ben disposto
e cerimonioso, c’era da aspettarsi la polpetta avvelenata.
Era stato così anche per l’appostamento di Porcufinu.
«Le serve qualcosa?» domandò prudente.
«La completasti la pratica di Mangiaracina?» domandò a
sua volta Bonanno sorseggiando il caffé. Era nero e bollente
come piaceva a lui.
Steppani si irrigidì: «Guardi che, in qualità di superiore
in grado, spetta a lei scrivere il rapporto.»
«Ci mettiamo a fare questioni di competenza ora, Steppà?
Lo sai quanta fiducia ripongo nelle tue capacità di segretario,
e poi partecipasti all’arresto, perciò….»
Lasciò il discorso a metà, fissandolo con uno sguardo indagatore.
«Perciò?»
«Perciò ora ti metti d’impegno e scrivi che da giorni eravamo
impegnati con verifiche e controlli per assicurare alla
giustizia un pericoloso latitante.»
«Porcufinu pericoloso? Quello di dannoso avrà al massimo
il ciondolo in mezzo alle gambe: ogni volta che lo usa
mette al mondo un figlio.»
«E va be’, levaci pericoloso e mettici camurriusu, fai come
ti pare. Allora siamo d’accordo?»
Da tempo tutti i rapporti a firma del maresciallo li trascriveva
lui, ma Steppani godeva a fare la commedia per il gusto
di obbligare Bonanno a trovare una scusa adeguata ogni volta.
Afferrò il fascicolo siglato Mangiaracina Giuseppe e uscì.
Mettere nero su bianco le proprie imprese gli era sempre
piaciuto, nel suo animo di pilota mancato si agitavano anche
smanie da scrittore.
Soddisfatto di se stesso, Bonanno terminò il caffé, accese
una nuova cicca e si rilassò. Anche quella era fatta.
Dopo l’arresto e le formalità di rito alla Centrale, Mangiaracina
era stato condotto in carcere la notte stessa. Se
n’era occupato Steppani, che fremeva all’idea di correre
all’impazzata giù per le curve e i tornanti che portavano a
Caltanissetta. Di notte il traffico era inesistente e Steppani
poteva scatenarsi. Lo aveva affiancato nella trasferta un
giovane collega in forza alla Compagnia da appena due
settimane. Il malcapitato ignorava la guida sportiva del
brigadiere e, dopo quaranta minuti da manicomio, era
sceso assieme a Mangiarcina, sottosopra e verdastro. Mai
latitante era stato più contento di varcare la soglia di un
carcere. Qualsiasi cosa era preferibile alla guida di quello
sbirro scriteriato.
Bonanno conosceva la passione di Steppani ma non aveva
detto nulla per quella galoppata fuori ordinanza: entro poche
ore gli avrebbe chiesto un’adeguata contropartita, sotto
forma di un bel rapporto dattiloscritto. Così andavano le cose
nella caserma di Villabosco, paesino di montagna sui monti
sicani da dove si dominava mezza Sicilia. Nelle notti di luna,
si potevano toccare le stelle e farci ghirlande di luce solo
allungando un dito. Un posto baciato dal cielo, ma preso a
calci dagli uomini. Aria pura e scempi di ogni genere. E a lui,
maresciallo dei suburbi, toccava il compito di fare rispettare
la legge, anche se Roma era lontana e in Sicilia ognuno aveva
la sua personale concezione di diritti e doveri. Immerso in
quelle considerazioni oziose, si rese conto con ritardo che
stavano bussando.
«Avanti» disse.
«Comandi maresciallo, c’è una visita per lei» disse il piantone
impalandosi sull’attenti.
«Di chi si tratta?» domandò Bonanno.
«Illustre maresciallo, carissimo! Appena appresa la bella
notizia sono venuto appositamente per congratularmi con lei
a titolo personale. Come sindaco di questa città, invece, le
farò ottenere un plauso ufficiale che, ne sono sicuro, seppure
non renderà giustizia al prezioso lavoro svolto per arrestare
quel delinquente, la renderà partecipe della stima e della riconoscenza
dell’amministrazione comunale che mi onoro di
presiedere» disse Totino Prestoscendo parlando tutto d’un
fiato.
Bonanno preso alla sprovvista, fulminò il povero piantone,
lo liquidò con un «Comodo, può ritirarsi ora» e cercò di
contenere l’entusiasmo di Prestoscendo, bloccandolo sulla
soglia. Dall’ufficio di fronte, Steppani si godeva la scena.
«Niente ringraziamenti sindaco, dovere di noi servitori
dello Stato.»
«Non sia modesto» replicò lui occupando la prima sedia
a tiro.
«Se tutti fossero ligi al dovere come lei, esimio maresciallo,
sono convinto che a Villabosco le cose andrebbero per il
giusto verso, altroché se filerebbero! E invece ci tocca ogni
giorno battagliare per educare mezza città al concetto di legalità,
al rispetto dell’ambiente, al rispetto degli altri. Lo sa
cosa hanno combinato i soliti vandali nei giardinetti rimessi
a nuovo? Hanno rotto tre lampioni e staccato una panchina
da trecento chili. Un pacco di quattrini presi dal bilancio comunale
ci avevo speso… mi chiedo: che senso ha rovinare dei
beni che tutti usano?»
Forse perché quei beni sono targati Totino Prestoscendo e
la gente protesta a modo suo, pensò Bonanno.
«Cosa vuole, sindaco, basta guardarsi attorno e vedere
quello che combinano con le cabine telefoniche» disse invece.
Una pipita masculina fiorita sulla punta della lingua gli
avrebbe fatto meno male. Si pentì seduta stante di quello che
aveva appena detto. Prestoscendo si sentì autorizzato a straparlare
e non aveva intenzione di smettere. Se la prese con
gli insegnanti interessati solo allo stipendio, coi preti persi a
coltivare lo spirito, coi genitori assenti e permissivi. Per levarsi
d’impiccio, Bonanno sparò un colpo basso.
«Al municipio non avete l’ufficio Servizi sociali e un assessore
preposto alle problematiche giovanili?»
Prestoscendo non si aspettava quell’attacco. Rimase basi-
to per lunghi secondi cercando di riacquistare la baldanza
minata dal maresciallo. Quando riprese a parlare tartagliava.
In quel preciso momento il telefono squillò.
«Maresciallo Bonanno, chi parla?»
«Non le devo dire niente ma se è scaltro, può usare questa
telefonata per liberarsi del suo ammiratore, io tiro fuori la
macchina»suggerì Steppani.
«Arrivo subito» rispose Bonanno. San Steppani ancora
una volta aveva provveduto a tirarlo fuori dai guai.
Rivolgendosi a Prestoscendo che lo fissava, disse: «Il dovere
mi chiama, una comunicazione di servizio urgente devo
lasciarla.»
«Capisco, non la trattengo, spero non si tratti di nulla di
grave per la nostra comunità» rispose Prestoscendo a labbra
strette. Non gli era piaciuta la piega presa dalla conversazione.
«Normale servizio d’ordine» mentì senza fatica Bonanno.
«Allora arrivederci» disse il sindaco che aggiunse «ah, dimenticavo
di comunicarle una buona nuova maresciallo: ho
deciso di ricandidarmi alle prossime comunali.»
«Un’altra volta?» si lasciò sfuggire Bonanno. Evidentemente
ci mise troppa enfasi e dovette mostrarsi assai contrariato
da quella notizia, perché il sindaco, fissandolo dritto
negli occhi replicò: «Perché le dà fastidio, forse?».
«Non mi fraintenda: pensavo che una volta concluso il
suo mandato, visti i tanti crucci che le provoca amministrare
una comunità così difficile, non volesse più ricandidarsi. Ma
evidentemente mi sbagliavo» disse velenoso.
«Appunto» concluse freddamente il sindaco.
Bonanno lo salutò e passando davanti al piantone lo incenerì
con lo sguardo. Quel sindaco della malora riusciva a
metterlo di cattivo umore e come se non bastasse, se vinceva
le elezioni, altri cinque anni di tedio non glieli levava
nessuno.
«Steppà, parti alla svelta e squagliamo» disse Bonanno.
«Agli ordini» risposeSteppani pettinando l’asfalto con
due dita di pneumatici.
«Facciamo il giro delle Stazioni?» propose il brigadiere,
sperando nelle decine di curve e trazzere di campagna che li
aspettavano.
«Se non ti faccio smontare seduta stante è solamente perché
ti devo un favore. Andiamo a fare colazione e manovra
come Dio comanda sennò guido io» minacciò Bonanno.
Sempre cosa rognosa restava il maresciallo.
All’uscita del bar, Bonanno si infilò in bocca la sigaretta
saluta caffè ma al momento di accenderla si paralizzò, incapace
perfino di respirare. A bordo della propria utilitaria,
Rosalia Santacroce, magnifica e solenne come la Madonna
Dei Sette Miracoli portata in processione, stava transitando
lungo il corso centrale. Il sangue del maresciallo risalì dai
piedi fino alla testa per poi fermarsi e ribollire a livello della
cintola, in un eccesso di calura mascolina.
Agitò la mano senza allungare il braccio, combattuto tra
irrisolti complessi e la voglia di farsi notare. Rosalia sembrava
non si fosse accorta di lui, e invece la Y10 rallentò, svoltò
a destra e si fermò nel parcheggio.
Rosalia scese per andargli incontro, e Bonanno boccheggiò.
«Saverio, che bello incrociarti così » disse sorridendogli.
Vedere Rosalia Santacroce incedere sul basalto di Villabosco
era uno spettacolo per pochi fortunati: a ogni passo le
anche baciavano il bacino rotondo e pieno. Le braccia ab-
bandonate sui fianchi rigogliosi, accompagnavano il ritmo
naturale del portamento. Bonanno non potè fare a meno di
seguirli con lo sguardo, risalendo fino alle spalle ben fatte e
al petto florido. E lì i suoi occhi indugiarono un secondo di
troppo. Era indeciso se farsi ammaliare dalla bocca carnosa
di Rosalia o se perdersi nei suoi seni maestosi. Deglutì per
l’emozione tentando di non farsi notare. Steppani intanto si
godeva la scena. Davanti a Rosalia Santacroce il maresciallo
si trasformava: non riusciva a proferire parola e diventava
paonazzo.
«Quasi non ti vedevo, come stai?» disse Rosalia baciandolo
sulla guancia infuocata.
«Ora meglio.»
«Mi hanno detto di ieri notte. Finalmente lo avete preso
quel tipo, era ora.»
«Così pare.»
A Bonanno le frasi uscivano a mozziconi, preso com’era
dallo spettacolo di tanta grazia di Dio.
«Non essere modesto, lo sai come la penso: la modestia
appartiene a chi è piccolo qua dentro» disse Rosalia puntandogli
l’indice sulla tempia.
Bonanno si sentì pervaso da una sensazione di benessere,
immediatamente scacciata da un torpore formicolante. Un
ragazzino alla prima cotta se la sarebbe cavata meglio. Steppani,
dal posto di guida, fece un cenno di saluto all’assistente
sociale e continuò a godersi l’imbarazzo di Bonanno trattenendo
a stento le risate.
«Se non hai altri impegni stasera ci vediamo e così mi racconti,
ti va?» aggiunse Rosalia.
Eccome se gli andava ma come dirglielo senza squagliarsi?

«Non so come mi metto col servizio» farfugliò.
«Ti chiamo questo pomeriggio per la conferma, adesso
devo tornare al lavoro» disse l’assistente sociale. Poi lo salutò
e si allontanò ancheggiando. Era meravigliosa.
«Gran bella picciotta» buttò lì Steppani.
Bonanno lo fissò truce.
«Con una carrozzeria come quella, deve tenerne di mascoli
che ci sbavano dietro» continuò con tono provocatorio.
Bonanno fece finta di nulla, ma le mani cominciarono a
muoversi a violino. Senza replicare fece smontare il brigadiere,
prese il suo posto e artigliò il volante.
«Guido io» sibilò a labbra serrate.
Rosalia intanto era risalita in macchina, e aveva sorriso a
Bonanno un’ultima volta.
«Quando sorride con quella bocca viene voglia di fermarla
per controllare più da vicino tutto l’armamentario che tiene
a disposizione» disse ancora il brigadiere prendendo posto
a fianco di Bonanno.
Il maresciallo ingranò la marcia e partì sparato. Steppani
lo studiava divertito: gli bruciavano quei commenti maliziosi,
segno che Rosalia gli piaceva sul serio. Ci sarebbe stato da
scialarsela nei prossimi giorni e lui aveva un conticino in sospeso
col suo capo.
Bonanno guidava avvolto da una nuvola rosa. Pensava a Rosalia
materna e sensuale, e si sentiva capace di ogni cosa. Era
bello stare con lei. Se n’era già accorto a cena da donna Alfonsina,
sua mamma, quando avevano festeggiato la chiusura
dell’indagine sui pedofili. Rosalia era intervenuta, e gli aveva
accarezzato la guancia con tenerezza. Da quella volta, però,
erano mancate le occasioni per rivedersi. Si sa come vanno
certe cose: gli impegni di lavoro e la famiglia e i mille problemi
di ogni giorno non avevano favorito nuovi incontri. O
forse la verità era un’altra: non aveva voluto rivederla di proposito,
ben conscio del turbamento che gli provocava starle
accanto. Scottato dal suo passato, Bonanno aveva giurato di
non innamorarsi più, ed ecco la bambagia tramutarsi in nuvolaglia
impastata di lampi e tuoni. Bonanno si esaminava
con occhio impietoso e disfattista: sbirro di provincia prossimo
alla quarantina, perennemente in sovrappeso, per non
dire grasso, con una figlia già grande, un’ex moglie scappata
di notte con un trapezista, una madre come donna Alfonsina
e due cani che amava come veleno per topi: che speranze
poteva nutrire? Rosalia era un monumento alla fecondità. Se
solo si fosse guardata attorno ne avrebbe trovati a centinaia
meglio di lui. Inutile illudersi. Le donne poi, solo guai gli
avevano portato. E chi ha un destino non può cambiarlo. Cu
nasci tunnu nun po’ moriri quadratu, si commiserava.
Eppure, nel cuore germogliava la speranza; Rosalia nutriva
nei suoi confronti più di un’aperta simpatia, poteva giurarci.
Lo aveva capito dai gesti e dalle parole, e l’invito a cena
era una dimostrazione che forse ci aveva visto giusto. Al solo
pensiero, Bonanno tornò a fantasticare. Insensibile alle
chiacchiere di Steppani che gli sedeva accanto, non guardava
neppure la strada. Fuori dal finestrino il seminato verdeggiava
e la nipitella rifulgeva tra iris e mandragore, che punteggiavano
il sonno turchino di un inesplorato laghetto senza
fondo. Un’unghia di cielo venuta giù in una notte senza luna.
I racconti dei pastori tramandati di padre in figlio, narravano
di un giorno senza tempo in cui pecore e agnelli belavano
impauriti al rumore sordo e cupo della terra. Quando la gente
si precipitò a vedere, trovò un budello scuro. In un attimo
il nulla aveva inghiottito rocce e bestie facendo nascere da
quel gorgo infernale un bellissimo lago. Voleva portarci Rosalia
per ricoprirla delle orchidee che crescevano numerose
sulle rive, mentre sdraiati sull’erba tiepida guardavano il cielo
e le nuvole in cerca di forme e volti.
Bonanno era perso nei propri sogni, quando la spina
piantata nel cuore che gli rovinava la vita tornò a fargli visita.
Con quali parole avrebbe detto a Rosalia della sua ex? Come
affrontare quei fantasmi? Si concentrò sulla guida. Imboccò
la circonvallazione sud per rientrare a Villabosco. Accanto al
santuario della Madonna Della Spina Incoronata, una nuova
discarica abusiva invadeva la carreggiata: materiale di scarto,
copertoni e vecchi elettrodomestici, deturpavano la campagna
che digradava verso Villapetra.
«Invece di pensare a ricandidarsi, perché non ripulisce la
città da questo schifo?» disse parlando con se stesso.
«Perché ai politici ben altro interessa, mica queste secca-
ture; tengono il sedere incollato alle poltrone e si sbracciano
a difendere i loro privilegi alla faccia mia e sua» replicò Steppani.
Bonanno si accorse di aver parlato ad alta voce.
Il manto smeraldino della campagna sfumava in colline
cerulee che si confondevano nel riverbero del giorno e delineavano
in lontananza la sagoma possente dell’Etna innevato.
Bonanno sacramentò e guidò fino alla caserma. Assicuratosi
che Prestoscendo non si aggirasse ancora nei paraggi,
parcheggiò la macchina e rientrò in ufficio. Non ebbe nemmeno
il tempo di sedersi, che lo raggiunse Cacici.
«Marescià, buongiorno! Qua ci starebbe un messaggio
telefonico per voi.»
Cacici restò fermo immobile ad aspettare la risposta.
«Cacì ti pigliò una botta di mutismo nelle corde vocali o
devo leggermela di persona sta ambasciata?»
«Marescià, scusatemi tanto. Se volete l’ambasciata ve la
posso fare pure io.»
«È per me o non è per me?»
«Sissignore marescià, è per voi.»
«Allora non ti far pregare Cacì che oggi non è giornata.»
«E chill’ ’o fatto è proprio quello! Qua non è mai giornata,
e questa è la paura mia!»
«Che significa?»
«Che se ai cani dicendo, l’imbasciata che vi devo fare a
voi non vi sta bene, vuje v’a pigliate con me e siccome m’aggio
appriparata ’na serata come dico io, nun me vuless’ trovà
di servizio tutta la nottata. Mi so’ spiegato, mo’?»
«Cacì se non mi dici cu telefonò ti sbatto di servizio fino a
domani.»
«Oilloc’oì, pare che nunn’o sapevo. Io ’sto servizio al
centralino lo tengo ’ngopp ’o stommaco. Ecco qua, ve l’ho
scritto su ’sto pezzo di carta, accussì, come si dice, ambasciator
non porta pena» concluse Cacici consegnando un pezzo
di carta piegato in quattro per poi allontanarsi.
Bonanno maledisse tutti gli astri dell’universo conosciuto:
Urano da una settimana era entrato nuovamente nel suo
segno e gli influssi avversi che sparava su Villabosco se li
beccava tutti lui. Poteva andare avanti in quel modo?
Nel foglietto, in bella grafia c’era scritto: «Ha chiamato il
colonnello Latella, ha lasciato detto di richiamarlo appena
rientrato».
Eugenio Latella era il comandante provinciale dell’Arma.
Bonanno non era mai riuscito a intessere con lui un rapporto
confidenziale. I loro contatti saltuari erano caratterizzati da
due linguaggi: quello aulico dell’autorità della Benemerita e
quello ruspante delle caserme dei suburbi.
Alzò la cornetta. Cacici si fece trovare pronto.
«A parte quello che scrivesti, il colonnello che altro ti disse,
Cacì?»
«M’ha spiato dove stavate.»
«E tu che gli replicasti?»
«Che stavate fuori per servizio.»
Ogni tanto Cacici sapeva il fatto suo.
«Bravo Cacì, tra dieci minuti passami il Comando provinciale,
vediamo che altro ci riserva la mattinata.» Dieci minuti
dopo il telefono squillò di nuovo.
La voce del comandante provinciale risuonò nella cornetta:
«Bonanno?».
«Comandi signor colonnello.» Odiava quelle formalità da
etichetta.
«Giusto con lei desideravo conferire. Ho ricevuto stamani
la sua nota informativa e volevo esprimerle il mio plauso
per l’esemplare dimostrazione d’ardimento e sprezzo del pericolo,
messo in atto da due validi rappresentanti della Benemerita
i quali, dopo lunghi e difficoltosi appostamenti, sono
addivenuti alla cattura di un pericoloso latitante, al secolo
Mangiaracina Giuseppe, da mesi ricercato.»
Parlava come un libro, il colonnello.
«Troppo buono signor colonnello, non c’era bisogno che
s’incomodasse.»
«Nessuno disturbo, Bonanno, quando i complimenti sono
meritati non bisogna centellinare. Dell’avvenuta cattura
del ricercato ho provveduto personalmente a darne comunicazione
agli organi d’informazione.»
E così, Mangiaracina inteso Porcufinu, domani sarebbe
finito pure sui giornali. Potenza dell’Arma e di Prestoscendo,
ma che diamine significava centellinare?
«Ancora congratulazioni, Bonanno. Approfitto della
chiamata per informarla che prossimamente si insedierà il
nuovo comandante di Compagnia, così lei potrà tirare il fiato.
Si tratta di un ufficiale assai motivato che sa il fatto suo e
non ha mancato di farsi apprezzare per l’alto senso di responsabilità
e le capacità investigative dimostrate. Sono sicuro
di poter contare su di lei per iniziarlo alla conoscenza del
territorio.»
«Era ora» disse Bonanno. Non ne poteva più di turni di
servizio e richieste di trasferimento e di tutte le altre incombenze
che gravavano sulle sue spalle.
«Ah dimenticavo, un’ultima cosa: le risulta che Mangiaracina
abbia assunto medicinali, pillole o similari prima dell’arresto?
»
«Assolutamente no, perché?»
«Semplice curiosità: ieri notte dopo il suo arrivo, lo han-
no dovuto ricoverare d’urgenza nell’infermeria del carcere.
Ha rigurgitato qualsiasi cosa. Il direttore si chiedeva se per
caso non avesse voluto fare il furbo, magari ingerendo qualche
farmaco per ritardare l’arresto.»
Altro che pasticche e gocce, lo sapeva lui cosa aveva steso
Mangiaracina: quaranta chilometri di curve a gomito e
serpentine e tornanti bruciati a centodieci all’ora. Congedatosi
dal colonnello, Bonanno si sentì meglio. Ci voleva una
sigaretta. Le cose si stavano mettendo per il verso giusto.
Con l’arrivo del capitano sarebbe tornato alla solita occupazione
di comandante del Nucleo Operativo, senza altre
scocciature.
Si alzò per sgranchirsi le gambe. Si avvicinò alla finestra,
l’aprì e osservò la strada. Un gatto nero, impegnato a frugare
nel cassonetto della spazzatura, alzò il muso e lo fissò. Era un
bel gatto dal pelo lucido, scuro come un fondo di caffé. Gli
mettevano inquietudine i gatti neri. Aspirò il fumo trattenendolo
a lungo nei polmoni.
«Brutto iettatore», disse tirandogli contro il pacchetto arrotolato.
Il gatto si allontanò con la coda alzata, e Bonanno ritornò
ai suoi pensieri. Un chiodo piantato in fronte lo martoriava e
tracciava le forme della più prosperosa dipendente comunale
di Villabosco. Pregustava la cenetta con Rosalia, loro due
al chiarore ruffiano di una candela, un goccio di buon rosso
di Montacino e poi… chi poteva prevedere gli sviluppi?
Guardò l’orologio, erano appena le 10.50. Non aveva voglia
di smaltire le pratiche in giacenza, era troppo su di giri. Indeciso
se cedere alla curiosità o affidarsi alla sorte, capitolò e
cercò sul quotidiano le previsioni astrali. Sobbalzò: per la
prima volta da quando lo consultava, l’oroscopo prometteva
assai bene: Mettete in evidenza le vostre doti di simpatia e comunicazione,
non rifiutate eventuali inviti inaspettati, chi sa
che non ci scappi l’incontro importante. Attenzione però, prima
di buttarvi a occhi chiusi nell’avventura, fate seguire un
adeguato rodaggio.
La fiducia in se stesso toccò picchi altissimi.
Si avventò sull’elenco telefonico e compose il numero del
primo fioraio che gli capitò sotto l’occhio.
«Buongiorno, qui la ditta Verde in fiore» rispose una voce
cortese.
«Buongiorno a lei, devo ordinare un fascio di rose rosse
dal gambo lungo. Più lungo è meglio è, ne avete?»
«Certamente, quante ne dobbiamo confezionare?»
«Una trentina.»
«Provvediamo noi alla consegna o passa lei a ritirarle?»
La fiducia in se stesso capitolò rumorosamente ai suoi
piedi. Non aveva pensato alla consegna.
Sedette e si azzittì per alcuni istanti: se faceva consegnare
le rose, nel giro di un paio d’ore mezzo paese avrebbe saputo
che il maresciallo se l’intendeva con l’assistente sociale; lo
stesso se si presentava con un gran mazzo di rose a casa di
Rosalia. La filama non gliela toglieva nessuno. L’assistente
sociale amava i posti romantici, aveva trovato casa nel centro
storico di Villabosco, vicino alla chiesa di Santa Lidia Purpuraria,
una santa originaria di Thyatira, città a quel tempo conosciuta
per la produzione di porpora. Santa Lidia con la
porpora ci lavorava; trasferitasi in Macedonia, era stata la
prima donna in Europa a essere convertita alla cristianità da
San Paolo a cui aveva offerto ospitalità. Ora che caspita centrasse
con Villabosco una santa purpurina e per giunta forestiera
che si festeggiava il 3 agosto, Bonanno non l’aveva mai
capito e ignorava tutta la sua storia, la chiesetta però era deliziosa
ma per arrivarci bisognava scarpinare lungo le viuzze
in pietra lavica, parcheggiando l’auto almeno trecento metri
più avanti.
Mentre rifletteva, nella cornetta la voce garbata continuava
a domandare: «Pronto, pronto, c’è ancora?».
Non voleva farlo. Fu un gesto vile ma del tutto automatico.
Appoggiò l’indice sinistro sul pulsante del telefono, lo pigiò
e interruppe la comunicazione. In quello stesso istante la
soluzione gli apparve nitida nella sua immediata semplicità.
«CACIIIIII’» vociò spalancando la porta.
Il carabiniere scelto Giovanpaolo Cacici, nato e cresciuto
ai piedi del Vesuvio prima di arruolarsi nella Benemerita ed
essere trasferito nell’isola, si precipitò ansante.
«Fammi un favore, Cacì, portati dal primo fioraio che
trovi e ordina trenta rose rosse, gambo lungo mi raccomando.
Gliele fai confezionare in un bel cesto e gli dici di recapitarle
a questo indirizzo, allegandoci questo biglietto. Tutto
chiaro Cacì?» disse Bonanno. Cacici lo squadrò sconcertato.
«Che ti piglia, adesso?» domandò Bonanno.
«Mannaggia ’a morte e secondo voi io come dovrei stare
dopo che mi avete fatto pigliare un panteco, mi avete fatto
fare la corsa del ciuccio, e dopo che ’n’altro po’ mi scassavo
’a capa… e perché poi?»
C’era una nota di rimprovero nelle parole di Cacici, e Bonanno
quando era in torto sapeva riconoscerlo, specie quando
aveva bisogno della collaborazione dei suoi uomini. E
quella era una questione di primaria importanza, seppure un
tantino personale.
«Scusami, Cacì, non ci badai, ero sovrappensiero» si giu-
stificò accostando la porta. S’era accorto che il suo muggito
aveva richiamato l’attenzione di altri colleghi.
«Allora siamo intesi Cacì? Trenta rose rosse. Ah, lo stavo
scordando: mi raccomando, massima discrezione, non ne fare
parola con nessuno, questa è una cosa tra noi due, e dal
fioraio il mio nome non deve figurare.»
«E al centralino chi ci pensa mentre io vado facendo rose
rosse per te t’aggi’ accattato stasera?»
«Me la sbrigo io» lo azzittì fissandolo torvo. Non gli era
piaciuta l’allusione musicale alla Massimo Ranieri. Gli allungò
i soldi e gli consegnò il biglietto accuratamente chiuso in
una busta. Senza alcuna fatica, di getto, aveva scritto: «A colei
i cui occhi di cielo da soli specchiano il mare». Che si celasse
un poeta nascosto sotto lo sbirro?
Rimpiazzò Cacici con Brandi e si dedicò alla seconda parte
dei preparativi.
«Laboratorio di dolci Cannoloricco? Sono il maresciallo
Bonanno, mi servisse un consiglio: per fare bella figura a una
festa di compleanno che dolci mi consigliate?»
«Quello che vuole: cannoli, piccola pasticceria, pasticcini
secchi, una torta gelato ai setteveli, un semifreddo, paste alla
crema, parfait di mandorle.»
Solo a sentire nominare tutte quelle ghiottonerie, Bonanno
s’appesantì di quattro chili.
«Vada per il parfait di mandorle, a che ora passo?»
«Passi quando vuole, che lo trova pronto. Quanto dev’essere?
»
«Due chili basteranno.»
Il sovrappeso di Bonanno raddoppiò. Mancava un ultimo
dettaglio per rendere perfetta la serata con Rosalia. Si allontanò
pimpante, montò sulla Punto e raggiunse quella profu-
meria che aveva aperto da poco. I proprietari erano forestieri
e li aveva visti una sola volta, per cui poteva dilungarsi
nella scelta senza imbarazzo.
Era talmente preso che fiutò e provò decine di fragranze,
e alla fine scelse una raffinata bottiglietta d’ametista, che sigillava
un’essenza audace ma deliziosa a base di zagara, sandalo
e coriandolo. Fece fare un pacchetto regalo e l’infilò in
tasca. Ora era pronto. Quando arrivò in caserma Cacici era
già rientrato.
«Allora Cacì?»
«Tutto a posto, marescià. Trenta rose rosse col gambo
lungo. Il biglietto l’aggio consegnato e l’indirizzo pure.»
«Bravo Cacì, quando ti ci metti…».
«Ma che è ’stu fieto?» domandò Cacici annusando l’aria.
«Di che parli?»
«Io sento come n’addore ’e femmeniello» disse Cacici fissando
sospettoso il maresciallo. Bonanno si sentì avvampare.
«Lascia perdere, Cacì, quella è un’impressione tua, vedi
cosa senti con quel naso da sbirro piuttosto. Allora, se non
c’è nient’altro da riferire….»
«Mo’ che mi ci fate pensare, però, qualcosa è successo.
Quando ho chiesto se avevano rose rosse col gambo lungo la
signora m’ha guardato storto e m’ha spiato se per caso avevo
chiamato poco prima.»
«E tu che ci dicesti?«
«E ch’avev’ a dicere? Fino a poco prima quel negozio
manco sapevo che c’era.»
«Ti ricordi come si chiama?»
«E come no: Verde in fiore.»
Ad averglielo mandato apposta, Cacici quel negozio di
fiori non l’avrebbe azzeccato. Possibile che con tanti fiorai
proprio in quello dove aveva telefonato doveva capitare?
Maledetto Urano. Liberatosi di Cacici, si infilò in bagno, si
tolse giacca e camicia e si diede una vigorosa sciacquata,
spruzzandosi abbondante acqua di colonia per camuffare la
fragranza femminile che si portava addosso.
Rientrò in ufficio fresco e olezzante. La porta si spalancò
senza preavviso. Una voce tagliente disse: «Complimenti,
ora arrestiamo pure i latitanti, ma figurati se chiedi la collaborazione
dei colleghi della Stazione. Il tuo Nucleo Operativo
basta e avanza, ottimo lavoro, sono sicuro che non mancheranno
gli elogi per il bel gesto o arrivarono già? Comunque,
per tua conoscenza, di là ci sta la signora Nina Favarò,
moglie del sunnominato Peppino Mangiaracina, accompagnata
dal suo avvocato; sta sporgendo denuncia contro di te
per abuso di potere e minaccia a mano armata. Sta contando
una storia che vorrei farti sentire» disse velenoso Marcelli,
collega maresciallo comandante della Stazione di Villabosco.
«E apri quelle finestre: qua dentro s’impesta» concluse
con aria di sfida.
Armato di un ghigno da caimano, Bonanno lo rimbeccò:
«Le ricordo caro collega che esiste una porta in quest’ufficio
e prima di oltrepassarla, tutti, e sottolineo tutti, sono tenuti a
bussare. Sono stato chiaro, Marcelli?».
«Fatti un bidè ghiacciato» replicò lui allontanandosi.
La vecchia ruggine tornava a sfrigolare. Filippo Marcelli
era un marcantonio con braccia muscolose e al posto del torace
un divano aperto, tonificato da ore di ginnastica. Pur
non avendo mai trovato le prove che fosse stata l’imperizia e
la voglia di primeggiare di Marcelli a rovinargli una laboriosa
indagine antiusura, Bonanno era convinto che c’entrasse e
non gliela aveva mai perdonata. Marcelli dal canto suo, non
sopportava le ingiustizie della vita e detestava Bonanno. Più
giovane e brillante, più colto e aitante, frequentatore di palestre
e avido lettore di riviste e saggi, non sopportava di prendere
ordini da un grassone come Bonanno, nominato comandante
di Compagnia reggente durante la vacatio degli
ufficiali. Per loro scornarsi era un’abitudine.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 07:33 da Roberto Mistretta


molto bello l’estratto. grazie. complimenti a mistretta ed al suo bonanno.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 10:23 da letizia di giacomo


Questo Bonanno pare davvero interessante. Bravo Mistretta.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 10:50 da Mario Scipio


A me piacciono molto i romanzi con protagonisti seriali. E’ bello ritrovare situazioni che già conosci in parte, vedere che evoluzione avrà la vita di chi già conosci, come la fantasia dello scrittore riesce di volta in volta a disimpegnarsi. Certo, cerco di non appassionarmi troppo, per non finire come in Misery, non si sa mai, soprattutto d’estate, col caldo, gli autori devono fare attenzione. Anche per me Maigret è il più gettonato e insieme a lui la sua Parigi, così diversa dall’attuale. Però i ricordi d’infanzia portano sempre a galla il vecchio Sandokan e compagnia bella, Yanez, Kammamuri. In barba a tutti gli investigatori, i commissari e i marescialli. Sarà che invecchio. Anche Sandokan era un personaggio seriale, me ne rendo conto solo adesso. E risentire Kabir Bedi alla radio, l’anno scorso, che interpretava un Sandokan in chat a Verde Luna mi ha ha fatto tornare indietro di un bel po’.
In effetti, mi sembra che la letteratura seriale, che riporta situazioni, personaggi e ambienti si crei un bel posto nella memoria, più completo e importante forse dei romanzi singoli (come definirli?).

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 10:51 da Barbara Becheroni


Io ricordo un ottimo Maigret con Gino Cervi e, se non sbaglio, Andreina Pagnani. Non mi perdevo una puntata. Saluti a tutti. Franca

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 11:13 da Franca Maria Bagnoli


Maigret è il più grande. Non c’è dubbio.
Però quando i personaggi seriali passano dai libri allo schermo secondo me ci perdono un po’, non so se siete d’accordo.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 11:24 da Paolo


LA maggior parte dei personaggi seriali sono maschili, l’avete notato? Perché? Forse oggi c’è un’inversione di tendenza. Io parteggio per la mitica Kay Scarpetta.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 11:39 da Annalisa


Io sono rimasta ai gialli classici, degli autori del passato.
Di più non ho letto.
Ho avuto l’occasione, però, di leggere il diadema di pietra e mi è piaciuto perché il commissario Bonanno ha dalla sua un’umanità con cui è facile entrare in sintonia. Scatta subito il feeling.
Scrivo qui una breve recensione che ho scritto sul libro di Mistretta:
Il maresciallo dei carabinieri Saverio Bonanno è un personaggio riuscitissimo uscito dalla penna di Roberto Mistretta, un autore ancora poco conosciuto in Italia ma che speriamo trovi il meritato apprezzamento. Le atmosfere di paese che l’autore riesce a creare hanno echi di Sciascia e di Camilleri, scrittori che lui stesso considera suoi ispiratori:
“La mia scrittura si rifà agli scrittori siciliani che molto mi hanno insegnato a partire da Pirandello, passando per Brancati e Sciascia, senza dimenticare Consolo e Bonaviri fino ad arrivare a Camilleri a cui mi lega la vicinanza territoriale. Villabosco (Mussomeli) dista appena 40 km da Vigata (Porto Empedocle). I nomi sono di fantasia ma i luoghi sono reali. La scelta di cambiare denominazione nasce dall’esigenza letteraria di non restare impastoiato in descrizioni pedanti ma svincolate dal contesto reale per meglio adattarle alle trame dei romanzi che, è bene ribadirlo, pescano molto nel sociale, tema a me molto caro, per cui le storie del maresciallo Bonanno fanno solo da simpatica cornice al cuore della trama”.٭
Prima di approdare al prestigioso Cairo Editore, Roberto Mistretta era stato scoperto da un piccolo editore nisseno, Terzo Millennio, che gli aveva pubblicato nel 2001 la prima avventura del maresciallo Bonanno (Non chiedere troppo, secondo classificato al Premio Fedeli) e nel 2002 una nuova avventura dello stesso simpatico personaggio (Il canto dell’upupa, menzione di merito al Giallo Mondadori). Questi due romanzi capitarono nelle mani di un’importante agente letteraria che, piaciutili, gli fece fare il contratto con l’editore tedesco Luebbe, il quale gli ha pubblicato tra il 2006 e il 2009 quattro romanzi (il quarto uscirà a settembre 2009).
In questa seconda avventura del maresciallo Saverio Bonanno ritroviamo gli stessi personaggi che si sono lasciati apprezzare nei precedenti romanzi. In particolare la trama prende spunto da uno sparo partito non si sa come dalla pistola tenuta in mano dalla signora Agatina Piditella mentre la puntava, lei dice inavvertitamente, contro il marito. Quando lei viene portata in caserma, si difende dicendo che il colpo è partito per sbaglio. Manco a farlo apposta, la signora ha alle sue dipendenze un avvocato scrupolosissimo che non lascia spazio a manovre da parte del maresciallo. Ma Saverio non crede alla versione raccontata dalla Piditella, anche perché proprio mentre lei sparava al marito lui si trovava dall’altra parte della strada, in casa della sua amata Rosalia, intento a gustare una prelibata cena. Saverio inizia ad indagare, dapprima entro i limiti di legge che l’uniforme gli impone, poi con metodi più anticonvenzionali visto che, per dissapori e malintesi con il colonnello dell’Arma, Saverio viene sospeso dall’incarico. Poco dopo, al “tentato omicidio” si aggiunge un doppio omicidio (il marito della Piditella ammazzato con l’amante) in cui viene indagato addirittura un carabiniere della caserma di Bonanno, l’appuntato Vitellaro, perché era sua la pistola con cui spararono ai due amanti e perché il movente ci sta tutto: era il marito dell’uccisa, il “cornuto”.
Saverio Bonanno non si dà pace. Ha un carattere sanguigno e dedito a servire la giustizia e a scoprire la verità, qualunque essa sia. Credendo che il suo uomo sia innocente e vittima dell’astuto piano della Piditella per sbarazzarsi del marito, indaga per conto suo con l’aiuto dei suoi fedeli subordinati, in primis il brigadiere Steppani. Sorpresa dopo sorpresa, riuscirà a ricostruire l’intrigato puzzle della vicenda, scoprendo dietro anche un giro di prostituzione e un raket di bambini costretti a chiedere l’elemosina, organizzato da malviventi albanesi.
Il romanzo è un giallo godibilissimo, con uno stile mordente e un ritmo veloce, ricco di frasi che imitano la parlata siciliana (alla Camilleri). In più i personaggi, soprattutto Bonanno, Rosalia, Steppani, sono descritti con tocchi di umanità che ricordano le ambientazioni di Chesterton, come a riconfermare una volta di più che la partita della vita, con i suoi alti e bassi, si gioca tutta nel cuore dell’uomo, e che è lì in quel punto che l’uomo è capace del bene più puro come anche del male più feroce.

٭http://www.lankelot.eu/index.php/2009/04/11/mistretta-roberto-il-diadema-di-pietra-intervista-all-autore/

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 12:02 da Elisabetta


Il maresciallo dei carabinieri Saverio Bonanno è un personaggio riuscitissimo uscito dalla penna di Roberto Mistretta, un autore ancora poco conosciuto in Italia ma che speriamo trovi il meritato apprezzamento. Le atmosfere di paese che l’autore riesce a creare hanno echi di Sciascia e di Camilleri, scrittori che lui stesso considera suoi ispiratori:
“La mia scrittura si rifà agli scrittori siciliani che molto mi hanno insegnato a partire da Pirandello, passando per Brancati e Sciascia, senza dimenticare Consolo e Bonaviri fino ad arrivare a Camilleri a cui mi lega la vicinanza territoriale. Villabosco (Mussomeli) dista appena 40 km da Vigata (Porto Empedocle). I nomi sono di fantasia ma i luoghi sono reali. La scelta di cambiare denominazione nasce dall’esigenza letteraria di non restare impastoiato in descrizioni pedanti ma svincolate dal contesto reale per meglio adattarle alle trame dei romanzi che, è bene ribadirlo, pescano molto nel sociale, tema a me molto caro, per cui le storie del maresciallo Bonanno fanno solo da simpatica cornice al cuore della trama”.٭
Prima di approdare al prestigioso Cairo Editore, Roberto Mistretta era stato scoperto da un piccolo editore nisseno, Terzo Millennio, che gli aveva pubblicato nel 2001 la prima avventura del maresciallo Bonanno (Non chiedere troppo, secondo classificato al Premio Fedeli) e nel 2002 una nuova avventura dello stesso simpatico personaggio (Il canto dell’upupa, menzione di merito al Giallo Mondadori). Questi due romanzi capitarono nelle mani di un’importante agente letteraria che, piaciutili, gli fece fare il contratto con l’editore tedesco Luebbe, il quale gli ha pubblicato tra il 2006 e il 2009 quattro romanzi (il quarto uscirà a settembre 2009).
In questa seconda avventura del maresciallo Saverio Bonanno ritroviamo gli stessi personaggi che si sono lasciati apprezzare nei precedenti romanzi. In particolare la trama prende spunto da uno sparo partito non si sa come dalla pistola tenuta in mano dalla signora Agatina Piditella mentre la puntava, lei dice inavvertitamente, contro il marito. Quando lei viene portata in caserma, si difende dicendo che il colpo è partito per sbaglio. Manco a farlo apposta, la signora ha alle sue dipendenze un avvocato scrupolosissimo che non lascia spazio a manovre da parte del maresciallo. Ma Saverio non crede alla versione raccontata dalla Piditella, anche perché proprio mentre lei sparava al marito lui si trovava dall’altra parte della strada, in casa della sua amata Rosalia, intento a gustare una prelibata cena. Saverio inizia ad indagare, dapprima entro i limiti di legge che l’uniforme gli impone, poi con metodi più anticonvenzionali visto che, per dissapori e malintesi con il colonnello dell’Arma, Saverio viene sospeso dall’incarico. Poco dopo, al “tentato omicidio” si aggiunge un doppio omicidio (il marito della Piditella ammazzato con l’amante) in cui viene indagato addirittura un carabiniere della caserma di Bonanno, l’appuntato Vitellaro, perché era sua la pistola con cui spararono ai due amanti e perché il movente ci sta tutto: era il marito dell’uccisa, il “cornuto”.
Saverio Bonanno non si dà pace. Ha un carattere sanguigno e dedito a servire la giustizia e a scoprire la verità, qualunque essa sia. Credendo che il suo uomo sia innocente e vittima dell’astuto piano della Piditella per sbarazzarsi del marito, indaga per conto suo con l’aiuto dei suoi fedeli subordinati, in primis il brigadiere Steppani. Sorpresa dopo sorpresa, riuscirà a ricostruire l’intrigato puzzle della vicenda, scoprendo dietro anche un giro di prostituzione e un raket di bambini costretti a chiedere l’elemosina, organizzato da malviventi albanesi.
Il romanzo è un giallo godibilissimo, con uno stile mordente e un ritmo veloce, ricco di frasi che imitano la parlata siciliana (alla Camilleri). In più i personaggi, soprattutto Bonanno, Rosalia, Steppani, sono descritti con tocchi di umanità che ricordano le ambientazioni di Chesterton, come a riconfermare una volta di più che la partita della vita, con i suoi alti e bassi, si gioca tutta nel cuore dell’uomo, e che è lì in quel punto che l’uomo è capace del bene più puro come anche del male più feroce.

٭http://www.lankelot.eu/index.php/2009/04/11/mistretta-roberto-il-diadema-di-pietra-intervista-all-autore/

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 12:04 da Elisabetta Modena


Carissimo Massimo, ti chiedo intanto scusa per il ritardo con cui ti rispondo, ma ieri ero fuori per una proiezione privata del film tratto dal mio romanzo “L’imbroglio nel lenzuolo” che sarà ristampato il prossimo autunno. Ti saluto con immutato affetto e passo a dirti che la prima avventura di questo mio nuovo personaggio dovrebbe uscire nella seconda metà del 2010. Ne sono molto preso, per la novità di dar vita a un gruppo di personaggi quasi tutti negativi, alquanto torbidi, ed elusivi alla maniera del noir anni Quaranta. La riscrittura del primo volume durerà per tutta l’estate. Poi tornerò in emeroteca per leggere i quotidiani dell’estate del 1926: è il periodo in cui questo personaggio vivrà la sua seconda avventura. Che Dio me la mandi buona! Non conosco Roberto Mistretta, ma il suo estratto è seducente, e gli auguro il meglio del meglio. A presto, Francesco Costa

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 12:46 da francesco costa


Ciao Francesco!!!
Sono felicissima per te e non vedo l’ora di vedere il film tratto dal tuo libro… gialli ambientati nell’era fascista? Intrigante… vedrai, farai un otimo lavoro. Auguro al tuo investigatore ogni bene…
Un bacio e buona estate!

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 13:05 da Maria Lucia Riccioli


Il tempo è tiranno e gli impegni si accavallano, per cui preferisco lasciare la parola al mio buon Bonanno con altri tre capitoli tratti da Il diadema di pietra per gli amici di questo blog

3
È un giorno di marzo, quando sotto un cielo gravido di pioggia,
Mishna perde l’innocenza e dice addio all’infanzia. Un
tuono squarcia il silenzio del mattino. Il sangue picchia furioso
nelle orecchie. Una nuova verità dilaga in petto, mentre
il mitra alza pugni di polvere.
Il serbo è ubriaco di vino e rancore. Ha la barba incolta,
ciuffi sudici e arruffati spuntano sotto il basco. Ha l’età di
Serge, il padre di Mishna, e un poco gli somiglia. Stessa corporatura,
stessi gesti. Lo tiene sottotiro, intanto che sputa e
ringhia come un animale randagio.
Serge non si muove. Dietro la schiena tiene un coltello.
Non è uno sprovveduto, ha imparato a difendersi per rimanere
in vita nella terra dove è nato e cresciuto. Ora quel posto
non gli appartiene più, ma lui continua a combattere, è
più forte di lui. I serbi non vogliono concedere l’autonomia.
Nessuna libertà per gli albanesi del Kossovo. Sono armati.
Sono pericolosi.
Serge legge negli occhi del soldato la minaccia. Allontana
Mishna con uno spintone. Il soldato bestemmia.
Cosa sta abbaiando?
Mishna non capisce. Lo spintone del padre è violento, casca,
si fa male a una spalla. Sente la fitta lungo i fasci nervosi
del collo. Serge lo cerca con gli occhi, suo figlio si è allontanato
ma è ancora vicino. Troppo vicino. Non parla Serge, ma
con gli occhi lo esorta. Fra poco la pazzia della guerra mieterà
un’altra vittima.
Corri via, Mishna. Galoppa, non fermarti, non voltarti.
Non farlo Mishna. Tu devi crescere.
Serge crolla nell’erba. Gli scoppi si perdono nell’aria greve.
Boccioli scarlatti gli aprono il petto.
Non pensare Mishna.
Serge tenta di afferrare il coltello. Gli stivali del soldato
colpiscono la lama che schizza lontano. Un raggio di sole la
indora tutta. Barbaglii luminescenti seguono la parabola, e
si perdono in una polla di luce tra l’erba rorida di pioggia e
linfa d’uomo. Il sangue ha lo stesso colore sotto ogni cielo.
Uguale odore dolciastro. Un niente divide la vita dalla morte,
l’uomo ha sconvolto l’ordine naturale delle cose. La
morsa dell’odio consuma i sentimenti e strappa i sogni ai
bambini.
Corri Mishna. Corri.
Serge non può più proteggerti dagli orchi delle montagne.
Sei solo con la tua paura. Quanti pensieri per un bambino
che porta con sé il ricordo di una divisa curva su suo padre,
intenta a sfilargli gli stivali.
«Un uomo senza i suoi stivali è un uomo nudo figlio mio,
non permettere mai a nessuno di toccarteli.»
Ovunque si nasconda quel soldato, lo troverai e ti riprenderai
quello che ti appartiene, Mishna. Verrà il giorno della
vendetta, e quando succederà conoscerai l’antico codice del
Kanun.
Codici e codicilli. Bonanno non li sopportava. Gli occhi porcini
dell’avvocato Gandolfo Mazzarisi punteggiavano il suo
viso affilato. Per capelli aveva quattro peli lisciati all’indietro,
l’incarnato smorto ricordava le candelore alla processione
di maggio della Madonna Dei Sette Miracoli.
A Bonanno il professionista stava antipatico di suo, figurarsi
mentre prendeva le parti della moglie di Porcufinu. Non
che avesse qualcosa da temere, ma preferiva stare alla larga
da sbrogliaimbrogli e tonache di preti che in un modo o
nell’altro trovavano sempre la maniera di farsi dare ragione.
Il maresciallo non era cristiano abituato a ragionare di
faccende complicate, amava le cose semplici e tutte passavano
attraverso l’azione naturale dei mezzi a disposizione: le
mandibole quando addentavano qualcosa di sostanzioso, le
mani quando mettevano i ferri ai malacarne. Le sue indagini
miravano a risolvere questioni spicciole di vita paesana, piccole
cose che davano un senso preciso alla vita e ne scandivano
i giorni. A volte, però, doveva derogare alla propria
indole arcigna e solitaria per improvvisarsi parlatore diplomatico
con individui che non considerava. Dietro i tendaggi
dell’ufficio, Bonanno osservava la scena. L’avvocato si avviava
con passo spedito alla berlina parcheggiata poco distante.
Steppani lo chiamò. Gandolfo Mazzarisi si voltò, vide
il brigadiere e si fermò. Parlottarono un poco, poi l’avvocato
lo fissò e fece un cenno con la testa. Attivò l’antifurto
della macchina, congedò la signora Favarò e seguì Steppani
all’interno della caserma.
Bonanno si accorse di avere le mani sudaticce, fece finta
di nulla e accese l’ennesima sigaretta. Pochi secondi dopo,
udì bussare alla porta. «Avanti è aperto» disse. L’avvocato
entrò. «Buongiorno avvocato, prego si accomodi e grazie per
avere accettato il mio… invito, lo gradisce un caffé?» aggiunse
il maresciallo.
«Vada per il caffé» rispose Gandolfo Mazzarisi. Agli angoli
delle labbra si modellò un’increspatura beffarda.
Quei piccoli movimenti non sfuggirono allo sguardo allenato
del maresciallo.
Facendogli l’occhiolino l’avvocato, disse: «Mi dica la verità
maresciallo, ha dato una festicciola in questo ufficio o
ha interrogato qualche bella figlia d’Eva? Si sente un profumo…
».
Bonanno prese letteralmente fuoco. «Le domando scusa
avvocato se mi permisi di importunarla» tagliò corto il maresciallo
cercando di dominarsi pur di sviare il discorso «mi
informarono che poc’anzi la moglie di Peppino Mangiaracina,
presentò denuncia contro di me e che lei l’assiste. Considerato
che siamo tra persone serie, le voglio fare una semplice
domanda: veramente pensa che quelle accuse abbiano un
qualche fondamento di verità?»
«La verità oggettiva e la verità giudiziaria sono cugine
lontane e non sorelle, caro maresciallo, lei dovrebbe saperlo.
»
«La verità solo una è» replicò Bonanno.
«Non si adombri, maresciallo, e mi permetta, nulla di
personale beninteso, ma i termini della questione vanno diversamente
inquadrati: in sede dibattimentale conta solo
quello che si potrà provare, ma questo dialogo tra me e lei
non è proprio, diciamo, ortodosso.»
Bonanno alzò un sopracciglio. Non capiva cosa c’entrasse
la religione con la loro questione e quando gli parlavano di
religione, sacramentava contro l’universo creato e per ore diventava
intrattabile, consapevole di appartenere a quell’esemplare
a due piedi che, mentre affermava il diritto alla vita, si
lordava le mani con ogni genere di marciume. Il malumore
aumentò e con esso si accentuò pure il movimento a violino
delle mani.
«Soffre di un tic nervoso?» domandò infido l’avvocato. Si
era accorto della stizza di Bonanno e voleva ricamarci un poco
sopra.
Bonanno replicò a muso duro, cedendo alla natura focosa
e sotterrando in un attimo tutti i buoni propositi: «Senta avvocato
mi convinsi a chiamarla perché non so che minchiate
ci contò la Favarò e ignoro gli estremi della denuncia ma
forse fu uno sbaglio».
«Maresciallo! Io penso invece che lei conosce a menadito
le accuse e vuole trattare»lo interruppe l’avvocato. Evidentemente
ignorava i rapporti tesi tra Bonanno e Marcelli.
«Delle accuse della suddetta signora e di quello che lei
pensa a riguardo, personalmente me ne strafotto» esplose
Bonanno. Ormai parlava a ruota libera.
L’incarnato pallido dell’avvocato virò verso il rosso prugna
e annaspò nel suo stesso respiro rantolante. Non si aspettava
quel brusco attacco. Steppani rientrò in ufficio. Sulla
guantiera che portava torreggiava una zuccheriera in acciaio
brunito e due tazzine scintillanti. Quando voleva il brigadiere
si trasformava in perfetto cameriere.
«Ecco il caffé, servizio espresso con tutti gli onori» disse.
«Grazie Steppà, appoggialo qua e levati di torno.»
«Agli ordini» rispose il brigadiere. Notò i visi tirati e
preferì svignarsela prima che qualche fucilata si abbattesse
su di lui.
«Quanto zucchero?» domandò Bonanno.
«Dipende dal veleno che deve ancora sputare» rispose il
legale.
«Cerchiamo di intenderci avvocato, io per mia natura so-
no franco e se le dico che non ho idea di cosa mi accusa la
sua cliente, deve credermi sulla parola sennò mi viene naturale
imbestialirmi. Glielo domando per la seconda volta:
quali sono queste calunnie?»
«Mi piglia in giro?»
«Sull’anima dei miei morti.»
«Questa è bella, uno sbirro onesto.»
«Avvocà non esagerasse.»
«Facciamo finta che le creda. La mia cliente sostiene che
l’avete minacciata con una pistola; non solo: l’avete spintonata
provocandole dei lividi oltre a uno shock. Si è fatta visitare
in ospedale, è in possesso di apposito referto medico.
Come se non bastasse, avete terrorizzato i bambini arrestando
il padre sotto i loro occhi innocenti. I reati ascrivibili a
tali comportamenti sono: abuso di potere, lesioni personali e
minaccia a mano armata.»
«All’anima delle panzane!» commentò Bonanno.
«Vedremo. La signora sta procedendo legalmente e mi ha
nominato suo difensore.» Prese un lungo respiro, osservò
fisso Bonanno e continuo: «E non è tutto».
Bonanno lottava per mantenersi calmo. «Pure! Cos’altro
si inventò ancora?»
«Questa è la perizia scritta di uno stimato artigiano, avete
sfondato la porta a spallate, senza dare alla mia cliente il tempo
di aprire.»
«Dovevamo aspettare che Mangiaracina se la squagliasse
dai tetti come l’ultima volta? Avvocà, visto che fu così cortese
da accettare il mio invito, glielo dico chiaro e tondo: la sua
cliente sta contando una carrettata di minchiate e vuole sapere
perché?»
«Sentiamo» disse insolente l’avvocato.
«Quando l’acchiappammo, Porcufinu le stava lustrando
il pelame e siccome la lustratina restò sopra sopra, alla signora
ci venne l’accanimento di farcela pagare armando questa
piazzata.»
«Questa è la sua versione dei fatti, ma dove sono le prove?
» replicò l’avvocato.
«Lasci perdere le prove e m’intenda a prima voce: quello
che stavano facendo la signora e Porcufinu sono affari
loro, ma la vede questa divisa? La indosso da vent’anni e
servo l’Arma con dedizione e spirito di sacrificio, e non
permetto a nessuno, dicasi NES-SU-NO, d’infamare il mio
nome e quello dei miei collaboratori, né a una femmina in
calore né a certi avvocaticchi da quattro soldi che si prestano
alle loro stramberie. È questo è affare mio personale.
Chiaro avvocato?»
«È una minaccia?» replicò Mazzarisi.
«Io non minaccio nessuno ma i fatti parlano e se la signora
Favarò s’intestardisce con questa farsa, mi devo cautelare
e mi tocca passare al contrattacco.»
«Si spieghi meglio.»
«Domattina la denuncerò per ingiuria, oltraggio, minaccia
e resistenza a pubblico ufficiale.»
«Ah» disse l’avvocato. Aveva la gola come una grattugia.
«E ci aggiungo l’accusa di favoreggiamento: la sua signora
ha protetto la latitanza del marito» caricò ancora Bonanno.
L’avvocato sudava.
«E se puta caso quelli dell’Assistenza sociale fanno una
capatina in quella topaia, vuole scommettere che affideranno
i due picciriddi a un istituto? Le condizioni igieniche e
sanitarie sono scadenti e considerati i precedenti della signo-
ra, c’è da aspettarsi che anche quei due vadano ad aggiungersi
ai cinque già in collegio.»
«E questa non sarebbe una minaccia? Vuole prendersela
coi bambini?»
«Sbaglia avvocato, a ogni azione corrisponde una reazione
e io le sto esponendo i fatti per come sono, ma a questo
punto mi domando: col marito in galera, senza un travaglio
e senza l’assistenza economica del Comune, che una
volta affidati i bambini agli istituti non le passerà più gli
assegni mensili, così come pure si tireranno indietro le dame
di San Vincenzo e la Milizia dell’Immacolata, come
camperà la signora Favarò? Questo le volevo dire, nessuna
minaccia avvocato, ma semplice esposizione dei dati di fatto,
così da fare valutare bene alla sua cliente se le conviene
mettersi in questi lazzi.»
«Buongiorno maresciallo» sibilò Mazzarisi prendendo la
porta.
«Si stia bene avvocato.»
Lo stomaco brontolò, e Bonanno capì che l’una era già passata.
Indeciso se pranzare a casa o in caserma, accese un’altra
sigaretta e si rilassò. Volute lattescenti lo avvolsero e fu solo
con se stesso. Vanessa, sua figlia, stava crescendo e lui non
smetteva di chiedersi se era il caso di accettare in famiglia
un’altra donna che non fosse sua madre. Era vero che Vanessa
non la cercava più, ma talvolta lui la sentiva singhiozzare
nella notte e allora si alzava, entrava nella sua stanza in punta
di piedi e la carezzava parlandole piano. «Sei la mia principessa
» le diceva. Nel sonno la piccola sorrideva, gli stringeva
la mano, lui la portava alle labbra e vi posava sopra un bacio
lieve per scacciare i demoni dell’abbandono. Quando Vanessa
si rasserenava, lui usciva nella notte, guardava il cielo cercando
tra le stelle quel volto mai scordato, e malediceva la
donna che li aveva abbandonati. Come aveva potuto? I sensi
di colpa dilagavano e non lo risparmiavano.
Quel giorno Vanessa aveva il tempo pieno a scuola e Bonanno
non aveva voglia di restare da solo con sua madre.
Donna Alfonsina accusava un accenno d’artrosi alla colonna
cervicale che le provocava paturnie e lamenti. Ma quel
che maggiormente temeva erano le sue continue allusioni
alla bella Rosalia. Tra le due donne era nata un’istintiva simpatia,
e Donna Alfonsina non nascondeva la speranza di vederlo
accasato. Bonanno però aveva bisogno dei suoi tempi
per fare chiarezza con se stesso e quelle sollecitazioni gli
provocavano l’orticaria. Né aveva voglia della compagnia di
Ringhio e Briciola, le bestiole care alle sue donne. Gli avrebbero
rovinato sicuramente l’umore saltandogli addosso e
leccandolo. Decise di pranzare in caserma.
L’avvocato Gandolfo Mazzarisi era andato via da una
buona mezz’ora. Non lo preoccupavano le sue allusioni.
Aveva la sensazione che presto la signora Favarò avrebbe ritirato
la denuncia. Sorrise immaginando lo scorno di Marcelli.
Altri crampi allo stomaco lo spinsero a chiedere al centralinista
di recuperare Steppani.
Pochi minuti dopo una voce impastata di sonno domandò:
«Che ore sono?».
«Steppà, dimmi una cosa, chi cucina stamani?»
Fiaccato dalla nottata e dalla routine mattutina, Steppani
si era coricato da un quarto d’ora. «Perché non dà un’occhiata
ai turni? Li trova in bacheca» lo rimbeccò.
«Stavi riposando?»
«Dio mi scansi! Mi misi a letto per smacchiarmi i denti e
farmi fare un massaggio shiatsu da una giapponese arrapata»
sicilianò il brigadiere.
«E vabbè, ormai però ti svegliasti: lo sai o no chi cucina?»
«Angelo Agliuzza e gli auguro di strafogarsi» replicò
Steppani mettendo giù.
«Che brutto carattere» commentò Bonanno, ma era
troppo contento per prendersela: l’ultima volta che aveva
mangiato le prelibatezze dell’appuntato Agliuzza si era
sentito in colpa per tre settimane. Angelo Agliuzza non
era un carabiniere, piuttosto un’emanazione divina: soltanto
a guardarli i suoi piatti commuovevano. Che delizia
i maccheroncini col cavolfiore! L’appuntato aggiungeva
filetti di sardine salate, pomodoro concentrato, uva sultanina,
zafferano e pinoli. E che dire dei vermicelli con peperoni
e melanzane? Non appena Bonanno assaporava il
boccone, il mondo guizzava verso cieli smisurati scoperchiando
cantucci di paradiso. Si tuffava in quei sapori di
carni marinate in bianco vinello o nel più corposo fratello
rosso, gustandone l’amalgama sopraffino come un devoto
servitore.
Il pensiero di arrivare satollo all’appuntamento con Rosalia,
però, lo frenò sulla soglia della mensa. Gli aromi di
Agliuzza lo afferrarono avvolgendolo di calore, le ghiandole
salivari si misero in moto, e Bonanno rinunciò su due
piedi al suo fioretto. Il maresciallo resisteva a tutto ma non
alle tentazioni della gola. Quindi avanzò a grandi falcate tra
i tavoli e prese posto accanto ai carabinieri scelti Vito Cantara,
Ernesto Giarratana e Ciccio Lacomare. I suoi uomini
lo accolsero con entusiasmo, riempiendogli il bicchiere.
«Alla salute, maresciallo» dissero.
«Alla nostra» rispose lui.
Stavolta Agliuzza si era superato. Bonanno gustò cappelle
di funghi ripiene di mozzarella lavorata e acciughine al
peperoncino. Dedicandosi alla doppia razione di ravioli di
magro con ricotta fresca, un toccasana per palato e colesterolo,
lodò gli angioli e i serafini. Infine apprezzò tre dentici
allo zafferano e pensò che appartenere all’Arma qualche
soddisfazione ogni tanto la dava. Per le diete ferrigne ci sarebbe
stato tempo.
Per smaltire l’abbuffata, Bonanno pensò di scarpinare un
paio d’ore su e giù per la Montanvalle rimirando il pinnacolo
del Mongibello innevato, che in lontananza frastagliava la linea
dell’orizzonte rompendolo come un guscio d’uovo.
Una volta in ufficio prese un caffé speciale, scuro e forte
come piaceva a lui, e per non cedere alla sonnolenza, si sciacquò
la faccia con acqua fresca, poi montò sulla Punto e raggiunse
il posto che preferiva: la collina calva.
Parcheggiò sotto il carrubo secolare, smontò con gesto atletico,
ben deciso a percorrere a piedi almeno una decina di chilometri
tra terreni e anfratti, intervallando la scarpinata con un
centinaio di flessioni per irrobustire i bicipiti. In fondo bastava
poco per riacquistare la linea perduta, con un po’ di buona volontà
e mezz’ora di ginnastica al giorno i suoi addominali sarebbero
tornati come nuovi. Pensò che era un programma perfetto,
e fumò appagato accanto alla Punto mentre contemplava il panorama.
Ovviamente la camminata poteva aspettare.
Nuvole basse carezzavano le colline, spaghi di luce incendiavano
radure e olivi punteggianti le terre brune. Trionfavano
il verde dei germogli e le linee tonde degli immensi bloc-
chi di roccia biancastra e piena, che gli ricordarono le forme
piene di Rosalia. Si soffermò ad analizzare con rinnovato impegno
curve e serpentine, promontori e vallate. Le immaginava
morbide e profumate, di quella fragranza che sale alle
nari e stuzzica i sensi. Si accese di sanguigne fantasie. Non
vedeva l’ora di cenare con Rosalia, di starle vicino e respirare
il suo fiato di corbezzolo.
Che gli stava capitando?
Si svegliò di soprassalto due ore dopo, scosso da una mano
energica.
«Marescià, si sente bono?»
Sbarrò gli occhi: si era addormentato senza accorgersene.
«Lei chi è?» domandò ancora frastornato.
«Non s’agitasse, mi credevo che ci aveva pigliato un colpo
ma solamente di botta di sonno si trattava» disse sornione
Vanni Lenticchio, il proprietario del canile che gli aveva regalato
prima Ringhio e poi Briciola, i due setter.
«Lentì, ti venisse una botta di malo campare, che ci fai
qua sopra?»
«Questa bella è, e lei che mi dovesse dire che ci fa stravaccato
nella mia proprietà» replicò divertito l’anziano. I cani
scodinzolavano nella radura, uno si avvicinò alla ruota anteriore
della Punto e innaffiò i germogli in fiore.
«Che combina quella bestiaccia?» saltò su Bonanno inviperito.
«Fesserie, cose da cani, era meglio che facevo innaffiare la
sua persona addormentata? Se non la bloccavo in tempo,
poco ci mancò che Annuccia lo svegliasse con i suoi schizzi»
ridacchiò Lenticchio.
«Cu minchia è Annuccia?» domandò Bonanno mollando
un calcio alla bastardina che si mise a guaire e si allontanò
dolorante.
Lenticchio lo fissò con occhio torvo, brandendo il braccio
armato di bastone: «Ce lo dissi una volta e ce lo ripeto
per l’ultima, se s’azzarda un’altra volta a maltrattare i miei
cani, ci giuro sulla Madonna Incoronata Della Montagna che
sbirro o non sbirro, co’ sto pezzo di legno ci spacco la testa,
mi spiegai?»
«Fa pisciare i tuoi canazzi lontano dalla mia macchina.»
«E lei andasse a rompersi le corna lontano dalla mia proprietà.
»
In un colpo solo Bonanno si giocò l’amicizia di Vanni
Lenticchio e la possibilità di rilassarsi nel posto che fino a
pochi minuti prima aveva creduto non appartenere a nessuno.
Brutto risveglio.
Montò sulla Punto, scuro come i candelotti che Annuccia
stava scaricando proprio dove lui stava sdraiato un attimo
prima. Lenticchio continuò a incenerirlo, le labbra serrate in
una paternale contenuta nella piega severa e nel gesto eloquente
del braccio teso con l’indice alzato, a indicare la carreggiata
che il maresciallo doveva imboccare alla svelta. Guai
a chi maltrattava i suoi cani. Vanni Lenticchio preferiva la
compagnia del bastardo canino più mal ridotto e pulcioso
che si aggirasse nella Montanvalle al più profumato e imbellettato
degli essere umani.
Bonanno partì con stizza. Si fermò al primo bar. Prese un
caffè che gli andò di traverso e accese una sigaretta che lo amareggiò
ancora di più. Non gli piaceva questionare, rispettava
Lenticchio, ma Urano tramava contro. Il barista ruffiano domandò:
«Allora maresciallo, che dicono i suoi due cagnolini?».
Se avessero afferrato Bonanno con tenaglie arroventate,
gli avrebbero provocato uno scatto meno brutale. L’incauto
barista fu incenerito da uno sguardo torvo e imbestialito.
Quando la giornata iniziava male, non c’era verso di raddrizzarla.
Di tornare in caserma in quelle condizioni neanche a
parlarne. Vanessa usciva da scuola alle sedici, mancavano appena
dieci minuti. Invece che con lo scuolabus sua figlia sarebbe
tornata a casa con lui.
Parcheggiò davanti all’istituto. Vanessa uscì pochi minuti
dopo, la chiamò, lei si girò e lo salutò affettuosa. «Ciao papi,
che ci fai qui?»
«Sorpresa» mentì sfrontato. Poteva dirle di Vanni Lenticchio,
di Annuccia e tutto il resto?
«Sali che torniamo insieme» aggiunse.
Vanessa ubbidì, squadrandolo dall’alto in basso. Più il
tempo passava, più Bonanno rinveniva somiglianze fisiche
tra sua figlia e donna Alfonsina. E non solo fisiche a giudicare
da come la nonna stava tirando su la nipote. Il caratterino
glielo stava cucendo addosso pari pari al suo.
«Che facesti a scuola?» domandò Bonanno tralasciando
quei pensieri.
«Ci hanno parlato della guerra nei Balcani e dei bombardamenti
su Belgrado, la capitale della Serbia. La maestra ci
ha spiegato che la Nato vuole obbligare i serbi a smetterla
con le sue pretese. Come compito per casa, dobbiamo discuterne
con i genitori e scrivere una nostra riflessione sui profughi.
Tu sei maresciallo dei carabinieri e scommetto che sai
tutto di questa guerra.»
Bonanno si irrigidì.
«Io so quello che sanno tutti ’Vanè.»
«Allora puoi aiutarmi, vero papino?»
«Ci mancasse.»
Vanessa lo baciò, Bonanno fece finta di interessarsi alla
direzione del vento che soffiando spingeva lontano cumuli
di nuvole e sacramentò contro tutti i guerrafondai di questo
mondo infame.

Zmitra intravede Mishna barcollare sul profilo della collina.
Non c’è traccia di Serge. Il volto si contrae in una smorfia di
dolore muto, una mano copre il vuoto della bocca incapace
di gridare. Una parola è sufficiente per risucchiare tutte le
speranze in un grumo di dolore: Shkodra.
Poche lettere a ricordare una vita che ormai non c’è più,
pensa Zmitra.
Suo marito un giorno che erano abbracciati a guardare il
confine oltre le colline gliela aveva indicata con orgoglio
quella città albanese famosa per il legno e il tabacco. Lui
c’era nato a Shkodra, e là continuava ad abitarci Jan, suo
fratello.
Serge voleva andarci per sfuggire alla guerra ormai prossima
alle porte di Pec, la città kossovara vicina ai confini di
Serbia e Montenegro, dove loro avevano una piccola fattoria.
Era inutile restare, diceva. Troppo rischioso. Dovevano
pensare a Mishna, garantirgli un futuro. Avrebbero ricominciato
tutto daccapo, non era un problema, l’importante era
rimanere insieme.
Insieme…Quella parola investe Zmitra con una violenza
inaudita.
Il dolore si propaga alle membra, trema. Serge non le
avrebbe più sussurrato nessuna parola, non ci sarebbe stata
più nessuna carezza.
Perché?
Perché loro?
Non c’entravano nulla con quella guerra. Loro volevano
soltanto invecchiare felici nella loro terra. Come tutti. Ne
avevano il diritto, cosa c’era di sbagliato nell’assaporare con
amore il lento passare dei giorni?
Una lacrima scende furtiva. Non può piangere, Zmitra,
non deve. Il desiderio di tornare bambina e di lasciarsi andare
all’abbraccio del padre può attendere. È il suo turno, ora.
Deve reagire. Deve guardare al futuro, deve correre.
Zmitra raggiunge Mishna, il fiato corto per l’angoscia. Lo
stringe al petto, lo riempie di baci, lo tocca ovunque.
Mishna dov’è tuo padre? Dov’è Serge?
Nessuna parola esce dalle sue labbra fresche di donna.
Meglio il silenzio. Tanto non serve risposta per sapere qual è
il colore dell’odio. Non importa. Ciò che conta, è che suo
figlio sia tornato sano e salvo. Al resto ci penserà il tempo. O
la pioggia, pensa Zmitra, quella pioggia che tutto lava e tutto
dissolve.
Le mani si muovono veloci. Infilano le poche cose che rimangono
in due zaini. Andranno a Shkodra, da Jan.
Gli occhi di Zmitra sono vuoti, offuscati come sono dal
ricordo di Serge. Come si diventa indifesi e freddi nell’abbraccio
della morte.
Senza prestare ascolto a chi le consigliava il contrario, è
andata recuperare il corpo dove Mishna le ha indicato. Voleva
seppellirlo tra i pruni dove avevano fatto l’amore per la
prima volta. Accadde una notte di luna piena. Il cielo era
limpido e le spighe frusciavano lente nell’erba alta. Erano
giovani e pieni di speranza a quel tempo. Fa bene sognare,
pensa Zmitra, aiuta a dimenticare le angustie quotidiane, il
rumore sordo delle bombe. Ai contadini importa poco sapere
a quale Stato appartiene la terra che coltivano. Conta il
raccolto, la buona annata. Conta la devozione con cui si cura
la terra, la stessa che aveva regalato loro il padre di Jan.
È stata brava Zmitra. Ha trovato la forza di caricare da
sola sul carro dei cereali il corpo del suo uomo. Ha guidato
fino a casa, lo ha lavato in silenzio, pulendogli le unghie dal
sangue e dalla polvere. Lo ha vestito, lo ha baciato, lo ha
pianto. Poi ha scavato una fossa ed è rimasta in piedi a guardarla
senza contare il tempo.
Mishna le è rimasto accanto senza fiatare.
Zmitra avvolge l’ultimo pezzo di pane nella stoffa e chiude
lo zaino.
Ora non c’è più spazio per piangere il passato.
Il cognato li aspetta. Dovranno farcela da soli. Si raccontano
cose terribili sui soldati che controllano il confine. Non
risparmiano donne né bambini.
La guerra è una bestia vorace che si nutre di sangue fresco
per placare la sua sete. Ma loro ce la faranno. Devono
farcela, lo ha promesso a suo marito prima di regalarlo al
buio della terra.
«Andiamo, Mishna» dice Zmitra.
Suo figlio è l’unica cosa che le rimane.
Vedendoli rincasare insieme e sorridenti, il cuore di donna
Alfonsina si allargò.
«Ci fu cosa?» si informò sistemandosi una ciocca di capelli.
«Mi liberai prima e passai a scuola» rispose Bonanno. Vanessa
schioccò un bacio sulle guance della nonna e sparì nella
sua stanza.
«Mah!» sospirò donna Alfonsina.
«Mah che?» domandò Bonanno.
«Non mi pare manco vero.»
«Che volessi significare?» replicò Bonanno già sulla difensiva.
«Niente.»
«Eh no, tu ora me lo dici.»
«Che ti devo dire? Una volta certe improvvisate non le
facevi senza avvisare prima a tua madre.»
«E va be’, per una volta che me lo scordai!»
«Sì una volta! Manco hai chiamato per sapere come mi
sento con quest’artrosi che mi mangia viva.»
«Come stai?»
«E come devo stare? Come vuole lu Signuruzzu. Mi gira
la testa e mi acchiana la nausea pure mentre parlo e mi tocca
mettermi sdraiata e fissare il soffitto.»
«Devi farti vedere da un dottore.»
«Pigliai già appuntamento con uno specialista, se aspetto
mio figlio, sto fresca.»
«Non esagerare.»
«E chi esagera? Piuttosto, com’è che manco mi avvertisti
per dire che a pranzo non ti arricampavi?»
«Mi passò di mente. E chi fosse ’sto specialista?» disse
Bonanno per sviare il discorso. Donna Alfonsina quando voleva
sapeva portarla per le lunghe.
«Uno bravo che visita due volte al mese qua vicino, ma
non cangiare discorso: come mai pigliasti la picciridda e senza
dire manco bi a tua madre? Ti pare cosa?»
«Capita, uno non ci pensa, vogliamo fare una tragediatina
per una minchiata?»
«Quando cominci a parlare vastaso significa che il discorso
non ti conviene. La verità è che la testa non ti regge in
questi giorni, altri pensieri ha il maresciallo per la cocuzza»
disse l’anziana. Un uccellino le aveva già raccontato dell’incontro
mattiniero tra Bonanno e la prosperosa assistente sociale.
Il cuore di donna Alfonsina si era allargato ma avrebbe
preferito che fosse suo figlio a metterla al corrente dei propri
sentimenti. A non averlo fatto in gioventù, si era ritrovato
maritato e abbandonato pochi anni dopo. E lei, che lo aveva
cresciuto da sola rinunciando agli anni migliori della sua vita
per tirarlo su come si deve, s’era dovuta sbracciare di nuovo,
facendo da mamma a Vanessa e da balia a Bonanno. Erano
stati duri quei primi anni, non voleva che suo figlio soffrisse
di nuovo per una donna, ma Rosalia era un’altra cosa, donna
Alfonsina lo sentiva a pelle e lo provocava per vedere quali
emozioni gli si agitavano in petto.
Bonanno però era sbirro dal naso fino e sentì puzza di
bruciato in quella tirata, provò a dribblare il discorso ma con
sua madre non riusciva a spuntarla.
«Ragione hai, ma questi pensieri» rispose senza cogliere
l’allusione «ci permettono di campare e portare a casa la pagnotta,
e ora finiamola qua sennò ci questioniamo.»
«Ehhhh, quando il discorso non conviene…» troncò la
frase ad arte donna Alfonsina.
In altre occasioni Bonanno avrebbe apparecchiato un
quarantotto e le vociate avrebbero fatto rintanare Ringhio e
Briciola nello scantinato. Quella però era una giornata speciale,
e decise di ritirarsi dandogliela vinta. Per il momento,
ovviamente.
«Visto che mi comportai da gran vastaso, mi metto in punizione
da solo» concluse e così dicendo si appartò nella
propria stanza. L’anziana sospirò e sorrise: suo figlio era trasparente,
grande e grosso ma buono come pane e pecorino,
addirittura ingenuo a volte, e perciò tanto vulnerabile. Gli
serviva una donna vera accanto. Una donna come Rosalia. Si
guardò allo specchio: un grappolo di rughe s’avviluppava
sulla pelle un tempo liscia e desiderabile. Si spazzolò i capelli.
Un colpo dopo l’altro, con delicatezza per non spezzarli.
L’argento della chioma risaltò sulle tempie.
«Pregherò per te figlio mio» disse rivolgendosi al Sacro
Cuore di Gesù.
Bonanno serrò la porta con tre giri di chiave, si buttò sul
letto e compose il numero di telefono che già sapeva a memoria.
Accese il lettore cd e nella stanza si diffusero le note
de La ballata di Turiddu Carnevale, la storia del picciotto socialista
ammazzato a colpi di lupara in faccia dalla mafia a
Sciara, paesotto del palermitano, nel 1955, scritta dal poeta
Ignazio Buttitta e musicata dal cantastorie di Villapetra, Nonò
Salamone, suo buon amico.
«Pronto, Rosalia?» disse sottovoce.
«Saverio sei tu?»
«In persona, ti disturbo?»
«Per niente, aspettavo la chiamata, scommetto che ti sei
già liberato da tutti gli impicci.»
Bonanno proprio per quello aveva telefonato, ma visto
che Rosalia era felice di averlo a cena, gli venne naturale fare
il difficile.
«Veramente non so se posso allontanarmi, abbiamo un
sacco d’arretrato, il colonnello annunciò un’ispezione e dobbiamo
prepararci all’arrivo del nuovo capitano, senza contare
che devo aiutare Vanessa a fare il tema sulla guerra in Kossovo.
»
«Non dire sciocchezze, se non ti va di cenare con me parla
chiaro. Giusto stasera dovevi organizzare tutte queste baggianate?
»
Disarmato da tanta brutale sincerità, balbettò: «Veramente
non volevo dire questo, non devi fraintendermi…»
«E tu non farti pregare» cinguettò ancora Rosalia. Pronunciò
quell’ultima frase con un’intonazione talmente morbida e
un trasporto tale che a Bonanno sfuggì di mano la cornetta.
Che voce! Note melodiose di turrita campana, perfino a distanza
era capace di attizzarlo come un ciocco rinsecchito.
«Ci vediamo stasera» disse recuperando la cornetta. E pazienza
con sua madre. Avrebbe imbastito una scusa credibile
per svignarsela senza sciropparsi altre ramanzine. La voce
ruvida di Nonò Salomone accompagnò quella decisione.
Lu maresciallu fici un passu avanti
dissi la Liggi chistu lu cunzenti
Turiddu cci rispusi sull’istanti,
la vostra è liggi di li prepotenti
Ma ccè na liggi chi non sbaglia e menti
e dici pani a li panzi vacanti
Robbi a li nudi, acqua all’assitati
e a cu travaglia onuri e libertati
Terra e occupazione, lotta e miseria. Perfino i carabinieri nel
dopoguerra combattevano i viddrani nei latifondi che avevano
sostituito i feudi. Da una parte i padroni di sempre, e
dall’altra i contadini. Era stato un carabiniere come lui a fare
il prepotente. E neppure la voce impastata di terra e sudore
di Nonò Salamone glielo rendeva simpatico.
Pensa e ripensa, alla fine la scusa gli sembrò passabile e pazienza
se donna Alfonsina avrebbe fatto storie. Uscì dalla
stanza con fare baldanzoso, la folta criniera pettinata all’indietro,
barba rasata e il petto attillato nel vestito buono delle
grandi occasioni.
«Dove te ne vai parato a festa?» domandò sua madre
squadrandolo da capo a piedi. Vanessa non s’era mossa dalla
stanza.
«M’ero scordato di dirtelo: la scuola di Vallevera ha organizzato
un convegno sul disagio giovanile e mi tocca partecipare.
»
«E che c’entra il disagio giovanile di Vallevera con te?»
«Fino a prova contraria tuo figlio comanda la Compagnia
di Villabosco e perciò…» stavolta fu lui a troncare ad arte la
frase ma con donna Alfonsina non era cosa.
«Savè, sentimi bona: pure se l’artrosi mi mangia viva, rimbambita
ancora non ci sono addiventata e perciò le panzane
contacele a chi vuoi tu ma non a tua madre.»
«Quali panzane?»
«E ricordati queste parole: Vestiti arzuni ca pari baruni.»
«Che volessi dire?»
«Che non c’è bisogno che ti conci come ti conciasti per
impressionare a chi so io: ammuccia ammuccia, quello che
nasce si vattìa.»
«Vabbè ne discutiamo un’altra volta sennò arrivo tardi»
disse il maresciallo guadagnando l’uscita.
Donna Alfonsina scosse la testa palesando disappunto,
ma appena Bonanno scomparve alla vista, un sorriso materno
si dipinse sul suo volto.
«Nonna, sta andando dall’assistente sociale vero?» disse
Vanessa uscendo dalla stanza.
«Spegni il computer e finisci di studiare signorinella» disse
donna Alfonsina.
«E dai dimmelo, va da lei vero? Rosalia è proprio bella, e
pure simpatica.»
«Che ne vuoi sapere tu, che puzzi ancora di latte?»
«Secondo te nonna, tra lei e papà c’è speranza? Forse dovresti
metterlo a dieta.»
Donna Alfonsina raddolcì l’espressione e allargò le braccia.
Vanessa volò da lei. Fu un abbraccio tenero, ricco di
quelle cose buone che fanno bene allo spirito. L’aveva cresciuta
senza risparmiarsi, cullandola notte dopo notte e cantandole
piano la filastrocca della menta. Era ancora una
bambina ma donna Alfonsina sapeva quanto dolore nascondeva
quel piccolo cuore nel profondo.
«Ti piacerebbe come mamma?»
«Non lo so.»
«Tu una mamma ce l’hai.»
«Sei tu la mia mamma.»
«Io non vivrò in eterno, bimba mia.»
«Tu starai sempre con me, non è vero nonna?»
«Sempre Vanessa.»
Vanessa non voleva parlare della sua vera mamma e Donnna
Alfonsina non insistette.
«Dici che papà ce la farà?»
«Ai miei tempi si diceva: Quannu l’amuri tuppulia, nun lu
lassari nmezzu la via.»
«Che vuol dire nonna?»
«Che bisogna aprire e farsi trovare pronti quando l’amore
bussa alle porte del cuore.»
«Ti voglio bene nonna.» Donna Alfonsina strinse forte la
nipote e si asciugò con il grembiule una piccola lacrima.
«Andiamo a studiare ora.»
Vanessa era stato proprio un regalo del cielo, ed era certa
che prima o poi suo figlio avrebbe messo le cose a posto.
Agatina Piditella, detta ’A Catanisa, abitava nell’ex palazzo
appartenuto alla nobile famiglia del principe Caronia, avo
del ramo materno di suo marito. Il professor Cristenzio Ficalora
lo aveva ristrutturato rispettandone prospetti e geometrie.
Il palazzo risaliva al Settecento, e sorgeva accanto alla
chiesa di Santa Lidia Purpuraria, di fronte all’abitazione presa
in affitto da Rosalia Santacroce.
Nel centro storico di Villabosco trionfavano case in pietra
ornate da portali lavorati a mano, stradine laviche e acciottolato
di fiume, chiese d’epoca rinascimentale e barocca. Era
un susseguirsi di vie strette e ripide scalinate, anche se in alcuni
casi ci si poteva imbattere in stabili moderni che nulla
avevano a che fare con la storia del posto e il buon gusto.
Agatina Piditella, nata trentadue anni prima in un paesino
arroccato sui fianchi dell’Etna, era una donna fascinosa: i capelli
corti color fuoco esaltavano le linee spigolose del volto,
ingentilito da occhi allungati e penetranti e da un naso all’insù
che sembrava messo lì apposta per sfumare la piega carnosa
delle labbra.
Era snella e ben proporzionata, il ritratto della salute, eppure
Agatina non era riuscita a far germinare gli sforzi del
marito – alquanto svogliati negli ultimi tempi – in un erede
roseo e vivace. Aveva desiderato un figlio più d’ogni altra
cosa, ma gli anni erano passati e nonostante le consulenze di
specialisti e il calcolo dei giorni fertili, il suo ventre era rimasto
piatto e liscio come quello di una ventenne. Agatina alla
fine non era più riuscita a guardarsi allo specchio. Si sentiva
incompleta, come un bel fiore a cui manca il sole per sbocciare.
Da principio aveva pensato che fosse Ficalora, suo marito,
la causa di tutto. S’erano conosciuti quando lei ancora
credeva al principe azzurro. Lui era un uomo brillante, colto,
rampollo di una famiglia nobile e ricca. Aveva ottenuto
un incarico come docente nel Catanese, e lei se n’era innamorata
seduta stante. Due anni dopo lo aveva sposato, si era
trasferita nel palazzo nobiliare di Villabosco, e aveva creduto
che il prestigio di quel matrimonio l’avrebbe resa felice come
nelle favole che leggeva da piccola. Peccato che dopo la serenità
dei primi tempi, Cristenzio aveva cominciato a trattarla
con indifferenza, mostrandola nelle occasioni mondane come
un oggetto da esposizione piuttosto che presentarla come
la sua donna. Tra loro mancò la passione e quel bambino
che non arrivava mai diventò il centro di tutte le loro discussioni.
Lei lo accusò di essere un uomo mediocre, incapace di
dare felicità, ma l’ultimo verdetto dei medici ribaltò la situazione:
«Non ci sono speranze, signora. Mi dispiace, ma lei è
sterile». Era stato un luminare svizzero a dirglielo, un dottore
dall’aria compassionevole e gli occhiali d’oro. Da quel
giorno, tutto era cambiato. In peggio. Alla noia era subentrato
il rancore, e dopo undici anni di vita coniugale senza figli,
tra lei e suo marito non ci fu più nulla da dire. Ognuno conduceva
una vita autonoma, ritagliandosi gli spazi che desiderava
senza informare l’altro. L’unica cosa che teneva ancora
insieme il matrimonio era una sorta di reciproco interesse
formale. Bisognava salvare le apparenze e soprattutto Agatina
non voleva perdere gli agi e i vizi. Cristenzio Ficalora poteva
permettersi di fare l’insegnante in una scuola media e
dilettarsi nella direzione del giornalino dell’istituto, mentre
lei, che non aveva altro che se stessa e i soldi del marito, frequentava
la parrocchia, si dedicava al volontariato e curava
la casa. Una vita basata sul nulla, che pulsava di dolore tutte
le volte che usciva e vedeva giovani mamme accompagnare i
figli a scuola.
Quell’ingiustizia divina aveva un solo colpevole per Agatina
Piditella: Cristenzio Ficalora, che dopo aver saputo il
risultato della visita, l’aveva abbandonata al suo destino senza
degnarla più di uno sguardo. Non poteva accusarlo di
nulla, ma ultimamente suo marito le sembrava strano, quasi
sfuggente. Si era riscoperto un perfetto giardiniere, tanto che
andava nella sua tenuta di campagna, passando certe volte
anche la notte fuori. Le diceva che aveva bisogno di isolarsi,
di stare da solo, ma il dubbio che ci fosse un’altra donna cominciò
a torturarla. La faceva imbestialire l’idea di suo marito
che si divertiva tra le braccia di qualcun’altra, mentre lei
restava in casa a leccarsi le ferite. Tutte le volte che rientrava
lo tampinava di domande, ma lui restava muto e impassibile.
I suoi – diceva – erano soltanto i deliri di una pazza. Poi un
giorno l’aveva trovata. Una lettera d’amore. Cristenzio l’aveva
nascosta tra le carte della scuola, nel suo studio. Sembrava
un normalissimo tema, e invece era la prova di quel tradimento
che andava avanti da mesi. Povero illuso! Avrebbe
dovuto saperlo che non c’era buco in casa che una donna
non conosceva. Agatina continuava a fissare la canna lucida
della pistola che teneva in grembo. Il camino sfrigolava mor-
dendo la legna, i ceppi stagionati sprigionavano fiammate
alte che arroventavano l’ambiente della stanza. L’idea di privare
suo marito della dignità e di una cospicua fetta del suo
patrimonio, la stuzzicava ancora. Aveva scoperto cosette interessanti
su quella sgualdrina che gli lustrava il pelame, ma
quella lettera aveva cambiato le carte in tavola. Nel leggere la
lettera, un lago nero l’aveva inondata accendendo un furore
ferino. Erano bastate poche righe per annientarla come donna
e come moglie. Anni di sacrifici e viaggi della speranza a
farsi frugare dentro le viscere, per cosa? Per vedersi liquidata
come una scarpa vecchia? Non glielo avrebbe permesso.
Non aveva ancora un piano preciso, però era certa di volere
una vendetta esemplare. Dentro di lei era un turbinare
di sentimenti contrapposti, che s’infiammavano tutte le volte
che lui rincasava e aveva addosso il profumo di quella puttana.
Era un’agonia, come tutte le attese che si cibano d’indecisione.
Poi s’era resa conto che nulla era impossibile per chi
aveva lucidità e determinazione. In lei albergava l’energia
dell’Etna che erutta e distrugge. L’odio, come la lava, aveva
trovato la sua strada: gli avrebbe concesso una sola possibilità.
Una sola. E se Cristenzio non la coglieva, tanto peggio
per lui.
Afferrò la pistola e inserì il caricatore. Ormai era diventato
un vizio. Tutte le volte che lui non c’era, lei prendeva dal
cassetto la pistola e si guardava allo specchio. Era proprio un
bel oggetto, piccolo ma elegante. Il buco nero della canna le
ricordò quello femmineo e vorace della traditrice. Certi masculi
per un pelo di fimmina non vedono più dagli occhi, figuriamoci
per quel pertugio accucciato in mezzo alle cosce.
Ma a tutto c’è un limite, pensò andando alla finestra. Sbirciò
fuori verso un punto preciso. Le luci accese confermavano
che l’assistente sociale era in casa. Il suo arrivo, avvenuto
mesi addietro, non era passato inosservato nel centro storico
di Villabosco. Giovane e procace, girava voce di una recente
simpatia ricambiata col maresciallo Bonanno. Giusto quella
mattina, quando era andata al municipio per ritirare un certificato
all’ufficio Anagrafe, aveva intravisto Rosalia che confidava
civettuola a una collega di avere appena invitato a cena
il maresciallo. Quella sera stessa. Lì per lì Agatina non
aveva realizzato ma rientrata in quella casa, diventata troppo
vuota e troppo fredda, aveva ricevuto un’illuminazione. Il
cielo era dalla sua parte e il momento era propizio per dare a
Cristenzio quel che meritava: chi meglio di un maresciallo
della Benemerita avrebbe potuto dare consistenza al suo alibi,
se suo marito non avesse inteso la campana a morto che
gli stava suonando? Il destino quando voleva sapeva dare
una mano agli audaci.
Agatina ripose la pistola nel suo nascondiglio. Se lui
l’avesse costretta ad andare fino in fondo, lei avrebbe distrutto
quelle lettere eliminando ogni prova del proprio coinvolgimento.
Non si possono sostenere accuse senza prove. Si
sentiva lucida e fredda. Guardò l’orologio a pendolo e restò
in attesa, mordendosi un labbro e gustandosi il sapore del
proprio sangue, caldo e dolciastro. Dal cielo scuro, la neve
cominciò a cadere lenta. Inspirò a fondo e rimase alla finestra
avvolta nell’oscurità, seminascosta dai tendaggi.
Già di malumore per la litigata con donna Alfonsina – mai
che si facesse i fatti suoi quella santissima fimmina – prima di
trovare parcheggio nel centro storico, Bonanno fumò tre sigarette
e tirò giù a colpi di sacramenti una quarantina di san-
ti conosciuti. Nello spiazzo non c’era verso di sistemare la
Punto, aveva fatto il giro quattro volte ma sembrava che tutta
Villabosco si fosse data appuntamento in piazza per fargli
un dispetto.
Si imbestialì a tal punto da ripromettersi di non guardare
mai più un oroscopo in vita sua. Erano tutte fesserie. Alla fine
capitolò: tornò indietro e parcheggiò in divieto di sosta.
Smontò dalla Punto sbattendo la portiera, sapendo di essere
in ritardo per l’appuntamento con Rosalia e si incamminò.
Intabarrato nel cappotto blu, sotto indossava il vestito
scuro con la cravatta verde di pura seta e bordi vermigli di
cui andava tanto orgoglioso, e scarpe nuove di negozio in
pelle nera. Quelle calzature le avrebbe cedute volentieri a
Marcelli. A ogni passo era un tormento, strette com’erano.
Giunto a metà strada, cominciò a venire giù un po’ nevischio.
Un fiocco gelato si fermò tra l’incavo del collo e il vestito,
ma avendo entrambe le mani occupate, non poté far
nulla. Il parfait di mandorle e il profumo avevano la precedenza.
Si limitò ad alzare la testa, sperando di scioglierlo col
calore del corpo.
La luce dei lampioni tremolava sugli scalini sbrecciati della
via. Il campanile a pianta quadrata della chiesa di Santa
Lidia si stagliava di fronte. Raggiunse la piazzola dove poco
prima non aveva trovato parcheggio, e trovò due auto che
stavano andando via. Bonanno sospirò tentando di non perdere
la calma. In fondo mancava poco alla casa di Rosalia,
era inutile darsi pena con il fato quando nel giro di qualche
minuto sarebbe stato in paradiso.
*

Agatina Piditella buttò un’altra occhiata in strada e si
irrigidì: stava arrivando qualcuno. Nonostante i sensi all’erta,
le scappò un mezzo sorriso. La scena era davvero spassosa:
l’uomo avanzava con passo spedito, tentando di non
inciampare nel cappotto lungo ed elegante. Aveva le mani
impegnate, perciò non poteva togliersi la neve che gli si stava
cristallizzando sul bavero. In un gesto di stizza offrì il
volto alla luce del lampione. Agatina sussultò. Era davvero
il maresciallo Bonanno. Senza la divisa non lo aveva riconosciuto.
Il piano si compiva.
«Bada a te Cristenzio» disse con una smorfia. Fimmina
risoluta impastata di lava era Agatina Piditella.
La chiesa di Santa Lidia Purpuraria risaliva al XV secolo.
Dal 1600 sino alla fine del 1800 aveva ospitato la Confraternita
dei Porporini. Col progressivo spopolamento del
centro storico e la penuria di vocazioni, il tempio era stato
chiuso. Ora era una piccola chiesa, conservata dai restauri
e piena di stucchi all’interno. Autorevoli studiosi li facevano
risalire alla scuola dello scultore palermitano Giacomo
Serpotta.
A Bonanno non gliene importava nulla di gessi e cappelle,
ma sapeva che raggiunta la chiesa di santa Lidia, l’abitazione
di Rosalia stava dietro l’angolo. Era violaceo e infreddolito.
Suonò il campanello con insistenza ma quando Rosalia schiuse
la porta, si sentì avvampare.
I capelli lavati di fresco cadevano liberi sulle spalle fasciate
da un vestito rosso che avvolgeva le forme procaci e burrose
del corpo.
Bonanno perse immediatamente la facoltà di parola.
«Se non entri rischiamo di congelarci»sorrise Rosalia liberandolo
dal vassoio.
Bonanno entrò e si rianimò: aromi intensi lo avvolsero,
succulenti intingoli degni della migliore cucina d’Angelo
Agliuzza.
«Sei elegantissimo» aggiunse Rosalia adagiando il vassoio.
Bonanno notò il tavolo apparecchiato con cura.
«Meglio metterlo in frigorifero» suggerì.
Rosalia svuotò un paio di scomparti del frigo e riuscì a
sistemare l’enorme parfait di mandorle. Tornò da Bonanno
con due aperitivi. Il maresciallo si era tolto il cappotto.
«Che sciccheria» disse lei gratificandolo.
Bonanno gustò l’aperitivo arricchito da una scorzetta di
limone. Rosalia lo sapeva prendere per il giusto verso.
«Questo è un piccolo presente» disse porgendole il pacchetto
infiocchettato.
«Un altro regalo? Non dovevi, che cos’è?»
«Aprilo» rispose continuando a guardarsi attorno. Dove
le aveva sistemate le rose? Possibile non fossero ancora arrivate
a destinazione? Se Cacici ne aveva combinata una delle
sue lo avrebbe sbattuto di servizio sino al giorno del giudizio
universale.
«Che deliziosa fragranza. È buonissimo questo profumo»
disse Rosalia spruzzandosi i polsi.
Bonanno sorrise imbarazzato, Rosalia lo baciò sulla guancia
rasata. Aveva labbra vellutate e pelle morbida.
«Sei un tesoro. Ora andiamo tavola, ti ho preparato una
cena da leccarti i baffi.»
Il trillo del campanello li colse di sorpresa.
«Aspettavi qualcuno?» domandò Bonanno.
«Io no, tu piuttosto: non avrai detto in caserma che eri da
me?»
«Ci mancasse» rispose Bonanno.
«Chi può essere allora?» si chiese Rosalia andando ad
aprire.
Un ventaglio di rose si allargò ad altezza d’uomo e Costantino
Scarnazza, marito della titolare di Verde in fiore,
entrò reggendo a fatica quel pegno d’amore. Bonanno non
poteva certo lamentarsi, il gambo era lungo ma non tanto
quanto la vista di Costantino Scarnazza che con gli occhi saettava
dalla tavolata al vestito ripieno nei punti giusti di Rosalia.
Gli venne voglia di urlare. Cacici aveva colpito ancora.
«Salutiamo, maresciallo, che piacere trovarla qua. Ci fu
cosa o venne per altre motivazioni?»
«Per dare il battesimo a tua sorella» avrebbe voluto rispondergli,
ma si trattenne fissandolo malevolo.
Costantino Scarnazza non ci fece caso, divertito com’era
di averlo colto sul fatto.
«Che finezza, maresciallo, mai vista una cravatta magnifica
come la sua prima d’ora, si festeggia qualcosa?» domandò
facendogli l’occhiolino.
Bonanno si disse che prima avrebbe sparato a Cacici nel
nome del padre, per non dargli nemmeno il tempo di gridare
aiuto, e subito dopo si sarebbe occupato del fioraio. Altro
che donna Alfonsina! In poche ore tutta Villabosco e dintorni
avrebbe saputo della sua cena con l’assistente sociale.
«Le dispiace dirmi come posso aiutarla?» intervenne Rosalia
per riportare il dialogo nella sua giusta dimensione.
«Devo consegnare queste rose alla signorina Rosalia Santacroce
e se la vista degli occhi non mi inganna dovrebbe
essere lei medesima.»
«Mi faccia vedere» disse Rosalia leggendo il biglietto.
«Chi le manda?»
«Fino a cinque minuti fa non ne avevo idea ma scommetto
che ora azzeccherei chi è l’ammiratore segreto» disse il
fioraio fissando il maresciallo.
Bonanno cambiò idea: prima avrebbe sparato dritto in
mezzo agli occhi a Costantino Scarnazza poi subito appresso
a Cacici.
«Ecco, per il suo disturbo» disse Rosalia allungandogli un
pezzo da cinque e indicandogli la porta con un sorriso.
Costantino Scarnazza intese che era ora di ritirarsi.
«Grazie, signorina, e buon divertimento maresciallo. Mi
raccomando, se la spassasse» aggiunse un momento prima di
sparire.
«A quello domani gli orchestro una perquisizione in negozio
e gli faccio passare la voglia di fare lo spiritoso» rimbeccò
subito Bonanno.
Rosolia aprì il biglietto e lo lesse ad alta voce: «A colei i
cui occhi di cielo da soli specchiano il mare». Un velo di
commozione le passò sul volto. «Lo sapevo che avevi un animo
poetico» disse con occhi di donna.
«Mi vennero di getto, una cosa…naturale» balbettò Bonanno.
Il profumo di Rosalia lo intronava, e faticò parecchio
per non arrossire.
«Mettiamoci a tavola altrimenti si raffredda tutto» disse
Rosalia. Aveva avvertito il turbamento di Bonanno, e anche
lei si sentiva strana.
«Assaggia quest’antipasto e dimmi che te ne pare» cinguettò
servendogli un’abbondante porzione di cazzilli, olive
fritte e fagioli alla mentuccia.
Bonanno assaggiò e nitrì di approvazione: con le patate
bollite e poi schiacciate, Rosalia aveva impastato aglio e prezzemolo
tritati, spruzzandoli di sale e pepe prima di soffriggerli.
Un cazzillo come quello, e Urano poteva anche smettere
di vagabondare nell’universo conosciuto.
Gli versò un bicchiere di Pachino così scuro da annerire il
calice. Bonanno assaggiò: pura ambrosia. Arrivarono al primo
e Rosalia lo sorprese ancora apparecchiandogli spaghetti
a «picchi pacchiu» spolverati con pecorino stagionato. Bonanno
trangugiò ogni cosa, smorzando con corpose sorsate
di vino le vampate del peperoncino sminuzzato nella salsa
cruda. Poi fu la volta dei fegatini rosolati con aceto e cipolla
accompagnati da spinaci sbollentati e tre tocchi di salsiccia
al forno.
Si sentiva un re. I suoi sentimenti verso Rosalia andavano
dall’apprezzamento alla sublimazione: mai una donna lo
aveva trattato a quel modo. Che altro poteva chiedere alla
vita?
«Lo vuoi un digestivo«? chiese Rosalia.
«Prima del dolce?»
«L’avevo dimenticato.»
Bonanno smezzò il parfait di mandorle, calcolando gesti e
movimenti.
Arrivarono al caffè e venne il momento atteso e temuto:
quello che non era stato detto a tavola se non con sguardi e
sorrisi a intervallare complimenti e portate, stava per uscire
una volta per tutte. Bonanno fissava Rosalia e lei si lasciava
guardare. Rosalia lo stuzzicava e Bonanno si lasciava punzecchiare.
Dell’arresto di Porcufinu non avevano voglia di parlarne.
Era stato un pretesto e lo sapevano entrambi. Altri
erano i turbamenti tra loro che esigevano risposte, ma il maresciallo
non sapeva da che parte incominciare per parlare
della sua ex. Rimandava ora accendendo una sigaretta ora
centellinando il caffè, intanto che il cervello fumava per lo
sforzo.
«Ho saputo che sei stato sposato» attaccò Rosalia imporporandosi
sulle gote.
Il maresciallo si trovò stretto all’angolo.
«Una volta… successe tanto tempo fa, manco mi ricordo…»
«Hai una figlia splendida e Vanessa ti adora.»
«È una brava bambina. Quando torno devo aiutarla a fare
il tema sulla guerra.»
«Quale guerra?»
«Quella in Kossovo.»
«Che tragedia! Non c’è un angolo in pace su questa nostra
disgraziata terra, un folle si alza e tutti gli vanno dietro.
Gli uomini sono pecore, mai una che si discosti dal branco»
disse Rosalia con aria triste.
«Che ci vuoi fare, è la vita.»
«Non dire sciocchezze, questa sorta di rassegnazione sa
di complicità e tu non sei il tipo da avvalorare questi sconquassi.
Ricordi Michelino? Ricordi quei degenerati che lo
violentavano? La vita non può essere solamente questa barbarie,
non posso credere che non sappiamo fare altro che
scannarci l’uno con l’altro, ci deve essere qualcosa di diverso
che unisce le persone, qualcosa di più profondo per cui vale
la pena vivere, qualcosa che nasce inaspettata, magari ora, in
questo stesso momento che ti sto parlando col cuore in mano,
non credi?»
Rosalia aveva occhi pieni di luce. Bonanno si sentì bruciare
ma non era colpa del peperoncino e nemmeno del
caffé e neppure della sigaretta. Altra calura gli incendiava il
petto. Incurante degli spettri del passato, si dispose a ubria-
carsi a quel favo traboccante e inebriarsi di caldo sangue di
fimmina.
Rosalia era così vicina, così ben disposta.
Allungò la mano tremante. Tutto intorno a lui turbinava.
Ancora un attimo e avrebbe finalmente intrecciato il suo destino
a quello di lei.
Un colpo secco squassò l’aria. Un cane abbaiò rabbioso.
Bonanno scattò in piedi mettendo mano alla pistola.
Qualcuno aveva appena sparato rompendo la magia della
loro notte.
Nelle notti trasparenti, quando la luna spolverava di chiarore
le alture in lontananza che già diventavano Albania, Serge
raccontava a suo figlio le leggendarie imprese di Scanderbeg.
Lo teneva in braccio, mentre fuori l’aria sapeva d’uva e prugne
acerbe.
Suo padre confondeva storia e leggenda, ingigantendo le
imprese di quel giovane impavido diventato eroe nazionale,
per radicare in suo figlio l’appartenenza all’antico popolo da
cui discendevano: gli Illiri. Gli Illiri erano gente fiera, che da
sempre aveva cercato la propria indipendenza a costo di dure
battaglie. Il combattente più valoroso era stato Giorgio
Castriota, figlio del principe Giovanni Castriota, nato a Krujë
attorno al 1403 e morto vicino a Lesh nel 1468.
Nella bonaria inventiva di Serge, Giorgio Castriota era
personaggio con poteri straordinari. Attorno a lui cuciva storie
sempre nuove, come la vicenda degli stivali e del ladro
che una notte li trafugò. Mishna adorava quel racconto, e
non se lo era mai più dimenticato.
Giorgio Castriota, raccontava suo padre, da giovane era
stato dato in ostaggio al sultano Murad II per evitare che i
turchi annientassero l’Albania. Allevato ed educato nella religione
musulmana, Giorgio crescendo era diventato un abilissimo
uomo d’armi e ben presto si era distinto nelle battaglie
contro serbi ungheresi e veneziani che guerreggiavano
contro l’impero ottomano per difendere il cristianesimo. In
quelle battaglie, l’ardimentoso capitano s’era meritato il soprannome
di Scanderbeg: principe Alessandro. Era un uomo
fiero e giusto, raccontava, ma come tutti gli uomini fu
preda della vendetta e del sangue.
«Scanderbeg dormiva con gli stivali per essere sempre
pronto in caso di pericolo a balzare sul suo destriero imbracciando
la scimitarra. Sull’esercito ottomano si allargava
una notte scura, le nubi coprivano la luna, Scanderbeg si
destò agitato con la strana sensazione che gli mancasse una
parte di sé. Sulle prime non capì, ma poi si accorse che non
indossava più i suoi amati stivali. Qualcuno glieli aveva sfilati
mentre dormiva. Com’era potuto accadere? Avrebbe
mozzato le mani a chiunque fosse stato, e dopo averlo impalato,
gli avrebbe staccato la testa dal collo. Mentre pensava
alle pene che avrebbe inflitto all’infame, notò una sagoma
luminescente aggirarsi nell’accampamento. Quell’ombra
reggeva le sue calzature, e quando si inoltrò nel fitto della
boscaglia, Scanderbeg si lanciò all’inseguimento. Lui era
forte e agile ma anche l’ombra lo era, e la caccia durò a lungo.
Giunto nei pressi di una radura mai vista prima, Scanderbeg
si fermò per prendere fiato e si guardò attorno. Non
c’era nessuno. Fu allora che le nubi si schiusero e un raggio
di luna fece brillare nella notte i suoi stivali. Erano appoggiati
sopra a una roccia strana, a forma di croce. Nessuno
seppe mai cosa successe quella notte né chi fosse quella strana
sagoma luminosa – continuava Serge con aria trasognatama
il giorno appresso Scanderbeg abbracciò di nuovo la fede
cristiana, e allontanandosi dall’accampamento ottomano,
giurò di combattere contro i turchi per liberare la sua Patria.
Organizzò la riscossa a Krujë, bastonando con un ma-
nipolo di uomini prima Murad II e poi Maometto II. Prima
di ogni battaglia, rammentando quello che gli era accaduto,
Scanderbeg soleva dire ai suoi uomini: Ricordate, un uomo è
niente senza i suoi stivali. Fratelli, riprendiamoci la terra che
ci appartiene! Hai inteso Mishna? Un uomo senza stivali
non è nessuno.»
Mishna guarda le sue scarpe che urtano contro gli arbusti
ai lati del sentiero.
Sono scarpe alte di vitello morbido, fatte a mano. Glieli
aveva regalate suo padre per il suo decimo compleanno.
È ancora troppo presto per dimenticare eppure Mishna si
sente come svuotato, solo, indifeso. Il silenzio della valle lo
avvolge. Si ferma, deciso a scomparire anche lui in quella terra
di nessuno. Zmitra nemmeno si volta, continua a procedere
con le spalle curve e il passo stanco. Mishna la guarda e si
sente crescere dentro un sentimento strano a cui non sa dare
un nome. Si sente braccato, combattuto tra la rabbia e la voglia
di tornare indietro. Chissà se Scanderbeg aveva provato
la stessa cosa quando si trovò in mezzo ai turchi, pensa.
Un uccello nascosto dalle fronde di un albero accanto a
lui si alza in volo, spaventato forse da qualcosa. Mishna sussulta,
resta in ascolto. Il cuore batte forte.
Un uomo senza i suoi stivali non è nessuno.
Odio puro. Cristenzio Ficalora si tamponò la spalla e fissò
incredulo sua moglie. Un fiotto caldo di sangue gli colava dal
polso fino al gomito, gocciolando sul tappeto della stanza.
Agatina stringeva la pistola, un filo di fumo si spandeva
acre. Lo squadrava con occhi spiritati. Non una parola dalle
labbra serrate in un grumo di spregio. Con calma prese di
nuovo la mira, l’occhio fumoso dell’arma vomitò un’altra
fiammata e l’urlo del marito rintronò nel quartiere. Fu l’ultima
immagine che Cristenzio mise a fuoco prima di accasciarsi
sul pavimento.
Bonanno si precipitò in strada con la giacca aperta e la camicia
sbottonata. Il gelo lo prese alla sprovvista. Rosalia gli era
accanto.
«Che sta succedendo?» chiese.
«Qualcuno sparò qua vicino.»
«Chi può essere stato?»
«Qualche gran figliazzo di buona madre ha voluto rovinarci
la serata» concluse Bonanno.
I pochi residenti, incuriositi dal baccano, si affacciarono
dalla porta e dalla finestra, chi mezzo svestito e chi già in pigiama,
e domandavano ora a Rosalia ora a Bonanno: «Che
furono sti botti? Scoppiò qualche cosa? Gesummaria che
successe?».
Da una sola abitazione, nonostante la luce accesa, nessuno
si affacciava.
«Chi ci abita in quel casamento?» domandò Bonanno.
«La famiglia Ficarola, lui è un professore, la moglie è della
zona di Catania, perché ti interessa?»
«Perché quei due o si scordarono la luce accesa oppure
quella è la casa dove spararono.»
«Che possiamo fare?»
«Ci togliamo il pensiero» disse Bonanno avviandosi verso
il portone con la pistola in pugno. Percorse rapido i pochi
metri di distanza e scampanellò. Nessuno rispose.
«Non è il maresciallo Bonanno quello?» si informò una
vecchina aggiustandosi lo scialle nero sulla testa. Ritta sulla
porta di casa, nascondeva la visuale al malandato consorte
che le stava dietro.
«Lui mi pare, che ci fa da queste parti? E perché tiene lu
pistuluni in mano? Fu lui che sparò?»
«Senti quello che ti passa per la mente sclerotica… non lo
vedesti come si vestì elegante?»
«Quella non è l’assistente sociale del Comune?»
«Lei è, capisti ora?»
«Ah, intrallazzo ci fu!.»
Incurante che il suo incontro con Rosalia fosse diventato
ormai di dominio pubblico, Bonanno continuava a scampanellare.
«Non risponde nessuno, dev’essere accaduto qualcosa di
grave, che facciamo?» domandò allarmata Rosalia.
«Chiama la Centrale e avverti i pompieri, dobbiamo buttare
giù la porta.»
«Tu pensi che….»
«Io non penso niente ma se non aprono, in qualche maniera
dobbiamo entrare per controllare quello che capitò, ce
l’hai una scala?»
«E a che ti serve?»
«Per arrivare al primo balcone e trovare un’altra via.»
Rosalia lo fissò. Bonanno, faccione pacioso e risoluto, s’era
trasformato: un combattente vero era, che non si curava del
freddo né del pericolo. Avrebbe voluto gettargli le braccia al
collo.
«Vado a prenderla» disse. Si era allontanata di pochi passi
quando il pesante portone in legno produsse uno scatto
metallico e uno scricchiolio. Qualcuno lo aveva aperto attivando
il meccanismo automatico.
«E adesso?» domandò Rosalia.
«Se aprirono vuol dire che c’è qualcuno, tu resta qua, io
vado a verificare.»
Bonanno si infilò dentro l’atrio, percorse la scalinata di
marmo e legno lucido stando rasente al muro. Procedeva
cauto, i sensi all’erta. A dispetto della mole, i lunghi anni di
servizio all’Arma lo avevano abituato a stare con i muscoli
ben tesi, pronti a scattare al primo avvistamento. Il suo sesto
senso gli suggeriva che i colpi erano esplosi proprio in quella
casa. Arrivato al primo piano rimase in ascolto, poi si girò e
si accorse che Rosalia lo aveva seguito.
«Torna indietro per la miseria, non è cosa per fimmine
questa» disse a bassa voce.
Rosalia gli fece cenno di far silenzio e di proseguire. Bonanno
si irrigidì. Quella donna era proprio testarda. Si risolse
a lasciarla stare, si appiattì lungo la parete dell’ingresso,
prese un lungo respiro e disse a voce alta: «C’è

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 13:38 da Roberto Mistretta


@Mistretta.
A parte il già tanto conclamato Maresciallo Bonanno, mi sembra che uno dei protagonisti meglio riusciti di questo romanzo sia proprio la signora Agatina Piditella, una donna che non mi augurerei mai di incontrare di notte, in un vicolo buio. Raccoglie in lei il dramma epico della passionalità, animata da un desiderio di vendetta feroce; una donna glaciale, cinica, diabolica. Sulla sua figura si sviluppa la trama del romanzo ed ella è capace di tenere testa al maresciallo senza mai scomporsi e arretrare di un millimetro. Mi ricorda per certi versi le grandi donne letterarie del passato, in primo luogo “La lupa” di Verga, per la forza del carattere, l’ostinazione, la determinazione a perseguire il suo scopo, l’alone funesto di cui è circondata. O la più recente “La notara” del mio amico Alfio Aurora, romanzo d’esordio che al primo colpo ha vinto il premio Bonaviri, a Mineo.
Sei d’accordo? E’ un personaggio scaturito dalla pura fantasia, o ti sei ispirato a qualche tua compaesana di Mussomeli? Fammelo sapere, poiché nel secondo caso quando vengo a trovarti mi fornisco di giubbotto antiproiettile.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 13:42 da Salvo zappulla


@Roberto. Già che ci sei, lascia anche gli altri capitoli rimasti così i nostri amici lo leggono qui e risparmiano di comprare il libro.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 13:46 da Salvo zappulla


Massimo, per errore ho postato due volte lo stesso post (più sopra): chiedo scusa…

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 14:22 da Elisabetta Modena


dibattito grandioso. dovevo dirvelo.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 16:26 da barnie


Messaggio per Miss Lucy Steele da parte di Mr. Albert Hope: a Roma c’è qualcuno che pensa ognor a lei! Superbaci, F.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 17:45 da francesco costa


@Annalisa….è vero, ma ultimamente una brava scrittrice ha proposto un personaggio seriale femminile! Silvana La Spina, già magistrale autrice di romanzi storici come “La creata Antonia” ha di recente pubblicato per Mondadori:

“Uno sbirro femmina” e “La bambina pericolosa”.
@Roberto Mistretta: bravo!
@ Salv(uccio) ….grazie!

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 17:59 da simona lo iacono


Caro Salvo, vai tranquillo, per stavolta niente elmetto né giubbotto antiproiettile: Agatina è personaggio di pura fantasia, ma ha suscitato tanta curiosità che sarò costretto a farla tornare ad incrociare la strada del nostro Bonanno tra qualche anno.
Aggiungo che pur avendo connotazioni negative, almeno dal mio punto di vista creativo, il suo personaggio ha suscitato in alcune lettrici un moto di istintiva simpatia e solidarietà: in fondo lei ha solo difeso quel che è suo, peggio per chi non ha inteso la campana ed ha sottovalutato la sua determinazione di donna ferita.
Un punto di vista assai interessante che ho già archiviato per futuri sviluppi.

Per Simona Lo Iacono: grazie e complimenti anche a te per il Vittorini opera prima, leggero al più presto il tuo romanzo che mi dicono (Salvo Zappulla e Massimo Maugeri) essere un autentico capolavoro, con un linguaggio ricercato e magnifico. Per altro un paio di anni fa sono rimasto molto impressionato da Cenere, romanzo d’esordio della bravissima Tea Ranno che lo ambientò nel 600.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 21:48 da Roberto Mistretta


Volevo ricordare a chi fosse interessato che domani alle 18 presso la libreria Cavallotto a Catania (Corso Sicilia 91), Massimo Maugeri e Litterio, presenteranno il mio libro.
Potrebbe essere l’occasione buona per continuare la discussione di presenza.
Noi vi aspettiamo.
Saluto tutti gli amici intervenuti (ciao Nino), e ci risentiamo domani.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:13 da Roberto Mistretta


Grazie a tutti per i nuovi interventi.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:36 da Massimo Maugeri


@ Roberto Mistretta
Ehi… grazie per i generosi estratti.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:38 da Massimo Maugeri


@ Melania
Grazie, Melania. Una volto rotto il ghiaccio… non ti resta che tornare a scrivere:-))

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:39 da Massimo Maugeri


Un saluto ad Ausilio Bertoli, Franca, Barbara, Paolo, Letizia, Mario, Barnie.
E alla cara Elisabetta Modena.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:41 da Massimo Maugeri


@ Annalisa
Un altro personaggio seriale femminile è Maria Dolores Vergani: commissario di polizia che opera a Milano, ideato dalla penna di Elisabetta Bucciarelli.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:42 da Massimo Maugeri


@ Francesco Costa
Caro Francesco, dicci qualcosa di più sul film tratto dal tuo romanzo “L’imbroglio nel lenzuolo”…

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:44 da Massimo Maugeri


@ Roberto Mistretta
Due cose…
1. Ti confermo quanto dettoti a Torino per il “Tu non dici parole” di Simona
2. Una cosa che ti chiederò domani…
La “cattiva” del romanzo – la signora Agatina – è detta a Catanisa (la catanese… perché è di Catania).
Domanda: ma nel tuo personale immaginario le donne catanesi sono fredde, calcolatrici e ciniche come la Agatina del tuo libro?
:)
(ovviamente, scherzo)

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:47 da Massimo Maugeri


Per tornare al dibattito principale vi riformulo una delle mie domande in maniera moooolto più cattiva…
Se doveste salvare uno (e uno solo) dei personaggi seriali che popolano le pagine dei libri… chi salvereste? E perché?

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:50 da Massimo Maugeri


E con la domanda di cui sopra… vi auguro la buonanotte.
(aspetto domani, presso la libreria Cavallotto, gli amici della Sicilia centro-orientale).

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 22:54 da Massimo Maugeri


maigret, senza dubbio.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 23:41 da Carlo S.


Senza pensarci:solo e sempre Maigret di Simenon,intramontabile,il padre di tutti i personaggi seriali,indimenticabile, umanamente perfetto.

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 23:51 da francesca giulia


« Di veramente mio … ho dato a Maigret una regola fondamentale della mia vita: comprendere e non giudicare, perché ci sono soltanto vittime e non colpevoli. Gli ho dato anche gli ineffabili piaceri della pipa, ovviamente. … Devo aggiungere che gli ho dato anche un certo gusto per i cibi. » G.Simenon

Postato giovedì, 11 giugno 2009 alle 23:55 da francesca giulia


…Aggiungo che a Maigret ho dato un’ altra regola: non bisognerebbe mai togliere all’ essere umano la sua dignità personale. Umiliare qualcuno è il crimine peggiore di tutti»
Ecco qualche ragione fra le tante per cui adoro il Maigret di Simenon.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 00:00 da francesca giulia


diciamoci la verità. si potrebbe fare a meno di tutti, tranne che di sherlock holmes. lui è il personaggio seriale più potente. quello che rimane imperituro nel nostro immaginario collettivo.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 09:29 da barnie


maigret?
è solo un epigono di holmes.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 09:29 da barnie


Salve, mi chiamo Abilìo Quaresma. Sono un personaggio seriale, figlio di Ferdinando Pessoa.
Le mie sono storie poliziesche. E io sono un decifratore di enigmi.
Vi sorpende che Pessoa amasse il genere poliziesco?
Vi sbagliereste…
Il rapporto di grande affezione che Fernando Pessoa ha mantenuto nel corso della vita con il genere poliziesco è ben documentato nei diari e nelle lettere. Il poeta, nell’anno della sua morte, in una lettera scritta al famoso critico Adolfo Casais Monteiro, manifestò esplicitamente l’intenzione, addirittura, di anteporre la pubblicazione di queste storie a quella della sua poesia.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 09:37 da Abilìo Quaresma


Dimenticavo. E’ da poco in libreria “I casi del dottor Abílio Quaresma. Romanzi e racconti polizieschi” di Fernando Pessoa (sopra ho scritto Ferdinando: chiedo perdono al mio creatore).
E’ edito da “Cavallo di Ferro”
http://www.ibs.it/code/9788879070522/pessoa-fernando/casi-del-dottor.html

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 09:39 da Abilìo Quaresma


Tra i personaggi seriali salverei anch’io Maigret. I motivi espressi da Francesca mi sembrano più che validi.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 11:05 da Santo


ìntimo a quell’escrescenza vanitosa del dottor Quaresma di tornare nel baule:dobbiamo passare l’Acheronte………

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 11:49 da Antònio Mora


E invece, se il padrone di casa mi darà l’autorizzazione, tornerò a presentarvi una mia storia…

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 12:17 da Abilìo Quaresma


Maigret, senza dubbio, per le caratteristiche che ha così bene evidenziato francesca giulia.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 12:18 da Renzo Montagnoli


Santo di nome e di fatto,w Maigret!
Renzo grazie, W Maigret!
…che poi i romanzi di Simenon sono bellissimi,premiamo il personaggio seriale,ma anche uno degli autori più proliferi di libri al mondo!!
p.s.si capisce che sono una simenoniana fervida.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 13:19 da francesca giulia


Uno solo? Maigret. Per l’umanità del personaggio e la bravura di Simenon a creargli attorno un’atmosfera ineguagliabile.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 13:23 da Anna Maria Loglisci


@Massimo mi sa che questa volta ho appoggiato il candidato giusto!!:-)
Magari Simenon con Maigret potrebbe vincere una nuova versione del LBA.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 13:26 da francesca giulia


Va bene dottor Quaresma,non sarò io ad impedirle il Nulla,ma non appena,stanco delle sue inconcludenti indagini, riposerà in un giardino di Lissipoa,penetrerò nei suoi sogni e la condurrò nell’Iperuranio……intanto vado dal barbiere.

Ave ai sodali maugeriani e maigretiani e scusatemi e ancora scusatemi per il fuori tema che voi italiani chiamate off topic ma Zeus vi perdonerà.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 14:03 da Antònio Mora


Numme menate.
Io salverei Malaussene.

Vero Massimo che non mi banni?
PPPP

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:00 da zauberei


Perché dovrei bannarti, cara Zauberei?
Non ti bannerò mai. Qui a Letteratitudine sei imbannabile :)
E poi Malaussene non è l’ultimo arrivato…

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:03 da Massimo Maugeri


Buon pomeriggio a tutti e grazie per i nuovi interventi.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:03 da Massimo Maugeri


@ Francesca Giulia
E sì… mi pare che Maigret sia proprio in volata:-)

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:04 da Massimo Maugeri


Un saluto anche a Carlo, Santo, Barnie, Anna Maria, Renzo, Antònio Mora.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:08 da Massimo Maugeri


La presenza di Abilìo Quaresma era stata concordata con gli amici delle edizioni “Cavallo di Ferro”. Come è stato detto, si tratta di un personaggio ideato dal grande Fernando Pessoa.
Pubblico di seguito un racconto gentilmente inviatomi da “Cavallo di ferro” tratto da “I casi del dottor Abílio Quaresma. Romanzi e racconti polizieschi” di Fernando Pessoa.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:10 da Massimo Maugeri


DELITTO

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I – IL CASO
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L’ispettore Manuel Guedes, della Polizia Investigativa, aveva appena finito di scrivere le ultime righe d’una cosa qualunque, mentre in piedi, dall’altro lato della scrivania, un agente con dei fogli in mano aspettava. Guedes finì, depose la penna e dopo aver riflettuto, ancora con qualche dubbio su quanto scritto, si addossò allo schienale della sedia, mutando l’espressione fino a lì aperta del suo volto virile, bonario per natura, ma cui qualcosa – o l’intelligenza, o il vizio professionale, o entrambe le cose – dava un’impressione di durezza. Si lisciò per un attimo la punta destra dei baffi neri e grigi; alzò poi gli occhi verso l’agente.
— Mi dica, Pereira.
L’agente sollevò i fogli che aveva quasi posato sul tavolo.
— Si sieda qui Pereira — disse Guedes.
L’agente si sedette sulla sedia indicata, a destra dell’ispettore, e mise i fogli sulla scrivania.
— Ispettore, c’è quel ragazzo, Lopes, che ieri è uscito dalla festa delle Juventudes Católicas in compagnia di quell’altro che è stato ritrovato morto nel fiume.
— Lo faccia entrare.
Entrò un ragazzo di statura un po’ superiore alla media, vestito decentemente di blu scuro. Aveva una faccia comune e simpatica, un’aria intelligente, quasi arguta e occhi che potevano essere definiti di un nero vagamente spento. Era quanto si coglieva al di là di quanto si vedesse adesso in lui – l’aspetto avvilito, gli occhi gonfi dal pianto.
— Si sieda qui — disse l’ispettore Guedes.
Il ragazzo obbedì.
— Era un suo grande amico quel povero Monteiro che è stato trovato morto nel fiume?
— Ero il suo migliore amico come lui era il mio.
— Lei si chiama José António Lopes, vero? — continuò l’ispettore. — Ha 21 anni e abita in Rua ______.
— Sissignore.
— Qual è stata l’ultima volta che ha visto il suo amico in vita? Cioè, qual è stata l’ora, più precisa possibile, in cui per l’ultima volta lo ha visto vivo?
— Glielo posso dire con esattezza: mezzanotte e cinque…
— Dell’altro ieri, chiaro.
— Sì, certo.
— Come fa a ricordare un’ora così precisa?
— È semplicissimo, signore. Dovevamo andare alla festa delle Juventudes – delle Juventudes Católicas – a cui appartenevamo entrambi. È passato da casa mia – abitava un po’ prima di me, cioè un po’ prima nella direzione che dalla Baixa va verso il Beato. Ci sono cinque minuti di strada, non camminando piano, da casa mia alla sua. Ma, poiché eravamo molto amici e andavamo sempre d’accordo, tant’è che tra noi non c’è mai stato un litigio, ci piaceva andare insieme quando era possibile. In occasioni come queste era più facile, dato che abitavamo vicino e andavamo alla stessa festa. Doveva essere un po’ prima delle 8 e mezza (questo orario non lo so di preciso) quando lui è passato da me per andare insieme alla festa; dico che doveva essere poco prima delle 8 e mezza perché arrivammo alle Juventudes alle 9 meno dieci – la festa era alle 9 –, e so, per aver fatto tante volte quella strada, che con la mia andatura e anche la sua, impiegavamo mezz’ora da casa mia alle Juventudes.
— Benissimo, benissimo. Continui. È proprio questo che voglio sapere.
— Siamo arrivati alla festa, ci siamo fermati, e nonostante la festa non fosse finita, abbiamo pensato che fosse già tardi per noi che dovevamo alzarci presto. Non ho guardato l’ora esatta in cui siamo usciti dalle Juventudes, perché, dopo aver deciso di andarcene, ci siamo fermati un altro po’ a parlare. Ma poiché siamo arrivati a casa a mezzanotte e cinque e siamo andati con il nostro passo abituale, dobbiamo essere usciti dalle Juventudes un po’ prima delle 11 e mezza. Non so se…
— Va benissimo, benissimo. Non tema di essere noioso. Più dettagli mi fornisce, meno mi annoia.
Il ragazzo proseguì, un po’ sollevato – per l’attenzione che veniva rivolta al suo racconto – dal manifesto avvilimento con cui era arrivato.
— Arrivati alla porta di casa mia, ci siamo salutati, io sono subito salito e lui ha proseguito per la sua strada —. La voce del ragazzo tremò: — È stata quella l’ultima volta che l’ho visto vivo.
— Non siete rimasti a parlare sulla soglia di casa?
— No: avevamo tutti e due fretta di andare a letto. Io sono subito salito e mi sono coricato dieci minuti dopo, nonostante in casa ci fossero ospiti. Ma non erano persone con cui fare cerimonie, ho chiesto scusa e me ne sono andato a letto… Ah, lei vuole sapere come faccio ad essere tanto sicuro dell’ora – l’ora in cui sono arrivato a casa. Per questo. Appena sono entrato nella sala da pranzo, ho guardato l’orologio e ho visto che era mezzanotte e cinque. Padre Abel – il suo nome è Abel Nunes –, un vecchio amico di mio padre e una delle persone che stavano in casa, mi ha chiesto per scherzo da quale bisboccia arrivassi a mezzanotte e cinque del suo orologio. È per questo che ho l’ora precisa – da due orologi.
— Ottimo. Senta e chi c’era lì a parte il padre Abel?
— Chi c’era? — disse il ragazzo un po’ sorpreso. — Di fuori?
— Di fuori e di casa.
— Di casa c’erano mia zia e, in cucina, la domestica. Di fuori, oltre padre Abel, c’erano due miei cugini, marito e moglie, persone già di una certa età. Ma…
Guedes sorrise.
— Le spiego. Quando c’è una morte che potrebbe essere un delitto…
— Ma come potrebbe…
— Ascolti: ora ci arriviamo. Quando c’è una morte che potrebbe essere un delitto, una delle prime cose che dobbiamo sapere è dove si trovavano, nell’ora presunta in cui è avvenuto il decesso, le persone che più recentemente sono state con la vittima o le persone che potrebbero aver desiderato la sua morte o trarne vantaggio.
— Ma io, io!… — esclamò il ragazzo terrorizzato.
— Si calmi — lo interruppe Guedes, sorridendo. — Non l’ho inserita in questa categoria. Ci sono volti che non riesco a leggere, ma il suo si legge benissimo e mai lo riterrei capace di uccidere qualcuno, e tanto meno il suo miglior amico (lo si vede nei suoi occhi che lo doveva essere). Ma dobbiamo applicare questo metodo con tutti. Lei, peraltro, non è nell’elenco dei sospetti, ma tra le persone che hanno visto il defunto poco prima dell’ora presunta della morte. E se faccio questo tipo di domande a lei, è semplicemente perché è il primo testimone che interrogo, tranne, chiaro, quelli che hanno rinvenuto il corpo e la guardia che è stata chiamata. Quindi non si agiti. Continuiamo. Finora sappiamo che lei è stata l’ultima persona che ha visto e parlato a Monteiro prima della sua morte, supponendo, chiaro, che lui non sia morto assassinato, altrimenti l’ultimo sarebbe l’assassino.
— Mi scusi, ispettore Guedes, non è proprio così. Eliminando la faccenda dell’assassino, cui non credo – cioè non credo che Álvaro sia stato assassinato (chi avrebbe voluto ucciderlo?) –, eliminandola, c’è per lo meno un individuo, tuttavia non so chi sia, che ha visto e ha parlato con Álvaro dopo di me.
— Come sarebbe a dire? — esclamò Guedes. — Ma lei non aveva detto di essere salito subito? È per caso andato alla finestra? O sa indirettamente di quest’altro individuo?
— È molto semplice, signor ispettore. Quando siamo arrivati alla mia porta, ci siamo salutati, come le ho detto, e Álvaro ha subito proseguito verso casa sua, dalla mia parte del marciapiede. Ma, tra tirar fuori le chiavi dalla tasca, mettere la chiave nella serratura e aprire la porta, passa sempre qualche secondo. Mentre lo facevo, ero voltato dalla parte di Álvaro che camminava. Avevo appena finito di girare la chiave quando mi sono accorto, e confesso con un certo stupore, che un individuo che stava dall’altra parte della strada, al buio, e che doveva essere lì fermo, altrimenti, a quell’ora, se ne sarebbe sentito il passo – ho notato che quell’individuo, con soprabito e cappello floscio scuro, ha attraversato e si è diretto verso Álvaro. Álvaro è sembrato riconoscerlo subito e ha attraversato per andargli incontro. Si sono trovati a metà strada, si sono stretti la mano e poi hanno proseguito insieme.
— Perbacco! — disse Guedes. — E lei non sa chi è quel tipo? È riuscito a vederlo bene?
— Quando ha attraversato, sì. Il lato di qua della strada, sebbene poco illuminato, lo è più dell’altro che era al buio completo. E lo era così tanto che non ho visto l’uomo, che doveva stare lì fermo, fino a quando non si è diretto verso Álvaro.
— E lei dice di non conoscerlo o che non ha riconosciuto quel tipo?
— Non è che non l’abbia riconosciuto, è che davvero non lo conosco. Sono molto fisionomista sia per i visi, che per le sagome e i modi di camminare. Non ho visto quell’individuo tanto bene, ma le posso garantire che è una persona che non conosco nemmeno di vista. Mi stupisce perché conosco quasi tutte le persone conosciute da Monteiro.
— Che tipo era? Se lei lo vedesse un’altra volta, lo riconoscerebbe?
— Forse no. Il massimo che potrei fare, se mi mostrasse qualcuno chiedendomi se è lui, sarebbe dirle se gli somiglia o no, se è più o meno lo stesso tipo. Vede, signor ispettore Guedes, sono molto fisionomista, ma, ovviamente, per le facce e le figure che vedo bene, almeno una volta. Lui, l’ho visto male.
— Ma che tipo era, a quanto ha potuto vedere?
— Era giovane, non come me o Álvaro, ma da quanto gli ho visto del viso, cioè quasi niente, doveva essere un uomo intorno ai trent’anni, almeno trenta.
— Perfetto. E la statura, il vestito, quello che gli ha visto del viso?
— Era un uomo alto – un po’ più di Álvaro che è… era… più o meno della mia altezza. Era anche meglio piazzato di Álvaro e questo forse mi ha fatto pensare che fosse più vecchio di noi. Del viso ho visto poco, non solo per la luce, ma perché aveva un cappello di feltro floscio – nero o comunque scuro – abbassato sugli occhi. Ho notato anche che portava gli occhiali, di quelli con la montatura di tartaruga, un profilo un po’ giudeo.
— Un profilo comune tra i portoghesi…
— Sì… E che aveva baffi scuri, ma non ho visto se grandi o piccoli: mi sembra piuttosto una via di mezzo.
— Baffi a punta o tagliati? Questo ovviamente non lo ha visto.
— No, non l’ho visto. Ho visto che aveva i baffi per l’ombra sul labbro superiore.
— Perfetto. E ha notato qualcos’altro.
— Sono naturalmente un osservatore e avrei voluto sapere chi era quell’uomo che non avevo mai visto, né con Álvaro né da solo, e che spuntava in quel modo da quel posto. È ovvio che neanche lontanamente mi è passato per la testa che potesse succedere qualcosa di terribile. E neanche ora lo suppongo. Álvaro non aveva nemici. Non era una persona che potesse avere nemici e non li aveva. Intimi come eravamo, conoscevo tutta la sua vita e se avesse avuto qualche nemico, lo avrei saputo.
— Se lui lo avesse saputo… Si possono avere nemici, senza saperlo.
— Ma lui non aveva il carattere da crearsi nemici…
— Ma i nemici non dipendono dal carattere, ragazzo mio… Insomma, a lei, al miglior amico di Monteiro, non consta che lui avesse nemici o che avesse motivo per averli – è così?
— Esatto.
— Passiamo ad altro… Quel giorno o durante la vostra ultima conversazione, le ha detto qualcosa o ha assunto un atteggiamento che desse da pensare che lui, seppur vagamente, contemplasse il suicidio?
L’espressione negativa del teste fu quasi violenta.
— Né in quella conversazione né in altre, né mai da quando ci siamo conosciuti e lo conoscevo da quando avevo dieci anni, dalla scuola. Ispettore, quanto ai nemici, sarà come dice lei, ma per il suicidio le garantisco di no. Non aveva questa tendenza e non ne ha mai parlato, se non per un paio di notizie sul giornale o cose del genere, come lei, ispettore Guedes, potrebbe parlarne. E per giunta, se c’è stata una circostanza in cui lui, che era sempre allegro, lo era ancora di più, era quella sera. Non so se lo sa, ma si sarebbe sposato tra sei mesi…
— Ah, sì? Con chi? Conosce la ragazza?
— Sì. È una ragazza molto bella, simpaticissima, brava…
— Guardi, c’è già motivo per eventuali inimicizie. Non sa se lui avesse rivali – non nel senso di individui tra cui la ragazza esitasse…
— Ah, questo no…
— Mi lasci parlare! Non in quel senso, ma pretendenti della ragazza, seppur da lei eliminati (ed è anche peggio), che potessero essere gelosi di lui e tanto più gelosi se da lei erano stati scartati? Conosce bene la ragazza? Conosce la sua famiglia? I conoscenti della famiglia? Sa che persone frequentava, oltre ai suoi conoscenti e a quelli della famiglia? Lei che cosa fa – lavora?
— È cassiera in un negozio di Rua da Prata.
— Nome e numero, li conosce?
— Sì: Pinto & Angeja. Rua da Prata ______.
Guedes prese nota.
— Conosce anche le persone che lavorano lì?
— Senta, ispettore Guedes, io, francamente, conosco solo la ragazza. Sono andato una volta sul suo posto di lavoro (è un negozio di moda o qualcosa del genere) e ci sono andato per portarle una lettera di Álvaro che era a letto con la febbre. Non ho notato le altre persone che stavano nel negozio. Quanto alla sua famiglia, non conosco nessuno, neanche di vista. So che i suoi genitori sono entrambi vivi e che ha due fratelli, uno emigrato politico da anni in Spagna e un altro che sta qui. Ma non li ho mai visti.
— Da Monteiro non ha mai saputo di possibili rivalità?
— Mai, assolutamente mai.
— Era una persona che gliene avrebbe parlato? Sa, c’è gente che, per temperamento, è riservata su certe cose, anche se prive di importanza, con gli amici più intimi?
— Álvaro non mi avrebbe mai nascosto una cosa del genere. Nelle cose più intime si consigliava con me o, anzi, mi veniva a parlare e ne discutevamo.
— Le famiglie, da una parte e dall’altra, erano contente del matrimonio?
Per la prima volta, durante tutta la deposizione, Lopes esitò.
— Dalla parte di lui, la famiglia, si fa per dire, solo la madre è viva… lei era contenta del matrimonio e della ragazza che di tanto in tanto pranzava da loro. Le dispiaceva che la famiglia di lei fosse di liberi pensatori e di repubblicani. Il padre, pare, sia maçon. Ma la zia1 era contenta del matrimonio.
— Quindi l’opposizione era da parte dei liberi pensatori?
Il teste rifletté un po’.
— Opposizione, opposizione… non direi. Più o meno quello che sentiva Dona Adelaide – la madre di Álvaro –, nei confronti della ragazza, ma per il motivo opposto e forse un po’ più accentuato. Ma non c’era una vera e propria opposizione, tanto che la ragazza, che sarà ancora minorenne tra sei mesi (compirà vent’anni), si sposa, ovvio, col consenso dei genitori e si sposa anche religiosamente.
— Beh, se è così, non c’è una vera e propria opposizione da parte dei genitori della ragazza. E da parte dei fratelli? La loro opposizione non può mandare all’aria il matrimonio, ma può essere, nonostante questo e proprio per questo, abbastanza forte. Sa qualcosa dei due fratelli, a parte quanto mi ha detto, che uno è emigrato in Spagna per motivi politici?
— No. So solo questo e che il fratello che sta qui è impiegato in un ufficio della Baixa, non so quale, ed è aiuto contabile e quando non sta in ufficio o mangia a casa, sta alla Brazileira del Rossio a parlare di politica. Non so nient’altro. E questo lo so da Álvaro. A lui non piaceva molto parlare di questo fratello della ragazza perché è da lui che veniva la maggiore opposizione al matrimonio. Mi raccontava Álvaro che quel ragazzo era indignato che sua sorella sposasse un gesuita… «Proprio con un gesuita», era Álvaro a raccontarmelo. Ed era la ragazza a dirglielo. Ah, e so anche un’altra cosa – che quel fratello si chiama Manuel, Manuel Cunha, visto che la ragazza è Alice Cunha.
— Benissimo. Lei ha detto che non conosceva neanche di vista qualcuno della famiglia Cunha, tranne la ragazza. Ma può darsi che una volta Monteiro le abbia fatto, per esempio, una descrizione fisica di questo Manuel…
— No, non me l’ha mai fatta.
— Monteiro come si trovava con questo Manuel Cunha?
— Conosceva tutta la famiglia, a parte il fratello che sta in Spagna. Lui e Manuel Cunha si parlavano, ma se avessero potuto non farlo, avrebbero preferito. Quando Álvaro andava a cena a casa della ragazza, Manuel Cunha faceva di tutto per mangiar fuori. Ma si parlavano, freddamente è vero, ma si parlavano. Mi sembra che Cunha, per affetto verso la sorella, non volesse spingere le cose al punto di offenderlo. Con il padre e la madre di Alice, Álvaro si trovava bene; cioè, con la madre non si è mai trovato male…
— È vero, è quasi superfluo chiederglielo, ma non voglio ometterlo: non potrebbe darsi che fosse sorta qualche complicazione a intralciare il matrimonio o un litigio con la ragazza? — Guedes vide subito la negazione secca spuntare sulla faccia del teste. — Va bene, ho capito, no… Allora, secondo lei, non può assolutamente trattarsi di suicidio; e le sembra anche che non possa trattarsi di omicidio?
— Esatto, signor ispettore.
— Bene, passiamo all’ipotesi dell’incidente. Mi hanno detto che quando siete usciti dalle Juventudes avevate bevuto un po’ troppo. È vero? Non si vergogni a dirlo. A me è capitato spesso.
— Sì, ispettore Guedes, avevamo entrambi bevuto troppo, Álvaro un po’ più di me, ma nessuno dei due era ubriaco. Con la passeggiata fino a casa era passato tutto, a lui come a me. Stavamo entrambi perfettamente bene quando ci siamo salutati sulla porta di casa mia. Avevamo solo un po’ sonno.
— Ottimo. Adesso un’altra cosa: il suo amico aveva l’abitudine, anche di notte, di fare quel giro sul lungofiume? Lo faceva spesso di giorno, ma di notte…
— Ma guardi, ispettore Guedes, è la prima volta che sento parlare di questo giro, vuoi di notte come di giorno. Tanto che mi ha molto confuso la notizia che fosse stato rinvenuto morto lì. Se fosse stato un incidente per strada, avrei capito.
— Allora lei, che stava quasi sempre con lui, non è mai passato da lì e neanche sapeva che alle volte lui ci passava da solo?
— No, signor ispettore, le garantisco che non lo sapevo. Non era un’abitudine tanto importante da dovermela raccontare, se lo era. Oltre tutto, c’è una cosa: la nostra vita era tutta nella Baixa e casa sua è più lontana dalla Baixa che la mia. Cosicché venivamo insieme dalla Baixa, io mi fermavo alla porta di casa e lui proseguiva verso la sua; andavamo alla Baixa insieme, lui passava da me e io andavo con lui. Per questo, nonostante la nostra amicizia, anche se lui veniva tutti i giorni da me, e spesso anche due volte, si possono contare le volte che sono stato io da lui, soprattutto da quando abitava lì, cioè da due anni e mezzo.
— Benissimo, capisco. Mi sembra, almeno per ora, di non aver più bisogno di lei. Lei è stato molto chiaro ed esplicito in quanto ha detto e gliene sono grato. Non c’è nient’altro che le venga in mente e possa fornire una qualche luce – per ora non ce n’è alcuna – sull’argomento?
— No, ispettore Guedes, non ricordo altro. Credo di aver detto tutto, rispondendo alle sue domande…
— Bene. Ho il suo nome e il suo indirizzo. Dove lavora? Lo devo sapere, se c’è un’urgenza…
— Nel laboratorio Mitchell. Sono una specie di aiutante di analisti. È in Rua Ivens, 33, secondo piano. Telefono…
— Non importa, sarà sull’elenco…
— C’è, signore.
— Allora, restiamo così – e non manchi! – si faccia trovare qui alle 5 del pomeriggio in punto. Non chieda di me, ma dell’agente Ramos che è quel signore. — E indicò un uomo tarchiato e biondo che, durante tutta la deposizione, era rimasto a scrivere a un tavolo in un angolo. — Bene, non manchi. Arrivederci.
E Guedes strinse la mano del ragazzo.
Appena uscito, Guedes guardò l’agente, il quale istintivamente alzò gli occhi verso di lui.
— Senti, Ramos, verso le 3 e mezza tu, o chi per te, vai alla ditta Pinto & Angeja, Rua da Prata… e portami qui la signorina Alice Cunha che sta alla cassa. Dille chiaramente che viene a fornire dichiarazioni sulla morte del fidanzato e che la seccheremo il meno possibile. Fai in modo che venga subito: mettila su un taxi e corri qui con lei. Spiegaglielo in negozio affinché non ci siano malintesi. Non la fare parlare al telefono; e per questo, arrangiati come ti pare.
— È chiaro che qualcun altro potrebbe parlare al posto suo al telefono, dopo che sarà uscita.
— Dobbiamo correre questo rischio, se poi lo è. Ma non credo che succeda. Bene: quando la vai a prendere, portala subito qui. Quando alle 5 verrà un’altra volta Lopes, il ragazzo che è stato qui… Portalo nella sala a fianco.

— Esatto… — Guedes si alzò e si stiracchiò. — Senti, Ramos, hai ascoltato la deposizione?
— Sì, scrivevo, ma ascoltavo. Il ragazzo si spiega bene e tutto sembra quadrare.
— Sembra quadrare, sì sembra quadrare. Che te ne pare del caso?
— Il caso, a dire il vero, non si presenta semplice.
— No. La scoperta di quello sconosciuto che esce dal buio per parlare a Monteiro, forse qualche minuto prima della sua morte, non mi piace affatto. Sono molto curioso di conoscere le sembianze del signor Manuel Cunha. Ma prima dobbiamo procedere con un breve interrogatorio alla sorella. Non mi va molto, se è come la descrive Lopes. Ma il caso non permette di perdere tempo.
E all’usciere che era entrato a consegnargli una lettera:
— Senti, Nunes, tu che sei un santo, vammi a comprare due pacchetti delle solite sigarette…
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II – ANALISI DI ABILIO QUARESMA

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— Questi sono i due punti principali, come lei capisce, per la soluzione del caso: lo stato molto, poco o niente alcolico in cui Monteiro è arrivato con Lopes alla porta di casa di questi; l’esistenza di un determinato individuo che si è incontrato con Monteiro a poca distanza dalla casa di Lopes.
Il punto principale di questo problema, l’elemento che crea la complicazione, è la deposizione di quel ragazzo, Lopes. È una deposizione singolare in due punti: cioè inverificabile con una deposizione diversa. I punti dubbiosi, per la loro singolarità, forse sarebbero di scarso valore, se non ci fossero tre passaggi che da soli suscitano la nostra sfiducia sulla veridicità dell’intera testimonianza.
Il primo è che Lopes, amico intimo di Monteiro, ignorasse che questi avesse l’abitudine, come manifestamente aveva, di passare spesso, tornando verso casa, dal molo. Nei due anni che Monteiro ha abitato in quella casa e durante i quali ha visto Lopes tutti i giorni, non c’è stata nemmeno una volta in cui gli abbia parlato della sua predilezione, per lo meno occasionale, per quella strada? Non è credibile; e se non è credibile, l’omissione di Lopes è stata fatta di proposito. Registriamo questo primo fatto.
Il secondo è che Lopes, andando sempre con Monteiro, non conosca neanche di vista Manuel Cunha. Mai, per non so quanti anni, hanno incrociato insieme Manuel Cunha per strada? Mai, insieme, hanno visto una volta Manuel Cunha – a quanto ci viene detto – attraversare la strada, vedendo Monteiro, per non dovergli parlare? E mai, in un caso o nell’altro, Monteiro avrà detto a Lopes – che di sé ha detto di essere «molto fisionomista»: «Guarda, quello è il mio futuro cognato», «Guarda quello è il cognato che non mi può vedere»? Non è credibile, mio caro Guedes; e, se non è credibile, l’omissione di Lopes è stata fatta di proposito. Registriamo questo secondo fatto.
Il terzo è, un’aggiunta per così dire negativa al secondo, la descrizione fatta da Lopes del misterioso estraneo coincide, in linee generali naturali e sufficienti, con la figura di Manuel Cunha che lui, inspiegabilmente, non ha mai visto. Due fatti anomali – omissioni che non si spiegano – e che vengono ingigantite da un fatto naturalmente anomalo – una coincidenza. È troppo, Guedes!
Con queste ragioni diffidiamo della veridicità della deposizione di Lopes e una volta registrate, passiamo a esaminare il fatto alla luce delle altre deposizioni, come se Lopes non esistesse. Che conclusione trarremo naturalmente, in assenza di tale deposizione, da quanto accaduto?
Abbiamo un ragazzo poco abituato a bere e che, quel giorno, o quella notte, ha bevuto troppo. Lopes in persona, confortato da altre testimonianze, dice che Monteiro bevve più di lui, maggiormente abituato all’alcool. È naturale che, giunti alla porta di casa sua, Lopes, stesse bene; ma forse Monteiro no. Ed è proprio qui che c’è una delle dichiarazioni singolari, cioè inverificabili, di Lopes – quella che Monteiro stesse già bene.
Abbiamo un ragazzo abituato a tornare a casa passando dal molo perché, dice la fidanzata, gli piaceva quell’aria fresca. Non era solito andarci di notte, ma quella notte era ubriaco. Ed essendo ubriaco, gli venne naturale, di ritorno a casa, cercare un po’ di fresco – un luogo fresco su quella strada, ossia la strada lungo il molo.
Quanto è accaduto non lo so, ma lo posso presumere. Se aggiungiamo alla sbornia, il lungofiume e la notte assai buia, non è difficile ottenere il prodotto di quanto l’agente 24 del terzo ha raccolto la mattina seguente. Una semplice perdita d’equilibrio o un passo falso? Inciampato in una pietra o in un paletto, con l’incapacità alcolica di reagire rapidamente? Questo non lo possiamo sapere. Ma l’ipotesi, così formulata, si addice alla massima probabilità dei fatti. Si rafforza l’improbabilità, da tutti sottolineata, del suicidio. Si rinforza l’improbabilità manifesta dell’omicidio, tra i fatti in nostro possesso, dato che nessuno appare sufficientemente interessato ad andare a tali estremi con il povero Monteiro, né c’è una ragione sufficiente.
La cosa più probabile è, quindi, che Monteiro sia morto per un incidente, dovuto al suo stato alcolico e all’infelice circostanza che proprio il suo stato alcolico lo abbia indotto a passare in un luogo solitamente pericoloso, soprattutto per chi si trovi in quello stato.
Ora, che cosa inevitabilmente viene fuori dalla deposizione di Lopes, eliminati i punti dubbi? In primo luogo: che gli piaceva molto la futura fidanzata dell’amico (è questo o no che risulta dal modo e dai termini con cui vi si è riferito, come lei mi ha detto?).
Che fosse molto amico di Monteiro, il suo svenimento e il suo abbattimento non permettono di metterlo in dubbio.
Che sapeva che uno degli ostacoli al matrimonio di Monteiro era l’opposizione, frustrata, ma pur sempre tenace e innegabile di Manuel Cunha.
Da qui se ne conclude che, morto l’amico in un incidente, o per qualunque altro motivo, gli restava, senza rompere l’amicizia, la possibilità di sposare la fidanzata dell’amico; e poiché era nelle identiche posizioni religiose, se non peggiori, perché più intensamente devoto, l’opposizione del fratello della ragazza si sarebbe mantenuta se non accresciuta; le circostanze della morte dell’amico gli offrivano un’opportunità, a ben vedere, di risolvere per lo meno parte del problema.
— Ora capisco, dottore!
— È chiaro. Ha passato un intero giorno a letto, tranquillo, per architettare il suo piano. E devo dire che lo ha fatto in modo formidabile. Credo che lei sia stato ingannato, scusi Guedes, l’espressione.
— Non ha di che scusarsi. Mi ha ingannato eccome. Povero diavolo! Non gli porto rancore. Ed era veramente simpatico…
— Simpatico e intelligente. Per essere un ragazzo così giovane, il dominio che ha avuto delle circostanze e il modo in cui le ha impiegate sono degne di un vero stratega.
Che cosa ha fatto? Con abilità, arguzia ha trovato il modo di, appena scorta la possibilità di un delitto, gettarne la responsabilità su Manuel Cunha, eliminando così, con qualche anno di galera o esilio, il principale ostacolo a un eventuale matrimonio, come si era già presentato all’amico morto. E così ha inventato – ne sono certo – che Monteiro non era sbronzo, che nessun testimone terzo avrebbe potuto contraddire, quando lo aveva lasciato alla porta; ha inventato l’esistenza dell’individuo misterioso che ha dipinto con i tratti salienti di Manuel Cunha; ha senz’altro calcolato che essendo Cunha un esaltato e un cospiratore (era difficile che Monteiro, soprattutto nei momenti d’ira, non glielo avesse detto) gli sarebbe stato difficile crearsi un alibi o perché stava cospirando o perché non si ricordava dov’era o perché era in compagnia di persone la cui testimonianza per la polizia poteva non avere gran valore. Ha calcolato tutto e su queste basi ha imbastito la sua storia, avendo cura di insinuare di non conoscere fisicamente Cunha né l’abitudine dell’amico di passare dal molo – stranezze, a pensarci, ma senza rifletterci molto sarebbero perfettamente accettabili, così come lo sono state per lei, nel corso della deposizione.
— Esatto.
— Con lei ha funzionato. Ha ottenuto l’arresto di Cunha. Deve aver provato esaltazione e timore. Esaltato dalla sua manifesta vittoria; timoroso perché era consapevole del peccato commesso. Sono curiose queste nature in cui una grande intensità emotiva si coniuga a una grande arguzia. Sono capaci di delitti straordinari, purché non violenti, e di formidabili pentimenti che possono condurre fino alla violenza contro se stessi. Così è stato, credo io, dalla descrizione fattami da lei di quel povero ragazzo.
Il dottor Quaresma si fermò un attimo.
— A questo punto è intervenuta — continuò con voce mite, — quella cosa incredibile che noi chiamiamo talvolta Provvidenza. E la Provvidenza, nella fattispecie castigatrice, si è manifestata durante la conferenza di padre José Martins, o, anzi, per il fatto che Lopes abbia deciso di recarvisi.
— Questa parte per me, dottore, è buio pesto. Non riesco a immaginare che cosa c’entri la conferenza in tutto ciò.
— È in quello stato d’esaltazione e timore che Lopes è andato a sentire la conferenza di padre Martins. E su che cos’era la conferenza? Sui precetti della cavalleria medievale, sui precetti di lealtà e onore, anche a costo del proprio sacrificio, come precetti uguali nel nobile guerriero e nel cristiano. E lui, calunniatore, spregevole traditore – così era stato e così si sentiva – ha udito, nella voce vibrante di quel prete, che è al contempo santo e soldato, la condanna, come indirettamente pronunciata da Dio (così la deve aver sentita): quella che, ore prima, gli era parsa abilità, ora gli doveva sembrare viltà.
Mi immagino quanto deve essere seguito. È tornato a casa, adducendo dolori di testa – peraltro naturali date le recenti emozioni –, ha passato la notte in bianco. Si è alzato e si è detto che sarebbe andato a confessarsi e così è stato. Ma non è andato a confessarsi nella sua solita chiesa o in un’altra; ma da padre Martins, a casa sua. Questo, ovviamente, sottintende un certo corollario – mi lasci passare la frase; ma mi sembra, per quanto già esposto prima, di dedurre, da parte del ragazzo, qualcosa di simile.
— Assolutamente, dottore. Questo spiega addirittura la sua assenza alla confessione2 e il fatto che non sapessimo dove stava in quel momento. È chiaro che, senza conoscere i suoi argomenti, non mi sarei potuto ricordare di padre Martins.
— Chiaro… Il ragazzo va a casa di padre Martins, si confessa a lui – non so se con i sacramenti o di persona, perché non mi occupo di certe cose, né di come si fanno. E adesso, Guedes, arriva la tragedia. Che cosa pensa, se le cose sono andate così, che padre Martins abbia indicato, o addirittura intimato, di fare a Lopes? Che cosa padre Martins, cristiano e soldato, leale, austero e duro, avrà detto di fare a quel ragazzo e subito?
— Non faccio fatica a indovinare, dottore… Andare alla polizia e confessare che aveva mentito e imbrogliato… Se non questo…
— Proprio così, chiaro… E quale effetto questo consiglio difficilissimo – difficilissimo da eseguire – avrà avuto su uno spirito già per molti versi disorientato?
— Non dica altro, dottore: il suicidio.
— Il suicidio, sì, mio caro Guedes. Il suicidio immediato, impulsivo, non riflettuto, per l’impossibilità umana di una qualunque soluzione a un problema del genere.
Ci fu una breve pausa nella conversazione.
— Trova che il caso sia risolto, Guedes?
— Assolutamente risolto. Limpido come l’acqua.
— Quanto non c’è, è interamente provato, per lei e per me. Questo problema di scacchi, come lei me lo ha offerto, è uno scacco matto in due mosse. Questo è il primo scacco – il più difficile. Il secondo è più facile. Spetta solo a lei e consiste semplicemente in questo: andare a casa di padre Martins e sapere se Lopes è stato da lui giovedì mattina. Basta questo semplice fatto, considerando che Lopes non conosceva padre Martins, per dare alla probabilità del mio argomento immediato rilievo di verità.
Guedes si alzò.
— Vado subito da padre Martins. Prima mi informo dove sta e poi ci vado subito. E vedrò se ottengo una conferma più completa di questa, che già è abbastanza.
— Guedes, lei non supporrà mica di strappare a un uomo del genere un segreto della confessione?
— Forse glielo strappo, dottore, forse sì… Questa è la parte che spetta a me. Lei dottore sa già che ricevendo da lei l’idea generale, l’idea particolare non mi fa difetto… Dottore, mi permetta di andare. Molte e molte grazie. A presto.
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tratto da “I casi del dottor Abílio Quaresma. Romanzi e racconti polizieschi” di Fernando Pessoa (edizioni Cavallo di Ferro)

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:13 da DELITTO (di Fernando Pessoa)


Buona lettura.
Mi preparo per la presentazione di oggi.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 15:18 da Massimo Maugeri


Vado contro corrente, pur amando Maigret di un amore immenso, e salvo la squadra dell’87° distretto del magico Ed McBain; l’umanità, i difetti evidenti quanto i pregi, lo smarrimento di fronte al delitto che non diventa e non diventerà mai quotidianità. Carella, Kling, Hawes, Brown: salvo loro un milione di volte. E la scrittura di un genio assoluto, che fa della città e del suo clima dei protagonisti.

Grazie comunque a tutti da parte di Ricciardi, senza tante mosse come diciamo qui.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 16:07 da Maurizio de Giovanni


Sono un pò d’accordo con Barnie su Sherlock Holmes…ma d’accordissimo anche con Fran per Maigret ( troveremo qualche pagina in francese, Fran? Magari paragoniamo Conan Doyle a Simenon.. che conosco purtroppo pochissimo).
Però per me l’indimenticabile… è sempre il personaggio di Agatha Christie: Hercule Poirot… le belge..
Sì, questi romanzi: che belli.

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 21:15 da roberta


Bella presentazione stasera da Cavallotto, con Mistretta e Guarnieri che ha letto alcuni brani del libro.
Grazie a Massimo perché ci fa conoscere gli scrittori che ci stanno attorno.
Amo Montalbano, ma questo spero non mi impedirà di apprezzare Bonanno.
Sono d’accordo con chi ha parlato di fidelizzazione e di voyerismo, a proposito dei personaggi seriali (credo siano gli stessi meccanismi che sostengono la cieca fedeltà alle soap): vuoi sapere, vuoi particolari, ritrovi degli amici e sei ingordo, devi possedere le loro finte vite, e se il personaggio ti appassiona, devi berne a larghi sorsi.
Seguo Kay Scarpetta da quando l’ho scoperta, ma il personaggio più importante della mia infanzia-adolescenza è stato Arsène Lupin, creatura di Maurice Leblanc, frequentata anche da adulta per rivivere “quelle” emozioni (peccato il passato non torni)…
Bonanno sto arrivando!

Postato venerdì, 12 giugno 2009 alle 23:11 da gabriella rossitto


Eccomi per un rapido passaggio, cari amici

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 00:58 da Massimo Maugeri


@ Gabriella
Gabry, grazie per essere passata. Sono certo che il commissario Bonanno non ti deluderà. E grazie per le belle parole.
È stato un bel pomeriggio… un bel rimbalzo di voci tra me, Enrico Guarneri e Roberto Mistretta.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 01:02 da Massimo Maugeri


Una cosa che mi ha rivelato Roberto Mistretta dopo la presentazione… a proposito di personaggi seriali: il suo preferito è… Don Camillo.
In effetti non lo ha mai citato nessuno, in questo post.
Un altro personaggio seriale al di fuori dei giallo/noir.
Vi piace Don Camillo?

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 01:04 da Massimo Maugeri


Un saluto a Maurizio de Giovanni e a Roberta.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 01:05 da Massimo Maugeri


Ragazzi… mi è venuta un’idea! (sono un produttore di idee seriali, lo so)
Ma per il momento non ve la rivelo:-)
In compenso, vi auguro buonanotte e buon fine settimana.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 01:07 da Massimo Maugeri


….potresti essere anche un serial killer di idee Massimo…. =:-))))))))))
buon w.e. a tutti

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 11:16 da francesca giulia


Con Massimo Maugeri a fine presentazione, ci siamo trattenuti a parlare. E tra le tante cose dette, abbiamo ripreso il tema di questo blog, i personaggi seriali. In piena sintonia con la mia insanabile instabilità mentale (come è stato evidenziato durante la presentazione a Catania), ho detto a Massimo che piuttosto che questo o quel personaggio seriale di gialli e noir (sono troppi e ne ammiro molti per citarli tutti), la mia predilizione si sposta su Parker Pyne, Don Camillo e Peppone.
Il primo è nato dalla penna di Agatha Christie e curava…l’infelicità. Infatti i clienti si rivolgevano a lui dopo avere letto sul giornale l’annuncio: “Siete felici? Se la risposta è no, consultate Mr. Parker Pyne, Richmont street, 17″.
Un investigatore dell’anima. Geniale.
Ma se dovessi scegliere, non avrei dubbi: il prevosto tutto d’un pezzo e il bolscevico baffuto nato dalla penna di Giovannino Guareschi, stanno al primo posto e non solo perché italiani, ma in quanto genuine rappresentazioni dell’Italia di provincia, la stessa dove sono nato e dove per mia scelta sono ritornato a vivere.
Cambiando la latitudini le provincie in fondo si somigliano tutte.
E Guareschi è un maestro insuperabile.
Con l’occasione ringrazio i presenti alla presentazione di ieri pomeriggio. In particolare la prof Giuseppina La Ciura e ovviamente i miei presentatori, l’insigne Maugeri e l’istrionico Enrico Guarnieri, entrambi bravissime e bellissime persone.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 14:52 da Roberto Mistretta


yeeeeeeeeessss, Don Camillo is the best.
Bravo Roberto Mistretta. Amo Don Camillo, di conseguenza non posso non leggere un’autore amante del celebre personaggio di Guareschi. Bonanno, aspetta a me!

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 16:12 da Marzia


Adoro Agatha Christie e Conan Doyle fin da ragazzina: Poirot, nevrotico dalle cellule grigie iperattive, Miss Marple vecchina dall’intuito fine coltivato tra rose, marmellate e pettegolezzi, Sherlock Holmes e Watson – ad ogni racconto concluso ne volevo ancora! – …
Avete visto il film “Piramide di paura”? Delizioso…
E le sorelle March di “Piccole donne”, “Piccole donne crescono”, “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo”?
Oggi amo Camilleri e il suo mondo – perché personaggio seriale vuol dire mondo, atmosfera, comprimari, storie personali che si intrecciano ai casi della “puntata” – …

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 17:51 da Maria Lucia Riccioli


Don Camillo e Peppone… sì!!!
Quell’Italia magari rissosa ma di sicuro più semplice e vera, degli ideali in cui credere, l’alluvione del Po e la guerra che uniscono e affratellano… una serie spassosa e commovente, che mi mette in cuore tanta nostalgia. Oggi abbiamo quasi paura dei buoni sentimenti e cinicamente li definiamo buonismo…
Fernandel e Gino Cervi, due veri attori, non pupi finti senz’anima come quelli che caracollano caneggiando – perdono ai cani! – nelle nostre sminghiatissime fiction.
W DON CAMILLO E PEPPONE!

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 18:00 da Maria Lucia Riccioli


Non mi fanno impazzire i personaggi seriali, anche se ammetto che un Maigret e un Poirot possono avere un loro fascino. Il mio “personaggio seriale” preferito è il K. di Kafka.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 18:57 da Barbara X


@Maria Lucia. “Sminghiatissime” Eeeeeeeeehhhhhhhh!!! Ma che persone frequenti ultimamente?

@Barbara x Hai nominato il dio della letteratura. Condivido.

In effetti non se ne può più di questo maresciallo Bonanno. Ne ha già parlato Le Monde, il Times, la gazzetta di Singapore, la foglia stampata del Burundi. Lo trovi dappertutto: attaccato nei muri, mimetizzato tra i manifesti elettorali, nei fazzolettini di carta. La Sicilia sembra in stato di assedio. Arrestate Mistretta, per favore.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 20:11 da Salvo zappulla


Salvo, però forse sono un po’ uscita dal seminato, perché il K. del grande Franz, più che un personaggio seriale, è un’iniziale seriale: Karl Rossmann, K., l’agrimensore K. … Ma naturalmente non è detto: dietro questi personaggi dall’iniziale comune, c’è un solo burattinaio che, guarda caso, ha il nome che comincia per K. … MinKia, Ke fascino…

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 20:40 da Barbara X


@Dietro ogni personaggio kafkiano c’è sempre lui, il Maestro; lui con le sue angoscie, con il suo perenne fantasma che gli alita sul collo, le pastoie burocratiche, il malessere strisciante, gli incubi devastanti. Kafka è autore e personaggio allo stesso tempo. Sì, lo possiamo includere tra i personaggi seriali. Minkia ke Karisma.

Visto che condividiamo la stessa passione letteraria, ti dò una notizia in anteprima: a ottobre uscirà per Del Vecchio un mio romanzo dal titolo: “Il processo.
sottotitolo: (Kafka non me ne voglia)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:15 da Salvo zappulla


Seriali, si….. ma mai troppo seri. :-D

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:30 da Matteo


@Maria Lucia
Gino Cervi non vva anche interpretato Maigret nella version di film per la televisione?
@Massimo
Ciao, dear Massimo:)
@Salvo
Non sarbbe una cattiva idea se tu scrivessi una serie di racconti che vedono protagonista un certo “massaro”… ( potrebbero non essere dei “gialli”, ma “funzionerebbero”).
Che ne dici?
:) :)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:36 da roberta


@ Francesca Giulia
Un serial killer di idee? Ma in che senso? Nel senso che ammazzo le idee, o istigo al suicidio a chi le propongo?:-)))

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:36 da Massimo Maugeri


Scusate: volevo scrivere “aveva interpretato”

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:37 da roberta


Ciao Roberta.:-)
In effetti, caro Matteo, seriali sì… ma mai troppo seri.:-))

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:38 da Massimo Maugeri


@Massimo
Credo che Fran volesse dire… che puoi “eliminare” in questo spazio le idee che non ti piacciono…. ( dico bene, Fran?)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:39 da roberta


A proposito di “interpretazioni seriali”… sarebbe bello poterne riprodurre qualcuna.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:39 da Massimo Maugeri


…in questo senso saresti un perfetto “serial killer” di idee…..
( ma non lo sei, per fortuna:)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:40 da roberta


@ Roberto Mistretta
In effetti dopo la presentazione ci siamo fatti una piacevolissima chiacchierata.
Anche prima, in verità… con tanto di granite al bar di fronte.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:41 da Massimo Maugeri


Mamma mia, Robi… in quel caso sarei un serial killer cattivissimo:-))

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:42 da Massimo Maugeri


Ne approfitto per salutare Marzia e ri-salutare Maria Lucia e Salvo (a cui va un bocca al lupo seriale per il suo esordio con Del Vecchio: un piccolo editore davvero ottimo, che ho avuto il piacere di conoscere).

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:44 da Massimo Maugeri


@Roby. Perchè no? Si potrebbe fare.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:46 da Salvo zappulla


@ Barbara
In effetti Kafka (che adoro alla follia) è “seriale” quantomeno per le atmosfere che è riuscito a creare.
Talmente potente da esser riuscito a entrare nel vocabolario, come aggettivo…
-
kafkiano
agg.
1 Che concerne lo scrittore cecoslovacco F. Kafka (1883-1924).
2 (est., fig.) Allucinante, angoscioso, assurdo.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:47 da Massimo Maugeri


(Off topic)
a partire da giorno 15 – e per un paio di giorni – tutti i blog del Gruppo Kataweb saranno oscurati per lavori di aggiornamento della piattaforma web (wordpress). Dunque pubblicherò il nuovo post solo dopo che i suddetti lavori volgeranno al termine.
Vi conviene sfogarvi con questo post… finché potete! :)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 21:57 da Massimo Maugeri


Il vostro killer delle idee in camicia celeste ha colpito ancora…
Ho aggiornato il post con alcuni video relativi a personaggi seriali che dai libri sono finiti sullo schermo.
Andate a dare un’occhiata su…

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 22:28 da Massimo Maugeri


Il primo video coincide con l’ultimissa versione di Sherlock Holmes. Ovvero, il trailer (sottotitolato) dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie interpretato da Robert Downey Jr. e Jude Law: il film arriverà nelle sale di tutto il mondo a Natale 2009.

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 22:29 da Massimo Maugeri


E poi ci sono altri vostri personaggi seriali in video.
Infine… due chicche…
;)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 22:30 da Massimo Maugeri


Una serena notte a tutti.:-))

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 22:31 da Massimo Maugeri


Citavo Camilleri, non volevo istigare al turpiloquio!
:-)
Sì, Roberta… io adoro Gino Cervi perché era un attore teatrale bravissimo, unico. E poi guarda “Quattro passi tra le nuvole”… (ne venne fatto un remake, “Il profumo del mosto selvatico” con Keanu Reeves però senza la poesia dell’originale).
Il Maigret di Cervi è storia insieme a quello di Jean Gabin.
Come Poirot mi piace l’ultimo, di un attore inglese eccezionale. Semplicemente perfetto.
Holmes. Uhm. Ce ne sono diversi bravissimi. Devono rendere il rigore logico e un fascino allampanato…

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 23:39 da Maria Lucia Riccioli


Mr Hope, I suppose…
Francesco, un superbacio a te!
:-)

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 23:54 da Maria Lucia Riccioli


OT ma non troppo: giorno 25 da Cavallotto io e Anna Pavone insieme a Luigi La Rosa presentiamo “Catania – Geografie del mistero”, la raccolta di racconti gialli e noir degli allievi catanesi di Luigi… ore 17. Vi aspetto!

Postato sabato, 13 giugno 2009 alle 23:59 da Maria Lucia Riccioli


Maigret non è un clone di Holmes… è francesissimo, umanissimo. Certe descrizioni, certi dialoghi sono magistrali. Rileggetelo e scoprirete che la trama gialla – come avviene spesso in questo “genere” – è il colpo di dadi chedà vita ad una discesa negli inferi del quotidiano, delle storture della mente umana, delle deviazioni. Viste da Maigret con pietas.
La dolce attrice Pagnani era la signora Maigret di Cervi…

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:06 da Maria Lucia Riccioli


Fantastico Massimo Maugeri!!Bellissimi video,nel primo una coppia muy intrigante ,ma l’ultimo dell’intervista al mio mito è da brividi di commozione,sapevo del suicidio della figlia,ma non del libro.
Grazie.
p.s.sì naturalmente scherzavo,nel senso che hai potere di depennare le idee e i personaggi sul blog.
Ma lo sanno tutti che sei buoooniisssimooo.
tic tac tic tac si avvicina l’ora x dei lavori di aggiornamento piattaforma,si prevedono molti malesseri e ricoveri da crisi di astinenza su tutto il territorio nazionale…

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:10 da francesca giulia


@marialucia sono perfettamente d’accordo con te,Maigret è originale francesissimo e l’ambientazione di Simenon può essere solo sua,lo spirito di Maigret aleggia anche nei romanzi dove lui non c’è.Per me è un maestro sublime e con poche parole,aveva un vocabolario ristrettissimo,di uso comune.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:13 da francesca giulia


A Francesco auguro il successo che merita… ammiro la sua abilità nello scrivere storie per bambini e gialli, romanzi come “Presto ti sveglierai” e pagine sorridenti ma con un fondo dolente e intenso.
Aspettiamo le tue storie!
:-)
Maurizio: esiste una scuola napoletana?
Roberto Mistretta: e una siciliana?
Credo che apparteniate ad una grande famiglia mediterranea, in cui il mistero si lega alla storia e all’humus particolare delle nostre terre. Che ne dite?

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:16 da Maria Lucia Riccioli


Miss Marple interpretata dalla Rutherford… eccezionale.
Montalbano/Zingaretti: potenza del video. Il vero commissario non somiglia all’intrigantissimo Luca (conosciuto di persona. Wow! :-) ) ma ha condizionato Camilleri, che peraltro è stato insegnante di Luca a Roma alla Silvio d’Amico. Potenza dei legami letterari!

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:24 da Maria Lucia Riccioli


@Massimo
my favourite character…on video: Sherlock Holmes ( meglio l”antico”, ma anche l’ultima versione non è male..+ Hercule Poirot ( ma non con questo attore: io “mi sveno” per Peter Ustinov…)

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:30 da roberta


Se posso permettermi, metto il link con Peter in “Death on the Nile”.. in questo film c’è anche Maggie Smith, un’attrice strepitosa e altri grandi attori ( ho visto questo film moltissime volte…)
http://www.youtube.com/watch?v=R9A9-h3JzwI

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:38 da roberta


N.B. In questo film ci sono anche : Bette Davis, David Niven e Mia Farrow.. è un film incredibile.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:47 da roberta


Roby sì ustinov è stato il migliore Poirot e Death on the Nile un vero capolavoro,fra gli altri già citati da te i grandi David Niven e Bette Davis!Insomma tanti attori grandi insieme,Mia Farrow e Angela Lansbury-la crittrice alcolizzata-,uno meglio dell’altro.Era fantistico quando li riuniva tutti insieme nella stanza per svelare l’assassino.
Però il perchè Simenon sia un passo più avanti è che le sue indagini non si fermano al chi è stato,ma indagano il disagio psicologico dell’assassino,le sollecitazioni dell’ambiente e le interazioni fra i personaggi,insomma secondo me è più avanti come costruzione del personaggio e dell’atmosfera attorno,ma de gustibus non disputandum est.
buona notte a tutti

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:52 da francesca giulia


p.s.scusa avevi già messo tu gli altri interpreti mentre scrivevo il mio commento,sintonia perfetta :-) ))

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 00:54 da francesca giulia


Grandissimi video.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 01:48 da Matteo


Maria Luisa Riccioli chiede se esiste una scuola siciliana.
La risposta è indubbiamente sì.
Posto l’articolo pubblicato sul bimestrale Illustrazione siracusana.
Buona domenica a tutti.

Nella tradizione delle arti letterarie, è stato scritto che la Sicilia per qualità di produzione dei suoi autori, rappresenta in Italia ciò che la letteratura russa esprime a livello mondiale.
Su tale solco si incuneano anche le nobili origini del giallo in Sicilia e, senza citare Sciascia che fa caso a sé, basti ricordare che l’isola ha dato i natali a maestri del genere, come Ezio D’Errico (Agrigento 1892), definito il Simenon italiano, col suo commissario Emilio Richard, capo della Seconda Brigata Mobile della Surêté di Parigi; a Franco Enna, pseudonimo di Franco Cannarozzo, che inventò negli anni Cinquanta il commissario Federico Sartori, siciliano nostalgico, e, per restare in tempi più recenti, ad Enzo Russo, nativo di Mazzarino (vive a Monza), che negli anni Settanta pubblicò Il caso Montecristo, un giallo di costume che lo fece conoscere in Italia ed all’estero e, sulla scia di quel successo letterario, seguirono La tana degli ermellini e I martedì del diavolo.
Per decenni ritenuto genere negletto e confinato ai margini della Letteratura (con le Elle maiuscola), oggi il giallo vi entra a pieno titolo e negli ultimi anni la nostra isola ha prodotto un cospicuo numero di opere e nuovi autori tant’è che in Italia si parla apertamente di scuola siciliana. Il giallo dunque per raccontare e raccontarsi, come già fece Giorgio Scerbanenco, inventando il noir milanese negli anni Sessanta.
Ma può un genere raccontare un’epoca? Una terra? Un popolo? O è tuttora valido l’anatema che cinquant’anni fa lanciò Durrematt con il suo “La promessa-requiem per un giallo”? Oppure aveva ragione Italo Calvino che aveva sostenuto l’impossibilità di ambientare un giallo in Sicilia? Più di recente anche Vincenzo Consolo ha rinfocolato la polemica bollando il giallo come un sottogenere, ma il gradimento di lettori e critici di tutto il mondo per Montalbano sono, non credo lasci spazi a dubbi, con buona pace di Durrematt e Calvino (a cui per altro aveva già risposto Sciascia con Il giorno della civetta) e anche del buon Consolo.
Un rapido excursus giocoforza incompleto ed appena accennato sui tanti autori di casa nostra, rafforza il nostro convincimento: la Sicilia, coi suoi profumi e i suoi colori, con la sua gente e la variegata cultura che la permea, è terra di vocazione per i giallisti, che sono bene accolti dalla critica, amati dai lettori e tradotti con successo all’estero.
Palermo vanta in assoluto il primato. Onore alle donne con Valentina Gebbia autrice dei gialli umoristici con protagonista la Famiglia Mangiaracina: A qualcuno piace il Caldo, Estate di San Martino, Per un crine di cavallo, Borgo Vecchio. Santo Piazzese non ha bisogno di presentazioni essendo uno degli autori di maggiore successo coi suoi gialli mitteleuropei con protagonisti: il biologo Lorenzo La Marca e il commissario Vittorio Spotorno. Proseguiamo con Gery Palazzotto, autore di due romanzi con protagonista il commissario Porzio: “Di nome faceva Michele” e “Giù dalla rupe”. Ed ancora: “Yesterday”, romanzo d’esordio di Gian Mauro Costa, “Volto di pietra”, scritto a sei mani con lo pseudonimo Sal Cappalonga, e La stanza dei lumini rossi di Domenico Conoscenti. Vanno forte i romanzi del commissario scrittore Piergiorgio Di Cara con protagonista Salvo Riccobono e i romanzi di Giacomo Cacciatore e Roberto Alajmo, autori che definire giallisti sarebbe riduttivo. Senza dimenticare Davide Camarrone con Lorenza e il commissario e I diavoli di Melusa e Salvo Toscano con L’enigma Barabba e Ultimo appello.
La Sicilia orientale risponde col catanese Ottavio Cappellani salito nell’olimpo dei giallisti al suo esordio con “Chi è Lou Sciortino?” e il recentissimo “Chi ha incastrato Lou Sciortino?”, con Domenico Cacopardo, nativo di Letoianni che ha ambientato alcuni suoi romanzi in provincia di Messina, con Silvana La Spina eclettica autrice etnea di “Morte a Palermo”, “L’ultimo treno da Catania”, Uno sbirro femmina e il recente La bambina pericolosa. Ed ancora Massimo Maugeri con Identità distorte, thriller psicologico a sfondo sociale ambientato a Catania e già al vaglio di agenti letterari per essere tradotto all’estero e ripubblicato in Italia. Ed ancora: Barbara Becheroni (milanese innamorata della Sicilia, vive a Siracusa), autrice dei recentissimi Ammazzarono alla strega del fiume e Pandemia, e che ci aveva già ben impressionato al suo esordio con Nel dolore- la sala parto è pronta signor commissario.
L’elenco, sicuramente manchevole già oggi, è destinato a crescere nei prossimi mesi ma non possiamo non citare le incursioni nel giallo di Gaetano Savatteri di Racalmuto che coi romanzi sui generis quali La congiura dei loquaci, La ferita di Vishinskij, Gli uomini che non si voltano rinnova la tradizione del grande maestro di Regalpetra, suo compaesano.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 09:32 da Roberto Mistretta


Mi permetto di aggiungere, caro Mistretta, che la Sicilia è madre feconda da molto tempo di scrittori e poeti di valore, tanto che più che a una scuola penso a un’ indole naturale. Verga, Pirandello, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Bonaviri, Brancati, Camilleri, Consolo fra i narratori sono senza dubbio i più noti e mi scuso se ne ho dimenticato qualcuno. Anche in poesia Cannizzaro, Camilleri (Salvatore), Rapisardi (Francesco e Mario), Piccolo e Quasimodo sono autori di chiara fama.
E noto che anche fra i giovani le cose vanno piuttosto bene, insomma la Sicilia è terra fertile non solo per gli agrumi, ma pure per gli scrittori.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 10:15 da Renzo Montagnoli


Caro Montagnoli, condivido appieno, da qui l’assunto: nella tradizione delle arti letterarie, è stato scritto che la Sicilia per qualità di produzione dei suoi autori, rappresenta in Italia ciò che la letteratura russa esprime a livello mondiale.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 10:54 da Roberto Mistretta


Caro Salvo, complimenti per la tua recensione. Confesso che non conosco i romanzi di Roberto Mistretta, ma dopo aver letto quello che hai scritto tu corro a comprare il libro.
Un caro saluto Maria Rita Pennisi
Domenica 14 giugno 2009

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 11:02 da maria rita pennisi


Caro Francesco Costa,
sono felice di rincontranti almeno sul blog. Penso che ci rivedremo presto. Complimenti sempre per tutto.
Ti abbracciamo forte Maria Rita Pennisi e Orazio Caruso

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 11:09 da maria rita pennisi


Caro Massimo,
mi scuso ancora per non essere stata presente da Cavallotto per la presentazione del libro, ma te ne ho già spiegato il motivo. Ti ringrazio sempre perché hai creato Letteratitudine, dando a tutti noi la possibilità di incontrarci, almeno sul blog e di confrontarci su argomenti diversi.
Un caro saluto Maria Rita Pennisi

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 11:14 da maria rita pennisi


Carissime Simona e Maria Lucia,
vi abbraccio con affetto. Io amo i personaggi serial, perché mi diventano familiari e mi sento confortata e felice quando li incontro. Essendo un’estimatrice della cultura anglosassone, nel campo del giallo la mia autrice preferita è la Christie e quindi E. Poirot. Non provo la stessa simpatia per Miss Marple, che mi sa di vecchia impicciona. Trovo invece la sicurezza di Poirot, nelle proprie capacità, descritta con estrema ironia. Inoltre la grande teatralità delle storie, mentalmente mi riconduce ad alcuni personaggi di tipo shakespeariano e ciò mi intriga ancora di più.
Baci, baci Maria Rita Pennisi

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 11:32 da maria rita pennisi


Certo, il personaggio seriale è un ingombro, a volte vorresti liberartene, altre volte i lettori ti assimilano a lui/lei e tu soffri perchè sai che ti impegni al massimo perchè ciò non succeda. Seriale non è sinonimo di integrale, sempre identico a sé, immutabile. Seriale è anche altro. Crescita, sviluppo, scoperta. Seriale è ossessione, e ne parla una che non ha mai scritto nulla (o quasi) se non attraverso gli occhi del suo personaggio. E’ necessità e volontà di raccontare un mondo. Di approfondire. Di concedere spazio, di raccogliere. I personaggi non sono burattini, sono creature. Meritano rispetto e tempo. Hanno una loro epica, come ogni uomo e donna nella vita vera. Ci vuole pazienza. E come ogni essere vivente devono avere il loro corso. Uno spaccato è poco, forse una vita di scrittura troppo. Ma un percorso è ragionevole. E questo vale per il genere come per il resto. Per tutti i generi insomma. Quanti personaggi ci hanno abbandonato dopo un libro? Di quanti personaggi gli scrittori si sono liberati troppo in fretta? Che spreco, mi viene da dire…
buona giornata, un saluto a massimo e uno a Mistretta :o )
Liz

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 11:41 da elisabetta


@Grazie, Maria Rita. Anche gli articoli che scrivi tu sono ottimi. Spero di incontrarti ancora.

@Mistretta. Mi devi una percentuale sui tuoi diritti d’autore.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 12:03 da Salvo zappulla


Al buon Salvo Zappulla devo molto di più: non ci ci sono diritti che tengano a confronto della sua amicizia, per non dire della sua penna magnifica.
Ci conosciamo dai tempi della mitica casa editrice Terzo Millennio e da allora la nostra amicizia s’è consolidata nel nome della letteratura. Ci sentiamo spesso ma ci vediamo una volta l’anno al Salone del libro di Torino ed è sempre una gran festa.
Ai tanti che grazie a questo blog hanno mostrato interesse per il mio libro, chiedo di farmi conoscere le loro impressioni (sulla copertina è riportato l’indirizzo del mio sito).
Il mio motto dai tempi di Terzo MIllennio rimane sempre lo stesso: se un libro ti piace consiglialo agli amici, se non ti piace i consigli dalli all’autore.
Buon appetito: abbiamo due compleanni da festeggiare e andiamo fuori.
A stasera

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 12:20 da Roberto Mistretta


@ massimone maugeri
riesci sempre a sorprendere. non sapevo di questa nuova versione cinematografica di holmes in uscita a dicembre. il trailer è bellissimo

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 14:00 da letizia di giacomo


ancora complimenti a mistretta ed al suo bonanno

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 14:03 da letizia di giacomo


@ massimo
e il LBA? che fine ha fatto?

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 14:03 da letizia di giacomo


Be’, e che dire dei poemi cavallereschi della Chanson de Roland di Turoldo? Ci sono personaggi leggendari e seriali, che, per mano di diversi poeti e autori, compaiono in diverse opere: penso al Morgante del Pulci, all’Orlando Innamorato del Boiardo e naturalmente all’Orlando Furioso di sua maestà messer Ludovico Ariosto. Orlando, che fra l’altro viene anche ripreso nel secolo scorso da Calvino nel racconto Orlando pazzo per amore. Mi sembra proprio che anche Orlando possa essere inserito nel novero dei personaggi seriali: un personaggio seriale che (assieme ad altri di quel ciclo) ha attraversato i secoli.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 15:13 da Barbara X


@Mistretta: Sì, ho letto il suo giusto assunto, ma mi sono permesso di rafforzarlo perchè per esperienza pubblico autori siciliani di indubbia valenza, nomi che non hanno mai fatto uscire in volumi i loro lavori, pur in presenza di una indiscussa qualità.
Dei presenti ho già letto Massimo Maugeri e Salvo Zappulla; conto, prina o poi, di dedicarmi anche a Mistretta.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 21:15 da Renzo Montagnoli


@ Roberto Mistretta
Grazie per aver inserito il bell’articolo che hai pubblicato sul nuovo numero di Illustrazione siracusana, rivista di altissima qualità (sia per grafica, che per contenuti)… destinata a crescere.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 23:33 da Massimo Maugeri


Saluti e ringraziamenti per tutti i nuovi intervenuti: Maria Rita, Maria Lucia, Letizia, ecc.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 23:34 da Massimo Maugeri


Alle 11:41 am (del 14 giugno) è intervenuta Elisabetta Bucciarelli (ciao, Liz)… che tutti voi conoscete come madre letteraria di un ulteriore personaggio letterario (come del resto ho scritto nei commenti precedenti): il commissario (donna) Maria Dolore Vergani.
Di seguito il link del nuovo libro della serie:
http://www.ibs.it/code/9788874966882/bucciarelli-elisabetta/perdono.html
… ma avremo modo di parlarne in maniera più approfondita.

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 23:38 da Massimo Maugeri


@ Renzo
Grazie per la tua filosicilianità:-))

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 23:38 da Massimo Maugeri


Buonanotte e buon inizio settimana a tutti!
(Da domani dovrebbero “oscurare” – per un paio di giorni – tutti i blog kataweb per lavori di aggiornamento della piattaforma web… a presto!)

Postato domenica, 14 giugno 2009 alle 23:42 da Massimo Maugeri


non vorrei sbagliare, ma: funzionaaaaaaaa!!!

Postato martedì, 16 giugno 2009 alle 15:43 da letizia di giacomo


é tornatoooooooooo!W l’omino celeste di nuovo qui .

Postato martedì, 16 giugno 2009 alle 16:49 da francesca giulia


@Massimo: semplice constatazione e del resto fra i miei autori preferiti i siciliani sono in maggioranza.

Postato martedì, 16 giugno 2009 alle 20:51 da Renzo Montagnoli


Rieccoci di nuovo.
Sì, Letizia… funziona (ma con qualche problemino tecnico che spero si possa risolvere quanto prima).
-
@ Francesca Giulia
L’omino celeste torna sempre… come l’erbaccia:-))

Postato martedì, 16 giugno 2009 alle 21:15 da Massimo Maugeri


Grazie ancora, Renzo.
Non ti rimane che trasferirti qui da noi :)

Postato martedì, 16 giugno 2009 alle 21:16 da Massimo Maugeri



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