giovedì, 4 giugno 2009
METTERE IN PIEGA UNA STORIA. “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara
Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
L’incipit di questo post coincide con una domanda (ovviamente vi invito a rispondere). Lo spunto per la discussione ce lo offre la nuova opera narrativa di Elvira Seminara: “I racconti del parrucchiere” (Gaffi, 2009). [Peraltro siete tutti invitati alla libreria Giunti, di Piazza Duomo, a Catania (giorno 5, intorno alle h. 18,30) dove la stessa Elvira, insieme al sottoscritto e a Luigi La Rosa offrirà una sorta di workshop sul racconto presentando - contestualmente -"I racconti del parrucchiere"].
In questi racconti l’autrice dimostra di essere eclettica: la scrittura e lo stile si trasmutano da racconto in racconto – da voce in voce – mantenendo una qualità narrativa molto elevata e mettendo in scena un campionario umano completo, complesso e perfetto nella sua differenziazione.
C’è una sciampista dotata di poteri arcani di cui non era consapevole e che le consentono di carpire i pensieri delle clienti ogni volta che, per fare lo shampoo, tocca con le sue dita l’altrui cuoio capelluto. C’è un’extra comunitaria che decide di farsi bionda e che immola la lunga e nera treccia – curata per anni sotto il burqa – sull’altare dell’integrazione in un mondo che è diversissimo da quello d’origine (il taglio della treccia può essere visto come metafora della recisione delle proprie radici). C’è un poeta transessuale che decide di tagliarsi i capelli e di cambiarne la tinta: (E poi perché ci chiamano trans? Vuol dire attraverso, l’ho cercato sul dizionario. Attraverso cosa, la materia e lo spirito, gli ormoni e il silicone? E allora perché non chiamarci mutanti, sconfinanti, o che ne so. Vivere sul bordo, sulla linea, sul margine, vivere in punta di piedi facendo un fracasso del diavolo. In modo furtivo e smaccato). C’è il marito che si apposta poco fuori la bottega del parrucchiere per fare una sorpresa alla moglie. C’è la figlia di un detenuto che scrive la propria storia per inviarla a una rivista (qui lo stile e la scrittura della Seminara si trasfigurano per uniformarsi a quello del personaggio a cui si presta la voce… in questo caso la penna, caratterizzata dalla punteggiatura un po’ bizzarra). C’è una donna che una mattina si risveglia con gli occhi di colore viola e che vive, con leggerezza, una sorta di provvisorio risveglio kafkiano (la donna asseconderà il cambiamento tagliando i capelli cortissimi e tingendoli di rosso; ma la mattina dopo gli occhi torneranno a essere castani). C’è una giovane suora, dalla fervida immaginazione, che – prima di entrare in convento – decide di passare dal parrucchiere: (Ho capelli castani lunghi, né belli né brutti. Ma per ficcarli tutti sotto il velo, e tenere la testa pulita senza perdere tempo e fantasia, devo per forza tagliarli).
C’è il racconto struggente di un padre separato che, in compagnia del figlio (che non riesce più a vedere ogni giorno come vorrebbe), attende in macchina l’ex moglie che sta per uscire dalla bottega del parrucchiere.
E c’è altro. Molto altro. Perché i capelli hanno anche un forte valore simbolico e, in fondo, esprimono noi stessi. La nostra personalità, la nostra cultura, le nostre origini. E attorno ai capelli e al parrucchiere si accavallano e si alternano storie, caratteri, esistenze, destini. Voci che si mischiano e confluiscono fino a formare un unico particolarissimo coro.
Di seguito potrete leggere la recensione di Sabina Corsaro, direttore editoriale del magazine Lo Schiaffo (chiedo a Sabina collaborazione per animare e moderare il post relativamente ai racconti di Elvira).
Invito Luigi La Rosa ad aiutarmi per portare avanti la discussione sui racconti in generale.
Naturalmente interverrà anche l’autrice della raccolta.
In coda al post potrete leggere una storia tratta da “I racconti del parrucchiere”. L’ho scelta perché è una delle più dolenti… e anche perché proverò a “interpretarla” alla libreria Giunti (Piazza Duomo, Catania) giorno 5. Vi aspettiamo!
Dunque: discuteremo sia di questi racconti della Seminara che dell’arte del racconto in generale.
Vi ri-formulo la domanda: Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
E aggiungo questa (in tema): che rapporto avete con i vostri capelli?
A voi!
Massimo Maugeri
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I racconti del parrucchiere di Elvira Seminara (Gaffi)
recensione di Sabina Corsaro
Cosa mai avranno in comune un libro di racconti sui capelli e la pittura di Edward Hopper? Al primo impatto nulla. Eppure dei riferimenti esistono.
Elvira Seminara (che aveva già catturato lo scorso anno l’attenzione del lettore e della critica con L’indecenza, edito dalla Mondadori), ci propone una serie di racconti accomunati dall’unica tematica rappresentata dai capelli. I protagonisti di questi racconti sono legati da questo destino comune: il loro rapporto inevitabile con i loro capelli.
Ma perché Hopper?
Nei dipinti del pittore le figure umane sembrano più essere delle comparse, mentre i protagonisti reali sono gli spazi all’interno dei quali essi si muovono. Gli edifici lungo la strada, la ferrovia nelle zone di periferia, le stanze degli uffici in Hopper sono i soggetti concreti e voluti e le figure umane vi si trovano inserite quasi casualmente.
La prospettiva è il risultato di uno sguardo che si alterna tra spazi chiusi e aperti; tra interni ed esterni. Ma sono le finestre e le vetrate a rendere accessibile lo sguardo del pittore; uno sguardo estraneo, distaccato, da voyeur: spazi non resi nella loro interezza, ma mediante tagli, tesi a cogliere la gente comune nello svolgimento dei suoi atti quotidiani.
Allo stesso modo nei racconti di Elvira Seminara vengono descritti spazi chiusi (l’interno dell’auto, di una sala, di una stanza) e in modo ridondante tornano finestre, vetri, tende, come se i personaggi dei racconti vedessero sempre attraverso un filtro e come se questi personaggi venissero osservati dall’autrice negli interni dei loro appartamenti e colti, a loro insaputa, in quei loro atti meccanici.
Così vediamo muovere i personaggi in luoghi familiari, rappresentati ora dalla sala del parrucchiere, ora da una stanza d’appartamento, in ogni caso sempre alle prese con il loro rapporto conflittuale col tempo e la realtà. E’ proprio il tempo uno degli elementi più significativi: ne I racconti del parrucchiere esso si traduce in attesa, rimpianto, memoria, speranza, quasi mai in presente. Ed è questo a miscelarsi con uno spazio rappresentato anche dal paesaggio: l’incertezza dei personaggi si esplica attraverso l’incertezza meteorologica; in molti racconti c’è l’attesa della pioggia come liberazione da uno stato di ansia, di inquietudine ma anche come riflesso di una luce cupa ed evanescente che si cela nell’animo dei protagonisti.
Sono personaggi da cui trapela una dirompente solitudine: il trans, l’insegnante zitellona, il padre separato dal figlio e altri. I personaggi si sentono a disagio nei loro spazi abituali e cercano una via di fuga nel tempo: passato o futuro che sia.
Il rapporto del personaggio col tempo è spesso lacunoso, riflesso della frattura nei confronti della vita che sta fuori dallo spazio in cui è rinchiuso.
E’ presente per intero la concezione che Norbert Elias aveva del tempo: “Simbolo di una sintesi sociale appresa” e non quindi un dono della ragione innata. La protagonista di Diario, ad esempio, non è in grado di scandire in modo corretto il suo tempo perché non è più in grado di comunicare col mondo, avendo spezzato il filo di quell’apprendimento delle sintesi sociali. Ma ecco che viene in soccorso la scrittura, che diviene necessaria nel tentativo di una riconciliazione tra individuo e ritmo del mondo. La scrittura come terapia, cura: c’è per intero Zeno Cosini. Sia per lui che per la protagonista del racconto la scrittura-terapia è imposta dall’elemento dell’autorità (il medico), è una costrizione al pari di un medicinale somministrato.
Il personaggio quindi si riconosce nella figura di un paziente, di un malato.
Quello della malattia, si sa, è un tema ricorrente che abbraccia la letteratura di una buona parte del Novecento: da Saba (con la sua paura di essere uomo tra gli uomini) a Pirandello (con la sua consapevolezza della frammentarietà dell’identità); da Joyce (con i suoi flussi di coscienza come riflesso della psicanalisi che in quegli anni varcava nuovi confini dell’inconscio nell’uomo moderno) a Proust (con la sofferta accettazione della natura debole e peccatrice dell’animo umano). Fino a comprendere Svevo (con il suo pericolo di esser uomo) e il critico narratore Debenedetti (con l’aver compreso che l’identità non può essere definibile poiché nasce plastica).
La malattia quindi è un elemento che riveste la funzione di minimo comune denominatore tra i vari fattori tematici della letteratura e nell’autrice di questi racconti la descrizione della malattia resta fedele a quel contesto tradizionale da cui proviene.
La diversità è messa in primo piano, ma una diversità che tenta disperatamente di non tramutarsi in silenzio, in assenza di comunicazione e che invece pone la necessità del richiamo alla coppia di termini che ne deriva: scrittura-esistenza.
La protagonista di Diario per riappropriarsi del tempo del mondo annota le sue azioni, i suoi pensieri. C’è in lei il timore di perdere la cognizione di questo tempo e quindi di se stessa; c’è la paura più grande di non essere percepita.
La scrittura crea memoria e quindi colma un vuoto. L’assenza di memoria coincide con l’assenza di vita, di esistenza: IO SONO QUA. E’ racchiuso in questa frase della protagonista tutta l’essenza della scrittura, e quindi della Letteratura: letteratura come testimonianza dell’esistere; letteratura come conferma dell’esistere.:
“Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata… Ognuno leggerà se stesso” (Svevo, Il vegliardo).
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Tergicristallo
da “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara
Tic tac. Tic tac. Guarda come piove. Ascoltami, ti prego, conviene restare qui, non scendere dalla macchina.
Restiamo così, a guardare il mondo che s’inzuppa e sbriciola come un biscotto.
Vieni qui, vicino a me.
Attento al freno a mano, ti sei fatto male? Facciamo finta che è una magia: noi siamo nascosti, nel buio, e nessun pirata ci può trovare, perché ci sono le tende sui vetri, è la pioggia che le ricama.
Questa è una nave fantasma, e nessuno ci può vedere.
No, che non è notte, è pomeriggio. In autunno è così, fa buio talmente presto. Non te lo ricordi più?
Se vuoi ti racconto una storia. C’è tutto il tempo, davvero, credi a papà. Non lo sai che quando piove l’orologio s’incanta? E anche le stelle, guarda là. Non si muovono da lì, dietro quel campanile. Io ne ho contate sette, e tu?
Ho capito, a te i numeri non vanno giù.
Non piagnucolare, ti prego. Mezz’ora è tantissima per stare insieme quando piove. Tic tac, se lo guardi, il tergicristallo è un dito gigante che fa sì e no, è un piccolo corvo che impara a volare.
Senti, una volta è successo così. C’era un bambino come te che piangeva perché il suo palloncino era volato in cielo, e piangeva dal suo balcone, tutto solo, guardando il sole che se ne stava per i fatti suoi.
Nessuno lo consolava e le sue lacrime cadevano sotto, sulla biancheria stesa nei fili, e sulle macchine per strada.
Quante lacrime! Il bambino non riusciva a smettere, e in poco tempo la strada divenne un lago. Fu così che tutta la gente accese in macchina i tergicristalli, e tutti i finestrini all’improvviso si misero a fare tic tac sotto il sole, e il bimbo si divertì tanto a quello spettacolo che rimase imbambolato a guardare, senza pensare più al suo pallone. E non è finita. Il sole, guardando quella scena buffa, cominciò a ridere a crepapelle, e sbuffando sbuffando spinse giù il pallone, che volteggiando ritornò a casa dal bambino.
E adesso che fai, non parli più? Certo che te lo compro un palloncino, la prossima volta.
Tic e tac, splish e splash. Contiamo insieme i rintocchi, anzi giochiamo alla tabellina del tre. L’hai ripassata, questa settimana?
Ok, cambiamo gioco. Guarda l’acqua che si rotola laggiù sotto la grondaia, è la luna che fa le bolle di sapone.
Abbiamo ancora più di venti minuti, ma tu non chiedermelo più. Ti prego, non tirare fuori le lacrime, stavolta non si può fare quella magia del balcone, perché piove già.
E poi ci sono io con te. Guarda quel lampione, non sembra muoversi nel buio? Forse c’è una lucciola imprigionata nel raggio, che spinge su e giù per liberarsi. E il coperchio del cassonetto fa bum, perché la pioggia lo picchia e rimbalza, insomma. È una grande battaglia navale, e noi restiamo invisibili, al sicuro.
Tic e tac, tu apri gli occhi e li chiudi. Sei stanco, hai ragione, è una giornata che siamo in giro. Ma allo zoo è stato bello, ricordi l’elefante che faceva la pipì…
Anch’io sono stanco, anche la pioggia dev’essere stanca, scende furiosa da un’ora.
Ecco, adesso ti vedo meglio, avevo gli occhiali appannati, hai ragione, anche gli occhiali dovrebbero avere i tergicristalli, ma guarda che non sto mica piangendo, i papà non piangono mai.
Apri quel cassetto, ci sono delle caramelle alla menta.
Certo che puoi portarle a casa, sono per te.
Adesso sono nove, guarda. Come “che cosa?” Le stelle.
Tic e tac, splish e splash, ti metto una musica che ti piacerà. Lo senti, questo è il flauto… Sei andato martedì
scorso a lezione?
Tic e tac, un sabato sì e uno no. Non sono io che decido, lo sai, ma l’avvocato. Domenica sì o domenica no.
Tic tac, il cuore che batte o la pioggia sui vetri.
Tic tac. Apri gli occhi e li chiudi, ti sei addormentato.
Abbiamo ancora quindici minuti per farci cullare da questa pioggia, ora spengo il tergicristallo, così potremo
naufragare. Dormi qui, sulla mia spalla, così.
Dieci minuti.
Cinque.
Tre.
Devo farlo per forza. È così. Io ti devo svegliare.
Andiamo. Sei un poco sudato, dove è finita la sciarpa.
Forza, su, in piedi. La mamma avrà già finito col suo parrucchiere, è lì che ti aspetta, dietro quell’insegna azzurra, quella illuminata, non te la ricordi più?
Certo che ti accompagno io, adesso attraversiamo insieme, ma tu devi fare un salto se no ti bagni tutti i piedi.
Un balzo e abbandoni la nave, così.
Un attimo, vieni qui che ti abbottono. Le hai prese le caramelle? Guarda che domenica prossima ti verrò a prendere prima, devi svegliarti presto, andremo al lago.
E ci sarà il sole, te lo prometto. Ma non dimenticare il cannocchiale.
Hai visto, ha smesso di piovere. Attento a quella pozzanghera.
Bravo.
Ok, adesso guardami negli occhi.
Ciao capitano. Buona notte.
Tags: elvira seminara, gaffi, giunti, i racconti del parrucchiere, luigi la rosa, racconti, sabina corsaro
Scritto giovedì, 4 giugno 2009 alle 10:10 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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