martedì, 30 settembre 2008
LA CONDANNA DEL SANGUE. La primavera del commissario Ricciardi, di Maurizio de Giovanni
Luigi Alfredo Ricciardi, nato a Napoli nel 1900, è il trentenne commissario di polizia ideato da Maurizio de Giovanni. Avevamo già avuto modo di presentarlo in concomitanza con il primo libro della serie di quattro (una per ogni stagione) a lui dedicata: “Il senso del dolore”.
Ora Ricciardi ritorna con “La condanna del sangue”.
Ci parleranno di questo nuovo romanzo Laura Costantini e Francesco Di Domenico.
Io ricordo solo la peculiarità di questo malinconico commissario che si trova a operare nella Napoli degli anni Trenta del secolo scorso: Ricciardi ha il dono – o la maledizione – di vedere l’immagine di chi muore di morte violenta, e ascoltarne le ultime parole pronunciate.
“Il Fatto, lo chiamava. E il pensiero che la morte, nella sua partenza improvvisa, non aveva avuto il tempo di chiudere i conti, gli arrivava addosso, a chiedere vendetta. Chi se ne andava così, se ne andava con lo sguardo rivolto all’indietro. E lasciava un messaggio che Ricciardi raccoglieva, ascoltando quell’ultimo pensiero ossessivamente ripetuto.” (da “La condanna del sangue”, pag. 21).
Ospite di questo post sarà l’autore del romanzo: Maurizio de Giovanni.
Ma non solo…
Avrete la possibilità di interloquire direttamente con il commissario Ricciardi.
Ponetegli domande, mi raccomando…
Vi offro uno spunto.
Ricciardi sostiene che i moventi che stanno alla base di ogni delitto sono fondamentalmente due: la fame e l’amore.
Siete d’accordo?
Naturalmente tutti coloro che hanno già letto il libro sono invitati a dire la loro.
Massimo Maugeri
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Intervista a Maurizio de Giovanni
di Laura Costantini
Ci sono personaggi nati dalla fantasia di uno scrittore destinati a vivere di vita propria. Il commissario Luigi Ricciardi, protagonista dei romanzi Il senso del dolore e La condanna del sangue, editi da Fandango, è uno di questi. Ma ci sono anche scrittori che assurgono facilmente al ruolo di personaggi essi stessi, e Maurizio de Giovanni (nella foto) è uno di quegli scrittori. Alto quasi due metri, di sicuro questo bancario partenopeo non ha il phisique-du-rôle dell’Alice piombata nel paese delle meraviglie. Ma è esattamente così che si sente da quando, auspici un corso di calcetto per i suoi due figli e un laboratorio di letteratura umoristica, è incappato nella scrittura.
“Non te la faccio lunga: grazie a un elaborato di otto righe scritto durante il laboratorio, mi iscrivono a un concorso. In giuria gente tipo Carofiglio e Lucarelli, presidente Daniele Protti (direttore dell’Europeo, n.d.r.). Non volevo andarci, non mi ritenevo all’altezza. Avevo già 47 anni, ero fuori tempo massimo. Il tema del concorso era un delitto famoso, io non sapevo cosa scrivere. Avevamo una quindicina di ore di tempo. Io ho pensato che avrei fissato il foglio per un’oretta, poi me ne sarei andato.”
Ma non l’hai fatto.
“No. Eravamo all’interno del caffè Gambrinus, a Napoli. Ho visto passare oltre le vetrate una bambina. Aveva un’espressione truce, era triste. Mi sono chiesto come sarebbe se uno potesse vedere il dolore degli altri, l’emozione nuda, senza alcuna mediazione.”
Quella bambina la ritroviamo ne Il senso del dolore, giusto?
“Giusto. Insomma, ho vinto il concorso. Il racconto I vivi e i morti venne pubblicato sull’Europeo nel 2005. Una grossa soddisfazione, ma pensavo fosse finita lì.”
Invece?
“Invece mi chiama un’agente letterario. Voleva un romanzo con il commissario Ricciardi protagonista. Non ce l’avevo. Mi sono preso due settimane di ferie, quindici giorni a scrivere come un pazzo, a tappo dentro casa.”
E hai scritto Il senso del dolore.
“Sì, anche se ancora non era quello il titolo. Io l’avevo intitolato Le lacrime del pagliaccio, poi la Fandango ha deciso diversamente.”
Il dolente commissario Ricciardi è un successo inaspettato. Come te lo spieghi?
“Me lo spiego cosi’: ho la fortuna di non saper scrivere. La mia scrittura non prevale come succede a colleghi molto più bravi di me. Loro si ascoltano scrivere, gli piace il gusto delle parole e la gente non ci si riconosce. A me non succede così. Sarà stata la fretta, ma io mi sono limitato a raccontare una storia. Ho mandato il manoscritto all’agente letterario, le piacque, ma voleva amore, qualche scena di sesso.”
E tu?
“Io non lo sapevo fare. A me quel romanzo mi era uscito così, come un circuito stampato. Chiesi consiglio al direttore editoriale di una casa editrice di Napoli. Mi chiama la mattina dopo: lo pubblichiamo noi.”
Le lacrime del pagliaccio vende 2000 copie in due mesi.
“E calcola che era distribuito solo a Napoli. Pensavo che fosse finita lì, mi ero tolto lo sfizio ma i colpi di… posso dirlo? Di culo non erano ancora finiti. Te la faccio breve, prometto. Il direttore del centro di produzione Rai di Napoli si ruppe una caviglia. Per passare il tempo leggeva. Gli capitò il mio libro, mi cercò, me ne chiese tre copie per sottoporle a tre nomi del settore editoriale. Il primo a muoversi fu Domenico Procacci, di Fandango. Mi diede appuntamento a Roma.”
E, come si dice, il resto è storia. Il senso del dolore e La condanna del sangue sono i primi due di quattro episodi, uno per ciascuna stagione dell’anno.“
Sì. Procacci pensava che li avessi già pronti. Mi è toccato scrivere a tempo di record il secondo (La condanna del sangue – la primavera del commissario Ricciardi, nelle librerie dallo scorso 26 giugno). Sto lavorando al terzo e per il quarto sono ancora in alto mare. La mia fortuna, una delle mie molte fortune, è Paola, la mia compagna, che ha la pazienza di rileggermi e farmi l’editing. Io non rileggo mai quello che scrivo, mi annoia perché so già come va a finire.”
Il senso del dolore è uscito in sordina, eppure è nella classifica dei 100 più venduti da ottobre. I diritti sono stati acquistati all’estero, in Francia e Germania. Si comincia a parlare di una trasposizione televisiva. Ti aspettavi tutto questo?
“Ma quando mai? Mi viene da ridere quando la gente mi tratta come fossi uno scrittore vero, sai quelli con i capelli lunghi, il dolcevita nero e l’aria tormentata. Io sono solo… lo posso dire? Un coglione strafelice che ha avuto una bella idea. E basta.”
Nessun talento?
“No. Tutti abbiamo dentro delle belle storie. Ci vuole solo la faccia tosta di raccontarle. E io la faccia tosta ce l’ho.”
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Recensione a La condanna del sangue – la primavera del commissario Ricciardi (di Laura Costantini)
Faccia tosta o talento che sia, Maurizio de Giovanni è riuscito a mantenere ciò che aveva promesso nel suo romanzo di esordio. E non era facile, vista la perfezione di stile, di emozioni, di equilibrio che Il senso del dolore sapeva trasmettere. Diciamo subito che La condanna del sangue è romanzo molto più corposo e articolato. Se nel primo l’autore aveva tenuto strette le redini della propria creatività, con La condanna del sangue si è lasciato andare al piacere di un acquerello che alle tinte leggere e trasparenti della primavera in corsa nei vicoli di questa Napoli 1931, aggiunge pennellate vivide e gocciolanti che non possono che essere rosso sangue. Al centro di tutto, ancora, il nostro amico Ricciardi, con i suoi occhi verdi trasparenti come vetro, ma profondi e insondabili almeno quanto quel Fatto che è dono e maledizione. E se ci era apparso personaggio degno di restare ben presente nella memoria del lettore alla sua prima apparizione, qui il commissario acquista spessore e umanità, rivelando fragilità che fanno sorridere. E innamorare. Intorno a lui si muove Napoli e una piccola folla di personaggi guidati all’azione dal vento leggero e profumato della primavera, dal rimescolarsi dei sentimenti e degli ormoni, dalla cattiveria, dall’avidità, ma anche e soprattutto dall’amore. L’omicidio cruento di una vecchia cartomante è il filo conduttore e l’indagine principale, ma le pennellate si espandono intorno, comprendendo una donna troppo povera e sola per permettersi di essere la più bella di tutta Napoli, un pizzaiolo indebitato e disposto a morire per tutelare l’onore della sua famiglia, una ragazzina abusata dal padre vedovo, un attore bello e rampante, una nobildonna annoiata e in cerca della scossa della passione, una bambina ritardata che condivide con Ricciardi il dono di vedere i trapassati. Tirare le fila di tutto questo, e molto altro, non deve essere stato facile eppure de Giovanni, che per scrivere romanzi prende due settimane di ferie e si chiude a tappo in casa, ci è riuscito con la maestria di un grande pittore. Quello che ci troviamo davanti è un affresco tenero ed epico insieme, arricchito da maschere profondamente umane. Come quella del brigadiere Raffaele Maione, indispensabile spalla di Ricciardi, uomo tutto d’un pezzo ma vero nelle sue incertezze, nella sofferenza per il figlio perduto, nella rabbia per un matrimonio che rischia il naufragio, nella fragilità davanti alla possibilità di un altro amore, un’altra donna. Saranno la sua profonda onestà, la saggezza di un femminiello e la forza tutta femminile di sua moglie Lucia, a riportarlo in carreggiata, a rimetterlo al posto che gli spetta nell’affresco. Un affresco che si accende anche di rosa nella nuova chance che riporta speranza per il timidissimo commissario Ricciardi e per la sua Enrica, silenziosa ricamatrice mancina alla finestra. La primavera ce li mostra così i personaggi partoriti dal talento di Maurizio de Giovanni, incasellati in una storia che odora di vicoli, di rifiuti, di mare, di vento fresco, di fiori appena sbocciati. E su tutto domina l’aroma ferroso e feroce del sangue. La ferita che attraversa il volto perfetto di Filomena così come quello di Napoli. Uno sfregio che non ne spegne la bellezza. Anzi, la esalta.
Laura Costantini
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Recensione di Francesco Di Domenico
Uno poi sta lì ad aspettare.
Il lettore è una carogna, aspetta la seconda opera, come diceva il principe: “Vediamo ‘sto stupido dove vuole arrivare”; il critico, quasi sempre un’infame sprovveduto e insulso mancato scrittore; l’amico scrittore, una gelida bestia arsa dal livore per il successo del compagno.
Maurizio de Giovanni esce con il secondo “Ricciardi” e sgomenta un po’ tutti.
Li stende. Ma non credo ne avesse voglia, de Giovanni semplicemente tira fuori da sé quello che la sua incredibile fantasia ha accumulato in quasi 50 anni di letture e vita vissuta, con semplicità disarmante. Quando gli chiedevano, alla presentazione del “Senso del dolore”: – “Maurì, e adesso? Come sarà il prossimo? Che scriverai?” Lui rispondeva, con quel sorriso umile, dolce, come sanno essere dolci i veri amici, e anche un po’ sulla difensiva: “Perdonatemi, ma l’ho già scritto!” Tornano, con questo secondo libro, di una promessa quadrilogia delle stagioni, i personaggi che ci avevano già convinto nel primo tomo: il brigadiere Raffaele Maione, ombra massiccia e sussiegosa; la giovane e delicata Enrica, amore di sguardi tra finestre e Luigi Alfredo Ricciardi, gli occhi verdi all’altro capo dell’altra finestra. Messa così sembra un romanzo d’appendice: tutt’altro.
“La condanna del sangue” è la primavera di questo giovane commissario trentenne, nel ‘30 del ‘900. Tutto ribolle nella stagione della rinascenza, a cominciare dal sangue.
Tra i vicoli dei quartieri poveri della città che si affacciano nell’antica via Toledo, la “Via Nova” – come ancora oggi, a 400 anni di distanza la chiamano gli abitanti dei “Quartieri Spagnoli – Il commissario Ricciardi vive, cammina e sopravvive a se stesso e ad un soprannaturale dolore che si porta dentro. La strada, sotto il fascismo si chiama via Roma, ed è ancora una violenta coltellata seicentesca nel cuore della sirena partenope, che scendendo dalla Reggia estiva di Capodimonte arriva direttamente all’altra reggia di piazza del Plebiscito, e al mare, cercando di dividere i ricchi dai poveri, il mare dalla collina; i vivi dai morti.
In questa città non si sono ancora prodotti i distacchi netti del dopoguerra tra ceti; non c’è ancora l’odore della morte e della sopraffazione che avrebbe ereditato dalla tragedia del ’43. Il fascismo è raccontato in modo distaccato, come “un altro da sé”, quasi separato dalla vita viva della gente, con ironia storica. Anche il mare, che dovrebbe essere il contenitore vivido di questa città, è trattato come una delicata cornice, una nuance.
Il melange tra classi è una risulta culturale della Napoli ancora borbonica; ricchi che frequentano i poveri per servirsene, per comprare soldi a usura o speranze da cartomanti. La stessa miscela, sapientemente raccontata nel capolavoro eduardiano “Napoli Milionaria”. Nel mezzo delitti, a volte quasi casuali, raramente premeditati. Croci continue sulle spalle di un uomo autocondannatosi alla scoperta della verità, legato a quel mistero soprannaturale , “Il Fatto”, che gli fa udire le ultime parole che il morto pronuncia o pensa, per dare sepoltura a quelle parole e alle anime, più che ai corpi.
L’autore afferma che “I genitori di ogni delitto sono, per Ricciardi, la Fame e l’Amore; l’una ottusa, cieca e violenta, l’altro illusorio, falso ed egoista. Il Potere, l’ansia del quale procura pure crimini orribili, è di fatto una via di mezzo. Potremmo dire che tutti e tre esauriscono le motivazioni di questi crimini.”
Il percorso adottato dall’autore è lastricato di piccole e grandi passioni incastrate come i lastroni di pietra lavica che pavimentano la città, e di miseria, quella che una volta era fisica e oggi è puramente morale.
La narrazione, intrisa di particolari spietati e lucidi sembra quasi precedere lo straordinario “Il Mare non bagna Napoli” di A. M. Ortese . Alcuni passaggi hanno la stessa tensione di amore/odio della grande scrittrice che nel ’53 scriveva: “Qui, il mare non bagnava Napoli. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco dell’amore, sotto il cielo nero del sovrannaturale.”
Napoli aveva proprio bisogno di un altro scrittore.
Francesco Di Domenico
Tags: fandango, francesco di domenico, la condanna del sangue, laura costantini, maurizio de giovanni, ricciardi
Scritto martedì, 30 settembre 2008 alle 09:09 nella categoria SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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