La letteratura si è confrontata molto spesso con la morte e la malattia. In questo post vi propongo due libri pubblicati da Einaudi che rientrano nel filone. Due libri diversi, eppure accomunati dalla presenza di patologie destinate ad avere esiti mortali.
Mi sto riferendo a Patrimonio di Philip Roth e a L’ora dell’incontro di Giampiero Rigosi.
Sul primo vi propongo una mia breve nota, sul secondo una recensione firmata da Barbara Gozzi.
Vi invito a discutere di entrambi i libri; magari c’è qualcuno che li ha letti.
Inviterò Giampiero Rigosi a partecipare al dibattito. Approfittatene per rivolgergli domande.
Poi vi pongo un paio di quesiti generici… e vi invito, ovviamente, a dire la vostra.
La letteratura può essere capace di esorcizzare morte e malattia oppure non può che limitarsi a rappresentarle, o – più semplicemente – a sfiorarle stigmatizzandone, con rassegnazione, l’ineluttabilità?
Può esistere un connubio tra “letteratura di morte e malattia” e “letteratura della speranza”?
Tra i vari romanzi che hanno affrontato i suddetti temi c’è n’è qualcuno a cui vi sentite particolarmente legati?
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PATRIMONIO di Philip Roth, Einaudi, 2007, pag. 192, euro 16,50, traduzione di Vincenzo Mantovani
Patrimonio non è – in senso tecnico – un romanzo, ma una storia vera raccontata da un grande romanziere.
Hermann Roth, padre di Philip, protagonista di un’esistenza caratterizzata da tenacia, determinazione e vitalità è costretto a piegarsi all’ (inevitabile) avvento di una malattia mortale. Ha ottantasei anni quando gli viene diagnosticato un tumore al cervello che segnerà la sua fine.
Philip racconta la terribile odissea della malattia, il calvario di un viaggio senza ritorno che questo padre deve affrontare accompagnato dall’amore di questo figlio fino alla soglia dell’agonia e dell’oblio. Perché un padre può anche avere ottantasei anni (età invidiabile) ma – per te figlio – non smetterà mai di essere padre, di essere colui che ti teneva per mano nelle tue passeggiate di bambino, di essere il depositario di ricordi e di esperienze famigliari che si perderanno con il suo trapasso.
L’immagine di copertina è una foto di famiglia che inquadra tre Roth: Hermann e i due figli. Come ci racconta lo stesso Philip, “Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l’altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. È l’agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre – tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy – le due imponenti terminazioni della lettera. Sì, quella che spicca sulla foto è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità!”
Ma quell’ascesa non è eterna. È destinata a interrompersi, per poi intraprendere un percorso all’incontrario che prima o poi incrocerà il dolore e la perdita.
“(…) quando avevo voglia di piangere piangevo, e mai ne ebbi più voglia di quando tirai fuori dalla busta la serie di immagini del suo cervello: e non perché potessi identificare prontamente il tumore che glielo stava invadendo, ma solo perché era il suo cervello, il cervello di mio padre, che lo spingeva a pensare nel modo brusco in cui pensava, a parlare nel modo enfatico in cui parlava, a ragionare nel modo emotivo in cui ragionava, a decidere nel modo impulsivo in cui decideva. (…) Ero solo e senza inibizioni, e così, mentre le immagini del suo cervello, ripreso da ogni angolo, giacevano sparpagliate sul letto dell’albergo, non feci il minimo sforzo di controllarmi. Forse l’impatto non fu quello che sarebbe stato se avessi tenuto quel cervello tra le mani, ma era qualcosa di molto simile. (…) Avevo visto il cervello di mio padre, e tutto e nulla era stato rivelato.”
Il tempo ribalta posizioni e ruoli. Quel padre che teneva il figlio in braccio quand’era in fasce, quel padre che si alzava di notte a soccorrere i suoi pianti da culla, quel padre che lo portava in giro nelle giornate estive di luce, comincia a invecchiare, a regredire. E tanto più la ruota del tempo gira, quanto più posizioni e ruoli vengono ribaltati fino al punto che il padre diventa figlio (sebbene rimanga pur sempre padre) e il figlio diventa padre (sebbene rimanga pur sempre figlio).
E allora qual è, qual è il patrimonio significativo che riceve il figlio? Qual è il lascito, l’eredità profonda che deriva dalla dipartita di questo padre?
Troviamo la risposta in questo breve stralcio. Una risposta che, nella sua valenza metaforica, conferma la tesi del ribaltamento dei ruoli.
“Si pulisce la merda del proprio padre perché dev’essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima d’allora. (…) Questo, dunque era il mio patrimonio (…): non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.”
Philip Roth scrisse Patrimonio nel 1991, dopo la morte del padre. Un libro importante, pregno di narrazione, di amore, di dolore, di denuncia. Un libro che è un tributo al padre e, al tempo stesso, un raccoglitore di ricordi, ma che funge anche da fondamentale premessa per la scrittura di quel grandissimo capolavoro che è Everyman, il miglior romanzo – a mio avviso – pubblicato nell’anno 2007.
Massimo Maugeri
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L’ORA DELL’INCONTRO di Giampiero Rigosi, Einaudi, 2007, pagg. 446, euro 17,50
‘La vita può finire da un momento all’altro. E allora perché non andare in fondo alle cose, finché c’è tempo per farlo?’ (pagina.11)
La storia inizia. Intrigante. Sospesa. E in mezzo ai primi tessuti narrativi Rigosi infila questa frase che è un indizio. Su cosa sarà in realtà questo romanzo. Gli elementi per incuriosire ci sono tutti. Un oncologo sembra interessarsi intimamente (molto intimamente) ad alcune sue pazienti, malate terminali. Coincidenza? Stranezza? O qualcos’altro? E’ quello che si chiede Clara, personaggio controverso, discutibile tanto quanto l’oncologo che tenta in tutti i modi di incontrare e mettere alla prova. Tra Clara e il dottor Palmieri appaiono piccole meteore luminose, luci soffuse e suoni forti, stridenti. Personaggi che sembrano lì per caso ma che hanno tutti un motivo, per esserci e svelarsi. L’ex marito di Clara, distratto e nostalgico, il fratello, Paolo, musicista in cerca del ‘tocco’ perduto, Antonia, la madre di Clara e Paolo, che non è sicura di essere poi così vecchia e raggrinzita come la faccia che vede riflessa allo specchio. Rigosi pubblicò ‘Notturno bus’ nel 2000 e descrisse una Bologna frenetica, personaggi in perenne rotazione, quattro giorni incandescenti, cadenzati, dove le emozioni tendono a zittirsi per non perdere il ritmo, per non rimanere indietro. Eppure lì c’era l’inizio. Di un viaggio. Un viaggio che Rigosi porta a compimento con ‘L’ora dell’incontro’ rallentando i ritmi, dilatando gli spazi e i tempi. Gli intrecci maliziosi non mancano così come una certa morbosità latente verso una situazione fuori dal comune e per questo poco chiara, che si presta a molteplici interpretazioni. Rigosi non dimentica di far leva sul lato mediatico del lettore (che vive di telegiornali, news on line, giornali e dibattiti tv), non dimentica di solleticare il lato oscuro, insomma. Parte proprio da lì per scavare. E scava davvero, a fondo. I personaggi che tratteggia vivono tra le pagine in modo sorprendente. Ci sono capitoli talmente intensi da lasciare imbarazzato il lettore, sospeso in una narrazione pulsante dal sapore fin troppo reale. Antonia che davanti alla televisione, seduta nel salotto del suo appartamento silenzioso mischia il passato remoto con il presente deformato e dimentica dove abita e chi è. Clara che sotto la pioggia, in una notte buia e fredda si precipita a casa per baciare il figlio febbricitante, unico amore solido e stabile in una vita costruita sui silenzi e confusa da emozioni difficili da gestire. Paolo che sente la musica nella testa ma ne ha paura e si lascia intontire da alcol e sesso. Poi c’è lui.L’oncologo misterioso che solo verso la fine assumerà sembianze umane precise e aprirà una sottile fessura in quella che è la porta del suo mondo, protetto con ostinazione, e molto diverso dalle aspettative di Clara (e forse anche del lettore).
Tutto in questo romanzo ruota attorno alle attese. In un certo senso tutti aspettano qualcosa. Di smascherare le coincidenze. Di ricostruire una vita spezzata, sospesa. Di sapere se potrà vivere ancora. Di dimostrare al mondo chi è veramente, cos’è capace di fare. Di ritrovare l’amore perduto. Di tornare indietro, a quando tutto era più semplice. Di.
‘Perché nessuno ha quasi mai la forza per superare la breve distanza che lo separa da chi gli è vicino per toccarlo, fargli sentire la propria esistenza con un gesto, una stretta.’ (pag.385)
Verso la fine della narrazione eccolo. Un altro indizio. Su dove si concluderà il viaggio. Il romanzo è diviso in tre parti. Nella prima vengono presentati i personaggi principali, il lettore inizia a conoscerli e a entrare nelle dinamiche relazionali che riprenderanno con maggiore potenza e intensità nella terza parte dove tutti si intrecciano in un ultimo valzer solitario. La seconda parte è dedicata a una storia indipendente in un certo senso. Rigosi racconta un frammento della vita di una Laura come tante che scopre di essere malata in seguito a un tocco doloroso, una coincidenza. Inizia così un percorso terapeutico insidioso né più né meno di quello degli altri (malati). Rigosi sente fortemente la storia di Laura, entra nella sua vita di donna in carriera che ha una famiglia unita e felice eppure. Eppure il nodulo, la chemio e la pace. Temporanea quanto dolce in attesa del nuovo round, più duro e insidioso. In questa parte del romanzo i sentimenti sono i padroni della trama, restano alcuni punti di contatto con la narrazione principale ma sfuggono, si nascondono dietro alle terapie, i foulard e l’amore che Laura cerca con una tenacia straziante.
‘E’ solo grazie alla mia malattia che. […] Vedi, se domani mi annunciassero che il tumore è scomparso, che la mia vita può continuare come prima, non so cosa farei. Forse non riuscirei più ad accettare. Questa cosa incoerente. Assurda. Ma straordinaria, che mi sta capitando.’ (pag.201)
Stilisticamente è un romanzo immediato, fresco e trasparente. I dialoghi sono sospesi, lasciati volutamente incompleti come se la voce cedesse, si inclinasse. I capitoli sono brevi, flash intensi che descrivono scene precise come in un film proiettato lentamente, dove il lettore è anche registra proprio perché non ci sono vincoli. La brevità di ogni scena permette di staccare senza perdere il senso degli intrecci, la forza delle analisi che gli stessi personaggi svelano in primis a se stessi.
‘L’arte, come ha detto qualcuno, sono dieci minuti di ispirazione e parecchie settimane di paziente lavoro. Ma quei dieci minuti, cazzo, non puoi sprecarli a elaborare teorie, ipotizzare citazioni e omaggi, stratificare impalcature sempre più complicate. Così zavorri l’intuizione e la fai andare a fondo.’ (pag.50)
Non so se in queste frasi la voce di Rigosi stia consapevolmente parlando (anche) della scrittura, la sua, e di questo romanzo, davvero uno dei migliori che ho letto nell’ultimo anno. Non lo so. Eppure l’ho sentita, l’essenza di questo testo pieno, maturo e consapevole. Che parla di tumori, routine, sentimenti (tanti, sempre, ovunque, solo). Tratteggia storie di solitudine, ricerca, paure, disprezzo, separazioni e falsi stordimenti. Ma che lascia il lettore con la speranza che qualcosa c’è (a parte alzarsi ogni mattina, il caffè, il lavoro, mangiare, dormire…) e la consapevolezza che non sempre si può.
Barbara Gozzi
http://progettobutterfly.splinder.com/
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