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domenica, 13 gennaio 2008

LETTERATURA E MALATTIA, LETTERATURA E MORTE: PHILIP ROTH, GIAMPIERO RIGOSI

La letteratura si è confrontata molto spesso con la morte e la malattia. In questo post vi propongo due libri pubblicati da Einaudi che rientrano nel filone. Due libri diversi, eppure accomunati dalla presenza di patologie destinate ad avere esiti mortali.

Mi sto riferendo a Patrimonio di Philip Roth e a L’ora dell’incontro di Giampiero Rigosi.

Sul primo vi propongo una mia breve nota, sul secondo una recensione firmata da Barbara Gozzi.

Vi invito a discutere di entrambi i libri; magari c’è qualcuno che li ha letti.

Inviterò Giampiero Rigosi a partecipare al dibattito. Approfittatene per rivolgergli domande.

Poi vi pongo un paio di quesiti generici… e vi invito, ovviamente, a dire la vostra.

La letteratura può essere capace di esorcizzare morte e malattia oppure non può che limitarsi a rappresentarle, o – più semplicemente – a sfiorarle stigmatizzandone, con rassegnazione, l’ineluttabilità?

Può esistere un connubio tra “letteratura di morte e malattia” e “letteratura della speranza”?

Tra i vari romanzi che hanno affrontato i suddetti temi c’è n’è qualcuno a cui vi sentite particolarmente legati?

———————–

———————–

PATRIMONIO di Philip Roth, Einaudi, 2007, pag. 192, euro 16,50, traduzione di Vincenzo Mantovani

Patrimonio non è – in senso tecnico – un romanzo, ma una storia vera raccontata da un grande romanziere.

Hermann Roth, padre di Philip, protagonista di un’esistenza caratterizzata da tenacia, determinazione e vitalità è costretto a piegarsi all’ (inevitabile) avvento di una malattia mortale. Ha ottantasei anni quando gli viene diagnosticato un tumore al cervello che segnerà la sua fine.

Philip racconta la terribile odissea della malattia, il calvario di un viaggio senza ritorno che questo padre deve affrontare accompagnato dall’amore di questo figlio fino alla soglia dell’agonia e dell’oblio. Perché un padre può anche avere ottantasei anni (età invidiabile) ma – per te figlio – non smetterà mai di essere padre, di essere colui che ti teneva per mano nelle tue passeggiate di bambino, di essere il depositario di ricordi e di esperienze famigliari che si perderanno con il suo trapasso.

L’immagine di copertina è una foto di famiglia che inquadra tre Roth: Hermann e i due figli. Come ci racconta lo stesso Philip, “Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l’altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. È l’agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre – tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy – le due imponenti terminazioni della lettera. Sì, quella che spicca sulla foto è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità!”

Ma quell’ascesa non è eterna. È destinata a interrompersi, per poi intraprendere un percorso all’incontrario che prima o poi incrocerà il dolore e la perdita.

“(…) quando avevo voglia di piangere piangevo, e mai ne ebbi più voglia di quando tirai fuori dalla busta la serie di immagini del suo cervello: e non perché potessi identificare prontamente il tumore che glielo stava invadendo, ma solo perché era il suo cervello, il cervello di mio padre, che lo spingeva a pensare nel modo brusco in cui pensava, a parlare nel modo enfatico in cui parlava, a ragionare nel modo emotivo in cui ragionava, a decidere nel modo impulsivo in cui decideva. (…) Ero solo e senza inibizioni, e così, mentre le immagini del suo cervello, ripreso da ogni angolo, giacevano sparpagliate sul letto dell’albergo, non feci il minimo sforzo di controllarmi. Forse l’impatto non fu quello che sarebbe stato se avessi tenuto quel cervello tra le mani, ma era qualcosa di molto simile. (…) Avevo visto il cervello di mio padre, e tutto e nulla era stato rivelato.”

Il tempo ribalta posizioni e ruoli. Quel padre che teneva il figlio in braccio quand’era in fasce, quel padre che si alzava di notte a soccorrere i suoi pianti da culla, quel padre che lo portava in giro nelle giornate estive di luce, comincia a invecchiare, a regredire. E tanto più la ruota del tempo gira, quanto più posizioni e ruoli vengono ribaltati fino al punto che il padre diventa figlio (sebbene rimanga pur sempre padre) e il figlio diventa padre (sebbene rimanga pur sempre figlio).

E allora qual è, qual è il patrimonio significativo che riceve il figlio? Qual è il lascito, l’eredità profonda che deriva dalla dipartita di questo padre?

Troviamo la risposta in questo breve stralcio. Una risposta che, nella sua valenza metaforica, conferma la tesi del ribaltamento dei ruoli.

“Si pulisce la merda del proprio padre perché dev’essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima d’allora. (…) Questo, dunque era il mio patrimonio (…): non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.”

Philip Roth scrisse Patrimonio nel 1991, dopo la morte del padre. Un libro importante, pregno di narrazione, di amore, di dolore, di denuncia. Un libro che è un tributo al padre e, al tempo stesso, un raccoglitore di ricordi, ma che funge anche da fondamentale premessa per la scrittura di quel grandissimo capolavoro che è Everyman, il miglior romanzo – a mio avviso – pubblicato nell’anno 2007.

Massimo Maugeri

———————–

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L’ORA DELL’INCONTRO di Giampiero Rigosi, Einaudi, 2007, pagg. 446, euro 17,50
‘La vita può finire da un momento all’altro. E allora perché non andare in fondo alle cose, finché c’è tempo per farlo?’ (pagina.11)

La storia inizia. Intrigante. Sospesa. E in mezzo ai primi tessuti narrativi Rigosi infila questa frase che è un indizio. Su cosa sarà in realtà questo romanzo. Gli elementi per incuriosire ci sono tutti. Un oncologo sembra interessarsi intimamente (molto intimamente) ad alcune sue pazienti, malate terminali. Coincidenza? Stranezza? O qualcos’altro? E’ quello che si chiede Clara, personaggio controverso, discutibile tanto quanto l’oncologo che tenta in tutti i modi di incontrare e mettere alla prova. Tra Clara e il dottor Palmieri appaiono piccole meteore luminose, luci soffuse e suoni forti, stridenti. Personaggi che sembrano lì per caso ma che hanno tutti un motivo, per esserci e svelarsi. L’ex marito di Clara, distratto e nostalgico, il fratello, Paolo, musicista in cerca del ‘tocco’ perduto, Antonia, la madre di Clara e Paolo, che non è sicura di essere poi così vecchia e raggrinzita come la faccia che vede riflessa allo specchio. Rigosi pubblicò ‘Notturno bus’ nel 2000 e descrisse una Bologna frenetica, personaggi in perenne rotazione, quattro giorni incandescenti, cadenzati, dove le emozioni tendono a zittirsi per non perdere il ritmo, per non rimanere indietro. Eppure lì c’era l’inizio. Di un viaggio. Un viaggio che Rigosi porta a compimento con ‘L’ora dell’incontro’ rallentando i ritmi, dilatando gli spazi e i tempi. Gli intrecci maliziosi non mancano così come una certa morbosità latente verso una situazione fuori dal comune e per questo poco chiara, che si presta a molteplici interpretazioni. Rigosi non dimentica di far leva sul lato mediatico del lettore (che vive di telegiornali, news on line, giornali e dibattiti tv), non dimentica di solleticare il lato oscuro, insomma. Parte proprio da lì per scavare. E scava davvero, a fondo. I personaggi che tratteggia vivono tra le pagine in modo sorprendente. Ci sono capitoli talmente intensi da lasciare imbarazzato il lettore, sospeso in una narrazione pulsante dal sapore fin troppo reale. Antonia che davanti alla televisione, seduta nel salotto del suo appartamento silenzioso mischia il passato remoto con il presente deformato e dimentica dove abita e chi è. Clara che sotto la pioggia, in una notte buia e fredda si precipita a casa per baciare il figlio febbricitante, unico amore solido e stabile in una vita costruita sui silenzi e confusa da emozioni difficili da gestire. Paolo che sente la musica nella testa ma ne ha paura e si lascia intontire da alcol e sesso. Poi c’è lui.L’oncologo misterioso che solo verso la fine assumerà sembianze umane precise e aprirà una sottile fessura in quella che è la porta del suo mondo, protetto con ostinazione, e molto diverso dalle aspettative di Clara (e forse anche del lettore).

Tutto in questo romanzo ruota attorno alle attese. In un certo senso tutti aspettano qualcosa. Di smascherare le coincidenze. Di ricostruire una vita spezzata, sospesa. Di sapere se potrà vivere ancora. Di dimostrare al mondo chi è veramente, cos’è capace di fare. Di ritrovare l’amore perduto. Di tornare indietro, a quando tutto era più semplice. Di.

‘Perché nessuno ha quasi mai la forza per superare la breve distanza che lo separa da chi gli è vicino per toccarlo, fargli sentire la propria esistenza con un gesto, una stretta.’ (pag.385)

Verso la fine della narrazione eccolo. Un altro indizio. Su dove si concluderà il viaggio. Il romanzo è diviso in tre parti. Nella prima vengono presentati i personaggi principali, il lettore inizia a conoscerli e a entrare nelle dinamiche relazionali che riprenderanno con maggiore potenza e intensità nella terza parte dove tutti si intrecciano in un ultimo valzer solitario. La seconda parte è dedicata a una storia indipendente in un certo senso. Rigosi racconta un frammento della vita di una Laura come tante che scopre di essere malata in seguito a un tocco doloroso, una coincidenza. Inizia così un percorso terapeutico insidioso né più né meno di quello degli altri (malati). Rigosi sente fortemente la storia di Laura, entra nella sua vita di donna in carriera che ha una famiglia unita e felice eppure. Eppure il nodulo, la chemio e la pace. Temporanea quanto dolce in attesa del nuovo round, più duro e insidioso. In questa parte del romanzo i sentimenti sono i padroni della trama, restano alcuni punti di contatto con la narrazione principale ma sfuggono, si nascondono dietro alle terapie, i foulard e l’amore che Laura cerca con una tenacia straziante.

‘E’ solo grazie alla mia malattia che. […] Vedi, se domani mi annunciassero che il tumore è scomparso, che la mia vita può continuare come prima, non so cosa farei. Forse non riuscirei più ad accettare. Questa cosa incoerente. Assurda. Ma straordinaria, che mi sta capitando.’ (pag.201)

Stilisticamente è un romanzo immediato, fresco e trasparente. I dialoghi sono sospesi, lasciati volutamente incompleti come se la voce cedesse, si inclinasse. I capitoli sono brevi, flash intensi che descrivono scene precise come in un film proiettato lentamente, dove il lettore è anche registra proprio perché non ci sono vincoli. La brevità di ogni scena permette di staccare senza perdere il senso degli intrecci, la forza delle analisi che gli stessi personaggi svelano in primis a se stessi.

‘L’arte, come ha detto qualcuno, sono dieci minuti di ispirazione e parecchie settimane di paziente lavoro. Ma quei dieci minuti, cazzo, non puoi sprecarli a elaborare teorie, ipotizzare citazioni e omaggi, stratificare impalcature sempre più complicate. Così zavorri l’intuizione e la fai andare a fondo.’ (pag.50)

Non so se in queste frasi la voce di Rigosi stia consapevolmente parlando (anche) della scrittura, la sua, e di questo romanzo, davvero uno dei migliori che ho letto nell’ultimo anno. Non lo so. Eppure l’ho sentita, l’essenza di questo testo pieno, maturo e consapevole. Che parla di tumori, routine, sentimenti (tanti, sempre, ovunque, solo). Tratteggia storie di solitudine, ricerca, paure, disprezzo, separazioni e falsi stordimenti. Ma che lascia il lettore con la speranza che qualcosa c’è (a parte alzarsi ogni mattina, il caffè, il lavoro, mangiare, dormire…) e la consapevolezza che non sempre si può.

Barbara Gozzi

http://progettobutterfly.splinder.com/


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Scritto domenica, 13 gennaio 2008 alle 23:35 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

150 commenti a “LETTERATURA E MALATTIA, LETTERATURA E MORTE: PHILIP ROTH, GIAMPIERO RIGOSI”

In questo post vi propongo una discussione suddivisa in tre filoni.
La prima è direttamente connessa al ttiolo del post: LETTERATURA E MALATTIA, LETTERATURA E MORTE.
In tal senso vi invito a dibattere provando a rispondere alle domande del post che vi ricopio all’interno di questo commento.

- La letteratura può essere capace di esorcizzare morte e malattia oppure non può che limitarsi a rappresentarle, o – più semplicemente – a sfiorarle stigmatizzandone, con rassegnazione, l’ineluttabilità?
-
- Può esistere un connubio tra “letteratura di morte e malattia” e “letteratura della speranza”?
-
- Tra i vari romanzi che hanno affrontato i suddetti temi c’è n’è qualcuno a cui vi sentite particolarmente legati?

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 23:39 da Massimo Maugeri


Il secondo filone del dibattito si concentra su “Patrimonio”. Invito a intervenire soprattutto coloro che hanno letto il libro, ma anche i commenti di coloro che non hanno ancora avuto la possibilità di leggerlo sono più che benaccetti.
E poi potremmo parlare di Philip Roth.
Se avete domande da porre su questo libro sono a vostra disposizione.
Ho telefonato a Roth per chiedergli di partecipare al dibattito e mi ha detto che farà il possibile per intervenire nel suo italiano stentato…

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 23:42 da Massimo Maugeri


Ovviamente su Roth scherzavo… magari avessi la possibilità di sentirlo per telefono!
:)

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 23:43 da Massimo Maugeri


Invece spero di avere qui a letteratitudine Giampiero Rigosi, dato che l’altro filone del dibattito riguarderà proprio il suo libro.
Ho già messo in preallarme Giampiero qualche giorno fa.
-
Nomino Barbara Gozzi co-conduttrice di questo post per la parte che riguarda “L’ora dell’incontro”.
Chi ha letto questo libro può tranquillamente dire la sua.
Vi invito a interagire con Giampiero e Barbara (che ringrazio per avermi inviato la bella recensione).
-
A voi…

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 23:46 da Massimo Maugeri


Una precisazione
I tre “filoni” non sono stati presentati per ordine di importanza, eh?
Ci mancherebbe!
Grazie in anticipo per i vostri interventi.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 23:48 da Massimo Maugeri


Spiacente: sono un chiacchierone ma non ho letto i libri e dunque intervengo solo per augurare ”Buon dibattito” a tutti coloro che abbiano le carte in regola.
Sergio Sozi

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 00:24 da Sergio Sozi


Ciao Sergio,
se vuoi – e se ti va, naturalmente – puoi comunque partecipare al dibattito “generalista” sul tema “letteratura e malattia, letteratura e morte”, magari provando a rispondere alle domande di cui sopra.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 00:27 da Massimo Maugeri


nemmeno io ho letto i libri in oggetto e credo anche che eviterò di farlo. nessuna prevenzione, ci mancherebbe, è solo che non mi va. nessun capolavoro può attentare al benessere delle mie palle. e ormai, dato che alle suddette non è rimasta molta militanza attiva, evitano di esporsi come bersaglio della letteratura “tumorale”. ciò non toglie che al dibattito probabilmente parteciperò.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 01:26 da Enrico Gregori


Credo che se un libro affronti il tema della morte o della malattia non lo faccia con spirito ospedaliero o necrofilo… Enrico, salvus es, noli timere…
La letteratura trasfigura il reale, lo rende arte con la sua riflessione e con la bellezza. Altrimenti basterebbero bollettini medici e necrologi.
Anna Frank e Primo Levi di cosa hanno parlato se non di morte incombente o in atto? Il Gattopardo cos’è se non un requiem maestoso sulla morte delle illusioni politiche, sentimentali, amorose? Tutte le volte che la morte e la malattia entrano nella trama di un libro autentico sono occasione di crescita, di riflessione, se non di consolazione.
Sergio, dai, non farti da parte! Ti sento meno presente in questo periodo… Spero tutto ok. Non vorrai lasciare campo libero ad Enrico e ai gregoriani?! Smile…

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 02:02 da Maria Lucia Riccioli


Grazie, Maria Lucia, ma piuttosto che ‘’smile” preferisco il tuo solito ‘’sorriso italiano”, nostro. Mio.
Vabbe’, a parte gli scherzi con la cara, dolce, Maria Lucia, io evito come Grego’ certe catacombe. Ho letto Joseph Roth e la sua Cripta dei Cappuccini, il Foscolo, Mann, eccetera, certo, ma oggi penso alla vita e ai sogni belli e giocondi. La morte mi ha stancato. La lascio chi voglia parlarne. Io sto altrove.
Sergio

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 02:09 da Sergio Sozi


Grazie a Dio va tutto bene, Lucia, tranquilla. Forse sei tu ad esserti assentata per un po’ di tempo. Io qui sono. Ma su questo ”post” basta, per quanto mi riguarda.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 02:11 da Sergio Sozi


io roth l’ho iniziato, e abbandonato a metà. non escludo di riprenderlo, un giorno, perchè mi rendo conto che le variabili soggettive quando si legge sono troppe per essere categorici nel giudizio. magari tra sei mesi o dieci anni fa o mai mi sarebbe piaciuto. oggi no. non mi ha coinvolto, non mi ha convinto.
credo che la letteratura della malattia e della morte sia utile ad esorcizzarne la paura soprattutto in chi scrive. può aiutare ad elaborare lutti e smascherare ossessioni morbose, ma, almeno per quanto mi riguarda, deve rasentare il capolavoro per convincermi. la montagna incantata è un discorso, man mano che il livello scende a me sorgono dubbi. e passa la voglia.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 06:33 da gea


Gentilissimi Sozi e Zappulla la mia email è faustina@wwart.net inviatemi i vostri indirizzi così vi spedisco, è più semplice.
:-)

Per quanto riguarda il topic, non mi sono innamorata di Roth e sono completamente d’accordo con Gea. La montagna incantata è altra cosa, non solo di respiro incredibilmente più ampio ma anche direi meno compiaciuta nei confronti della malattia. Immagino dipenda dalla vocazione “alta” di quest’opera. Ecco, se dovessi essere sincera dell’unico libro di Roth che ho letto mi infastidiva la sensazione di dovere inorridire per far piacere all’autore. Non mi ha evocato sentimenti particolarmente genuini e non mi ha nemmeno detto grandi cose che non sapessi già.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 06:58 da F. M. Rigo


Philip Roth non finirà mai di ammaliarmi. non ho ancora letto ‘Patrimonio’. ma se vale la metà di ‘Everyman’ è di certo un gran libro.
Non ho letto nemmeno l’ultimo Rigosi, ma la recensione fa venire voglia.
Malattia e morte entrano in tutte le forme d’arte da sempre, non solo nella scrittura. Non so se sia possibile esorcizzarle, credo invece sia impossibile non esprimerle. La grande letteratura, se ci pensate, guarda sempre alla morte.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 07:32 da Marzia


Non ho letto i libri in questione, ma credo in proposito che quellli di Tiziano Terzani siano i piu belli in assoluto. Morte e malattia sono i grandi tabù dell ‘occidente e quindi mi pare giusto che uno scrittore si occupidi questi temi.
Anche l’amore e i sentimenti in genere sono argmenti inflazionati. Come al solito quello che fa la differenza é il come.
In genere le testimonianze sono più coinvolgenti delle fiction, ma ogni racconto ha la dignità della sua esistenza.
In fondo anche nella letteratura russa c’é semper questo sfondo d’inesorabilità percepita in altre forme.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 07:42 da francescasca serra


D’accordissimo con Francesca Serra che dice che Morte e malattia sono i grandi tabù dell ‘occidente e quindi è giusto che uno scrittore si occupi di questi temi. Come al solito (e anche qui son d’accordo) quello che fa la differenza é il come.
A Barbara: dalla tua recensione emerge che nel libro di Rigosi i personaggi siano caratterizzati particolarmente bene?
A Giampiero: come mai hai deciso di affrontare una storia che parla anche di malattia? Per esorcizzarla o per altro?
Smile

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 07:56 da Elektra


Buon giorno a tutti.
Segnalo che per problemi personali (ho mio figlio piccolo malato) non so se potrò leggere e commentare regolarmente oggi.
@Elektra : i personaggi di ‘L’ora dell’incontro’ hanno tutti contorni ben definiti, personalità e caratteristiche specifiche che però il lettore impara a conoscere pagina dopo pagina. Si ‘entra’ nella trama come nei personaggi senza fretta, li si impara a conoscere prima da gesti, dialoghi e pensieri. In particolar modo alcuni tra loro, come Clara (ma anche il fratello e l’ex marito), il lettore arriverà a comprenderli, a sentirli vicini in un qualche modo, solo dopo l’ultima pagina. Non sono personaggi semplici, comunque. In ognuno si nascondono paure, desideri inespressi, ‘quel’ senso impalpabile di frustrazione mista a incapacità di darsi un posto nella società. In questo senso sono tutti un pò malati, secondo me (malati di vivere, essere, trovarsi, capirsi, esternare). Poi certamente ci sono le malate in senso letterale, di tumore, ognuna con la propria storia (sempre diversa, di attesa, speranza, delusione, paura, sconvolgimento).

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 08:25 da Barbara Gozzi


Letteratura e morte. Letteratura e malattia.
Credo che sia un essere sorelle.
Forse si scrive sempre e soprattutto per dimenticare la morte. Per lasciare segni indelebili, tracce che , sì, ci siamo stati, noi, col tentativo di superare il nostro finire.
Anzi, c’è proprio un filone , direi, di romanzi o racconti, scritti sull’onda di un evento grave (malattia, guerra) che rende l’essere umano precario, consapevole dell’urgenza di raccontarsi, in un attimo solo attaccatisimo alla vita, proprio quando è sul punto di perderla.
“Le memorie di Adriano” della Yourcenar, cosa sono se non il testamento spirituale di un uomo che fa i conti colla posta d’anni trascorsa, che cerca d’afferrare il senso della sua esperienza, e che dal passaggio su questa terra trae insegnamenti universali?
Ecco, forse scriviamo sempre il nostro testamento. Con toni e modi diversi, certo. Con più o meno consapevolezza.
Ma nella scrittura tanto più forte è il senso dlla perdita imminente tanto più potente è lo sfogo, lo zampillo del cuore.
Non a caso il “Gattopardo” è stato scritto negli ultimi mesi di vita di Tomasi di Lampedusa ed è dominato da un senso dell’essere e del finire sempre incombente.
Ma gli esempi sono moltissimi, dalle grandi epopee ai romanzi moderni.
Da ultimo l’ha fatto Sandro Veronesi con “Caos calmo” dove l’esperienza della morte della moglie è vissuta come un percorso, strano e inusuale, che porterà al superamento del lutto.
Ma in fondo anche i gialli o i noir si confrontano colla vittima e l’assassino. Con chi rimane in vita e chi sottae un alito.
E in “Paula” di Isabelle Allende, l’autrice premette di scrivere per “distrarre la morte”.
Anche una mia carissima amica scrittrice lo dice sempre :”scrivo, perchè finchè non ho terminato questo romanzo, non posso morire”.
Credo che sia profondamente vero. La morte ci mette innanzi all’urgenza di risolvere il mistero del nostro esserci, di afferrare il significato (rimandato, sfiorato, vagheggiato) della nostra esistenza.
Per questo il nesso è fortissimo anche con la malattia. Perchè anche questa condiziona la nostra percezione della fine e ce la rende più prossima. Anch’essa nasconde palpitanti:”perchè?”
Il grande maestro (oltre Leopardi) credo sia Proust, che dalla fragilità della sua condizione ha edificato uno svettante edificio di parole, dove la vita è sublimata come ricordo proprio perchè sfuggente, leggera, tanto inafferrabile da non poter che costituire un vagheggiato “tempo perduto”.
Ma la guarigione è possibile? La salvezza esiste?
Credo che la guarigione sia lo stesso scrivere. E la salvezza approdare alla letteratura come incanto dell’anima e dei sensi, come unione imprescindibile con l’intimità della nostra essenza più vera: quella spirituale.
In questo senso scrivere, pur non potendo prescindere dall’idea della morte, è già un superamento e un rinnovamento. Che non elimina i dati imprescindibili della nostra finitezza ma li trasforma in canto.Che non sempre approda a una risposta. Ma parte come ricerca.Un vaiggio. Nel quale invitiamo sempre altri viaggiatori.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 08:31 da Simona


@ Massimo : grazie a te per il post che tratta temi che (sai) a me cari.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 08:40 da Barbara Gozzi


Difficile parlare di morte, ma ancor più difficile ascoltare la morte e le sue angosce, le sue domande e le non risposte.
La scrittura come strumento terapeutico, quasi come il ‘coltello’ di David Grossman, per scavare a fondo e riportare alla luce ciò che abbiamo perso o non sapevamo di avere.
La scrittura come guarigione, come scrive Simona.
In questo senso credo siano da leggere – se si vuole, se si pensa sia utile a sé stessi e ’sopportabile’ – i libri che trattano di morte e degli aspetti uniti ad essa.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:27 da Morena Fanti


@Silvia Leonardi. Oggi mi è arrivato il tuo romanzo, presto comincerò a leggerlo.
Sul tema della morte in letteratura: non ho letto i libri presentati quindi vado sulle generali.
La morte e l’eros sono trai i temi più ricorrenti in letteratura, i cui allegorismi etici e simbolici presentano diverse valenze. Penso al Foscolo, a Malerba di “Vedere l’erba dalle parti delle radici”. La peste del Manzoni nei Promessi sposi. La morte accettata o temuta emerge spesso in letteratura; la morte come evento purificatore o castigo di Dio. L’ultimo, straordinario libro che ho letto sul tema della morte( e che non avrei mai voluto leggere) è quello della mia carissima amica Morena Fanti: “Orfana di mia figlia”, non un romanzo ma la testimonianza reale di una madre che ha perduto l’unica figlia che aveva. Un libro forte e violento come un pugno sullo stomaco. Violento, come violenta è la mano crudele che cala a ghermirti una figlia di ventiquattro anni prossima alla laurea. Quando muore un figlio la vita si ferma. Sentimenti alterni ed emozioni forti, dolore e angoscia. Ma non solo. La storia di una vita spezzata, anzi di tante vite spezzate. Una famiglia che vive serenamente fino a quando un banale incidente stradale non le ruba la cosa più preziosa: l’unica figlia. L’unica adorata figlia. In questo libro si scorge sempre uno spiraglio, un filo sottile di luce che penetra le tenebre e fa sperare in una risalita. La storia del primo anno dopo la morte di una figlia tanto amata è una storia dura, una pugnalata al cuore, ma è anche una storia di rinascita e di positività. L’autrice ha scritto le emozioni di questo libro nel momento in cui le viveva e ciò rende tremende le sue parole, proprio perché così profondamente vere. Morena racconta il suo calvario con lucidità estrema, con straordinario lirismo, pagine intense, crudeli, terribili. Cala un velo negli occhi di quanti hanno perduto una persona cara e quegli occhi non riavranno più la stessa lucentezza.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:39 da Salvo zappulla


un tema delicato quello della letteratura legato alla malattia, tema che sento particolarmente poichè è anche attraverso la scrittura (ed attraverso il blog) che tento di trasformare in positivo il percorso che sto vivendo attualmente. insuperabili a mio parere gli scritti di Terzani, in particolare “un altro giro di giostra”.
scusatemi se sono di poche parole… in ogni caso sono pienamente in sintonia con quello che ha commentato Simona.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:40 da leucosia


Giuro. E’ solo una coincidenza, non ci eravamo messi d’accordo

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:41 da Salvo zappulla


Non ho letto il libro di Roth, ma ne ho letti diversi dei già citati Terzani e Veronesi. La morte non è altro che l’estremo atto del vivere, la sfumatura sta nel modo in cui si tratta. Comunque sia, l’esercizio di esorcizzare la morte è vero e reale in tanta parte di letteratura, ma anche di arte figurativa, scultorea, teatrale in genere. La pratica è tanto più sentita quanto più emergono le nostre fragilità di uomini. Affrontare quei muri che la morte ci pone davanti rappresenta il tentativo di sondarne il significato. Credo che – in genere- si abbia più timore del modo in cui si può morire che della morte stessa. E in questo rientra naturalmente la malattia e l’esercizio del tutto personale che ogni scrittore mette in atto per affrontarla.
Dice bene Simona, la scrittura stessa è guarigione. Tutto ciò che viene messo su carta è per placare ansie, superare timori. È come rinascere prima ancora di morire.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:50 da Silvia Leonardi


Giuro anche io che non avevo letto l’intervento di Morena Fanti! Abbiamo citato lo stesso passo dell’intervento di Simona!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:55 da Silvia Leonardi


@Salvo Zappulla
ne sono felice!! attendo tue “riflessioni”!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 10:56 da Silvia Leonardi


@Silvia. Mandami la tua mail.
salvozappulla1@virgilio.it

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:03 da Salvo zappulla


@ Morena
Leggerò il tuo libro, da quello che scrive Salvo credo sia davvero intenso e profondo.
P.s. “Che tu sia per me il coltello” è uno dei libri che amo di più!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:05 da Silvia Leonardi


Di qualcosa bisogna pur aver paura. Purtroppo gli occidentali hanno scelto una cosa necessaria alla vita stessa. Molti spendono tutti i loro giorni nel tentativo di allontanarla, di esorcizzarla, di dimenticarla.
Ci sono molti modi per morire ed i più gravi sono quelli nei quali si rimane in vita senza averne più il pieno possesso. La scrittura è un modo per vivere meglio. Esistono molti modi per vivere, ma è indispensabile decidersi sulla scelta.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:07 da Pasquale


@Pasquale, vero verissimo che la scrittura è un modo per vivere meglio!
grazie per averlo scritto…

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:10 da leucosia


@ silvia che scrive “La morte non è altro che l’estremo atto del vivere”:
Ho spesso fatto allusioni ai tuoi pregi estetici trascurando la profondità dei tuoi pensieri. Me ne dolgo. Un weekend intero, ma non di più, ti ha suggerito un’osservazione così profonda che manco Schopenhauer sarebbe stato capace di produrre in sì breve tempo.
Bravissima, sono fiero di conoscerti
:-)

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:27 da Enrico Gregori


anche secondo me pasquale ha ragione. soprattutto quando scrive che gli occidentali spendono tutti i loro giorni nel tentativo di allontanarla, di esorcizzarla, di dimenticarla (la morte).
sbagliano coloro che, nei precedenti commenti, dichiarano di rifuggire da libri che parlano di morte e malattia. questi libri devono essere letti, perché ci aiutano a liberarci della nostra superficialità che ci vuole ciechi e spesso poco sensibili

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:32 da luisa


dimenticavo di ringraziare massimo per questo post. davvero molto bello.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:32 da luisa


@ Enrico
sei spiritoso e divertente, per questo divido le mie pause caffè con te. Sappi che finchè Massimo posterà i suoi interessanti argomenti di sabato o di domenica, sarò in grado di intervenire solo quando persone più autorevoli e intelligenti di me avranno già detto quanto c’è da dire sull’argomento. Dovrai pertanto accontentarti di brevi perle di saggezza!
Se continui così, però, sarò costretta ad assistere al tuo “estremo atto del vivere”, quando berrai ( ti ho già minacciato, ricordi? :-) ) il caffè alterato col cianuro! Un caffè prima di morire, insomma…

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:41 da Silvia Leonardi


Il rifiuto verso talune dinamiche (circostanze, questioni, sentimenti) che ci feriscono nel profondo, ci terrorizzano, preoccupano all’ennesima potenza, aprono ferite profonde e turbamenti senza che li si possa, un qualche modo, sanare, calmare; questi rifiuti che coinvolgono spesso le malattie e la morte sono assolutamente umani. Esprimono le nostre fragilità. Diventa una sorta di ‘rimando’, annullamento temporaneo nella speranza di non doversene preoccupare in futuro (cosa che, di solito, accade puntualmente). E in questo la letteratura penso possa essere uno strumento utile. Che diventa necessario quando il lettore è ‘pronto’ ad affrontare la tematica. Quando sa e accetta il dolore. Quando è aperto all’incontro con la malattia ed eventualmente la morte. Ecco perchè certi libri, come quelli citati in questo post, secondo me sono necessari in senso assoluto ma non lo sono sempre(ovvero in ogni periodo della vita del lettore). C’è, cioè, un momento in cui lo diventano, necessari, mentre prima possono solo infastidire o peggio non trasmettere (perchè è il lettore a non voler ‘ascoltare’, capire e scavare).

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 11:57 da Barbara Gozzi


@ Silvia
Grazie. Mi farà poi piacere sapere cosa ne pensi.

“Ci sono molti modi per morire ed i più gravi sono quelli nei quali si rimane in vita senza averne più il pieno possesso.” Molto bravo, Pasquale. Condivido in pieno. Vivere è un atto di grande forza e per compierlo in pieno non si dovrebbe rifuggire dalle altre sue componenti, tra cui la morte.
La morte esiste ed è giusto parlarne e chiamarla anche con il suo nome.
Avete notato come viene annunciata la morte di una persona nota al TG?
” ieri è scomparso…”
No, macché scomparso! Ieri è morto. Solo così si può dire.
’scomparso’ si dice di una persona che è andata nella foresta amazzonica alcuni mesi fa e da allora non se ne sa più nulla. Questo significa ’scomparso’.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:05 da Morena Fanti


“….Così non c’era giorno o notte, alla Rocca che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza; ch’io non ne intravedessi, in una striscia di luce o in un mucchietto di polvere, le imbellettate fattezze, ora d’angela ora di sgherra. Lei era la meridiana che disegnava sul soffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio; lei la tagliola che mi mordeva il calcagno; il mare di foglie che il sole tramuta in brulichio di marenghi; lei la buca d’obice, l’in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca.”
Dalla meravigliosa descrizione della morte di Gesualdo Bufalino in “Diceria dell’untore”- Sellerio Editore -Palermo.
Caro Sergio, non ho letto ” Una spirale di nebbia” 1966 di Michele Prisco, come immagino succederà anche a te, spesso si deve recensire volumi che non possiamo scegliere o non ci piacciono e si trascura ciò che si
bramerebbe leggere.L’aggravarsi della mia malattia, ha quasi azzerato le mie collaborazioni con le Riviste Letterarie, tuttavia la passione per la Letteratura, costituisce ogni giorno, una formidabile ancora di salvezza per vanificare il tarlo insidioso della morte.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:05 da M. Teresa Santalucia Scibona


Certo, Barbara. Questi libri sono assolutamente utili e qualcuno se ne accorge solo quando ci “sbatte” contro. Tuttavia è il senso del domani, la percezione del nostro futuro a determinarne il successo o l’insuccesso. Chi non spera non ha bisogno di alleviare l’angoscia della morte perchè prima non ha imparato a vivere. Non può essere il rimpianto a caratterizzare la nostra vita. Oggi ci sono e posso fare molte cose prima della morte che, in tal senso, sembra quasi smettere di esistere.
O.T.
Come sta il tuo piccolo ?

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:07 da Pasquale


Barbara, mi trovi d’accordo con te. C’è un tempo e un momento. E secondo me c’è anche un modo. Ci sono argomenti scomodi, come appunto la morte e la malattia, che trattati con rispetto, sensibilità, dolore e paura se vuoi, diventano strumento di riflessione, di accettazione o più semplicemente di consapevolezza. Poi c’è il modo cruento, troppo esplicito, snaturato, di affrontare questi temi e allora è facile restarne infastiditi e chiudersi al messaggio.
Poi, è chiaro, molto dipende dalla nostra indole e da ciò che -in quel momento- viviamo.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:11 da Silvia Leonardi


a proposito di malattia/morte c’è un libro che per me fu una botta nello stomaco…Paula di I.Allende. (che poi alla fine si traduce in un inno alla vita).

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:12 da leucosia


‘Oggi ci sono e posso fare molte cose prima della morte che, in tal senso, sembra quasi smettere di esistere.’
Sacrosanto caro Pasquale.
E ti dirò di più.
Io aggiungerei: oggi ci sono e posso fare molte cose per te prima che la malattia ti tolga tutto e anche dopo, fino alla morte.
Ho avuto alcune esperienze in tal senso e lo considero un mio personalissimo principio fondamentale. Oggi ci sono. E se tu, che sei vicino a me (come amico, parente, conoscente, vicino di casa o quello che vi pare) stai affrontando la malattia o addirittura la morte, ecco allora sappi che io ci sono. E’ proprio lì, in quei momenti, che secondo me si da il meglio (o purtroppo a volte, il peggio) di sé. Quando si deve guardare in faccia la malattia o la morte anche se attraverso gli occhi di qualcun’altro. Lì c’è la ‘grande’ scelta. Guardare altrove, essere assenti o distratti oppure. E in quel ‘oppure’ c’è un mondo di presenze, manifestazioni affettetive, gesti pratici e consapevolezze.
Ecco perchè, per me almeno, affrontare un libro ‘doloroso’ può anche diventare un momento per darmi lo spazio per crollare, entrare nel dolore, lasciarlo uscire, fluire liberamente. Per non andare troppo lontano, quando lessi in autunno ‘l’ora dell’incontro’ mi sono tornati addossi vari momenti passati che ancora non avevo accettato del tutto, oltre a tutta una serie di paure che tutt’ora mi porto in giro. E l’ho letto assaporandolo. Perchè ci ho sentito ‘qualcosa’ a me vicino (e quindi soggettivo, per carità).
OT: mio figlio ha due anni e si deve essere preso un’influenza da stagione con annessa febbre. Aspetto oggi pomeriggio per portarlo dal pediatra. Grazie Pasquale per l’interesse. ^ _ ^

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:22 da Barbara Gozzi


Saluto tutti, entrando in questo blog per la prima volta. Sono Giampiero Rigosi, l’autore di uno dei tue romanzi usati per promuovere la discussione. Essendo l’autore del romanzo, forse dovrei tacere, sia sul romanzo stesso che sul tema, perché in entrambi in casi non posso che dire, peggio, ciò che ho cercato di dire nel miglior modo che mi riusciva attraverso il romanzo che ho scritto. Elektra mi chiede se ho scelto come tema la malattia per esorcizzarne il timore. Per me è difficile rispondere. Forse. Posso dire che a scrivere questo romanzo ho impiegato dieci anni, e che nel corso della stesura mia madre si è ammalata ed è morta, appunto, di tumore. Inevitabilmente la mia esperienza personale è entrata nelle pagine che stavo scrivendo, ed è probabile che – come credo accada sempre – scrivendo cercassi risposte alle domande che mi angosciavano. Domande che riguardavano la malattia, il dolore, la morte. Però – nonostante l’ironia di Enrico – concordo con quello che dice Silvia: la morte non è che l’atto estremo del vivere. Anzi, è di più. La morte, e la malattia, fanno parte della vita, ne sono un aspetto, e spesso un aspetto molto importante. Non solo è impossibile nascondersi, ma sono convinto che fuggirle sia rinunciare a una possibilità di conoscenza. La malattia è uno dei modi in cui corpo e mente – e, se si vuole, spirito – comunicano. E’ un linguaggio fondamentale, come quello dei sogni. Stare dalla parte della vita non significa, credo, stare non voler sentire parlare della morte o della malattia. Penso anzi che vivere pienamente significhi occuparsi di questi aspetti del vivere, sia che riguardino direttamente noi (o qualcuno a cui voigliamo bene) sia che riguardino persone a cui non siamo legati se non dalla parentela che ci accomuna tutti, cioè quella di essere esseri umani o, per estremizzare, esseri viventi (perché la compassione per il dolore di un essere vivente, anche non appartenente alla nostra stessa specie, mi pare un atto di grande umanità).
Scusate, forse mi sto dilungando troppo.
Ciao a tutti.
giampiero

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:39 da giampiero rigosi


Torno dall’università – vado all’ospedale passo per un caffè e manco me lo so ancora letto questo Roth manco ci ho r tempo per leggere l’altri commenti. Ma ho letto tantissmo di questo autore e speriamo quarcosa faccia…. Posso intanto dire che la recensione mi ha interessato e mi ha indotto a leggere pure sto Roth specifico. E posso pontificare un pochetto. Poi però prometto che leggo i commenti arretrati.

Non so se sono of topic o meno. Mi è piaciuto molto quel brano riportato da Barbara, sull’eredità che il figlio ebreo riceve dal padre morente. Mi ha fatto pensare – ho pensato che quest’eredità in Roth è costantemente ammessa e disconfermata nel suo lavoro/nella sua esistenza. Quanti libri di Roth parlano del suo rapporto con il padre del suo essere in antitesi con lui e allo stesso tempo qualcosa di lui? Che simbolica ha la religiosità familiare in tutto questo? Roth è uno scrittore odiato dalla falange ortodossa dell’ebraismo, e adorato da quella nevrotica e zelantemente autocritica dell’ebreaismo assimilato. per questo fatto di continuare a dire, dei tallin non mi importa niente, mi importa della vita. Quanti romanzi? 25? 26? il pernio è sempre in una negazione dei tallin, del taled dei riccioli e dei nasi grossi. Ma la negazione ha sempre questo soggetto -l’ebraismo, che evidentemente trionfa e non muore mai. Il paradosso dell’ebreo assimilato.

Tornando al tema di quel libro e di quella frase. Quando muore una persona a cui siamo legati – c’è quest cosa del mondo simbolico, delle rappresentazioni che abbiamo legato a quel corpo. e la sua perdita è una perdita di una parte di se. Ma moltissimo, uno scontro con la metafisica. con il non essere, con il tremendo fatto heideggeriano che noi abbiamo senso perchè moriamo. Roth è uno scrittore molto storico, molto mimetico poco filosofico. Non so se perciò sentirò in questo libro (che voglio avere assolutamente) qualcosa di ulteriore a un’esperienza psicologica, come in effetti non l’ho sentito in un altro suo bellissimo libro “l’animale morente”. Il libro più bello e più metafisico sulla malattia e sull’esperienza della morte che ora mi viene in mente è “le intermittenze della morte” di Saramago.

spero mi esca qualcosa di meno stream of conshousness e più strutturato più tardi (un bel bel po’ più tardi)…. buona giornata a tutti:)

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:46 da zauberei


Ho appena terminato il libro di Rigosi, aspetto che si depositi sul fondo della mia coscienza per poi parlarne. Mi piacerebbe farne una lettura sul sito Bottegadilettura, collegato a Vibrissebollettino di Giulio Mozzi, con cui collaboro.
Intanto ringrazio Barbara per la sua bellissima recensione. Io non sono in grado di fare delle recensioni così compiute e profonde. Piuttosto mi sforzo di intercettare le spirali e i segnali che si alzano da quei depositi che forma il libro dentro di me. Cerco di decifrarne il senso, spesso mi aiuto aggrappandomi ai ricordi personali e a quelli dei libri letti.
Per ora posso solo dire che da quelle volute aeree si sprigiona un aroma per me del tutto nuovo, che certifica la freschezza del romanzo e della prosa dell’autore.
Io estenderei la riflessione dal tema della malattia e della morte al tema della famiglia e dei rapporti famigliari.
E’ un tema che è già stato affrontato più volte da grandi narratori stranieri (Roth, ovvio, ma anche Franzen e Eughenides per citare chi più mi piace) e che finalmente si affaccia anche nei autori. In particolare c’è una scia di autori più o meno esordienti di origine torinese, ad es. Cassardo, Pastore, che hanno trattato di questi legami in romanzi usciti nel 2007.
Anche qui c’è parecchio da discutere.

Paolo Cacciolati

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:51 da Paolo Cacciolati


Ho scritto un post così lungo che nel frattempo – non me n’ero accorto – era stato pubblicato quello di Barbara, che mi sembra dire cose molto interessanti. Vorrei solo aggiungere che il mio romanzo parla sì di malattia e di morte, ma anche di altri aspetti del vivere che – come dicevo – per me sono strettamente intrecciati a questi: vale a dire la passione, l’energia vitale, l’amore. Non esisterebbe la morte se non ci fosse la vita, non sapremmo (e spesso stoltamente non ce ne rendiamo conto) che esiste la salute se non sperimentassimo la malattia, né il benessere senza il dolore. Mi rendo conto che queste sono cose banali, scontate, ma non è tutto qui. Attraverso questa storia ho cercato di raccontare come spesso proprio la malattia sia un percorso che può portare alla felicità o a una qualche forma di conoscenza di sé.
Scusate: mi pento sempre immediatamente quando cado nella tentazione di spiegare cosa c’è dietro una storia che ho scritto. Come dicevo nell’altro post: le cose più interessanti che uno scrittore aveva da dire, le ha dette – ammesso che ci sia riuscito – nel racconto che ha scritto

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:53 da giampiero rigosi


riscrivo:
“che si affaccia anche nei NOSTRI autori…”
Paolo

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:53 da Paolo Cacciolati


@ Giampiero
il titolo del tuo libro è molto evocativo. E secondo me non guasta sentire dalle tue stesse parole cosa c’è dietro. In fondo è un libro cresciuto con te, attraverso le tue esperienze e i tuoi dieci anni di vita che gli hai dedicato. Mi sembra il minimo sentire il tuo punto di vista. Che poi ognuno farà suo attraverso parametri e sensazioni personali.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 13:06 da Silvia Leonardi


@ Paolo Cacciolati
Grazie per il tuo apprezzamento alla mia recensione, sono sempre molto critica quando scrivo per cui ho spesso l’impressione che non sia abbastanza. Comunque.
Nel caso posso esserti utile per Bottegadilettura, non esitare a contattarmi ( gozzib at tiscali.it).
Confesso di averlo davvero ‘amato’ questo libro di Giampiero, in un modo molto profondo.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 13:07 da Barbara Gozzi


@ Giampiero Rigosi:comperò il tuo libro, perchè ritengo che saper vedere nella malattia un mezzo per conoscere la vita sia un’affermazione da condividere e molto inusuale di questi tempi.
In cui l’uomo non accetta la sofferenza nè la carica conoscitiva che essa possiede. In cui parole come dolore, morte, fine, sono appena lambite e rimosse, mentre sono radicate in noi e ci completano, permeandoci di un mistero fitto, insondabile, afferrabile solo con l’accettazione piena e sofferta dei nostri limiti.
Ho seguito molti malati nella mia famiglia. Molti di essi li ho accompagnati al limite del loro viaggio.
Tutti si sono accomiatati come pionieri stanchi ma pronti ad affondare nel dopo.
Guardandoli varcare quel portico con sofferenza e fiducia, scrutandone gli occhi nel momento del trapasso, ho colto molta vita, molta speranza.
Ti seguo con stima su questo post e ti prego, non esitare a conversare. Perchè se anche il tuo messaggio è già contenuto nel tuo libro, resta un’esperienza unica per chi non lo ha letto ( e anche per i tuoi lettori) conoscerti e scambiare opinioni.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 13:11 da Simona


condivido le riflessioni profonde di francesca serra e silvia leonardi.
ho letto il libro di rigosi, è stata la prima lettura del 2008.
i primi capitoli sono davvero belli, c’è abilità narrativa, ma è la parte centrale del libro quella che “fa male”: nel senso che è cruda, vera (a imitazione del vero), profonda.
rigosi in realtà dice una cosa semplicissima: che la morte, rimossa oggi più che cinquant’anni fa (rimossa perché relegata: negli ospedali e nelle case di riposo) è perlomeno un problema di tanta gente che ci sfiora il gomito, mentre camminiano.
e c’è una bella frase (cito a memoria) a proposito della malattia che diventa prospettiva di morte: che bisognerebbe credere ai miracoli senza essere credenti.
mi scuso per la citazione imprecisa e buona continuazione.
(e buone cose massimo).

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 13:27 da remo bassini


@Giampiero Rigosi
L’interesse per il tuo libro c’è tutto e tu, se possibile, lo hai amplificato unendoti a noi. La presenza a mio modo di vedere conferisce un caratteri di onestà ai propri libri.
Ho frequentato la tua stessa “scuola di vita”, quindi capisco quello dici, ma proprio per il percorso di crescita e di conoscenza personale da te indicato devo dirti che, come ho già detto, ho imparato a considerare la morte come una dimensione normale, tanto quanto uno qualunque dei giorni della nostra vita. Piuttosto ho appreso il dolore profondo ed inguaribile di chi muore senza dolore e senza consapevolezza. Mi riferisco alle malattie della pische e della mente. In un istante la vita può essere azzerata nei ricordi e nelle prospettive, ma non una sola goccia di sangue, nessuna sofferenza, solo il nulla. Mi ricollego al tema dell’eredità ai figli. Essa deve essere fatta soprattutto di parole, pensieri, esperienze. Non darà loro agiatezza, ma gli conferirà le risorse per comprendere il continuum di nascite, di vite e di morti al quale assistiamo e forse viverlo con una certa dose di spensieratezza. D’altro canto l’uomo è un incidente per questo pianeta. Un evento improbabile. Per noi l’unica certezza.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 13:58 da Pasquale


@ Pasquale
ma sei…tu!!??

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 14:05 da Silvia Leonardi


Silvia volevo decontestualizzarmi per un momento…o meglio identificarmi visto che ho visto che il nickname genera delle resistenze

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 14:15 da Pasquale


Ho capito, solo mi hai sorpreso. Mi fa piacere che tu sia qui a partecipare a questo interessante post. In effetti dai tuoi commenti avrei dovuto capirlo…ma con il senno di poi è facile a dirsi!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 14:20 da Silvia Leonardi


OT
@ Pasquale / eventounico
io preferisco Pasquale in effetti, senza nulla togliere ai nickname che ‘vivono’ nella blogosfera.
A stasera!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 14:25 da Barbara Gozzi


@Morena, ti ringrazio. Soprattutto mi fa piacere di non essere risultare oscuro (steganografico… ;-) )

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 14:29 da Pasquale


Grazie Barbara. Magari ti chiederò un paio di consigli.
A presto.
Paolo

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:16 da Paolo Cacciolati


E’ vero: l’Occidente (ma ormai parlare di Occidente è forse limitativo) tende a rimuovere il pensiero della morte e della sofferenza, eppure allo stesso tempo avverto l’incombenza di una necrofilia sotterranea, inconsapevole, nella manipolazione del corpo per farlo apparire giovane, nella fascinazione per questi corpi eccessivamente smagriti (ancor più paradossali, a volte, nelle loro sproporzioni: arti sottili, ventri piatti e mammelle gonfiate), resi artificiali dalle pratiche chirurgiche. Assieme al rifiuto della malattia e della sofferenza fisica, poi, una cosa che mi colpisce è la paura e la conseguente negazione di ogni stato d’animo che non sia smaccatamente “ottimista”. C’è una sopravvalutazione dell’umore euforico, energico, allegro, in contrasto con quello melanconico, e temo che questo derivi da una mentalità efficientista alla quale è difficile sfuggire, e che tende a marchiare cone negativo e sbagliato tutto ciò che non risulta produttivo. Così quell’evidente assurdità su cui si basano i mercati economici (e cioè che in ogni caso – dai bilanci delle aziende private alle economie nazionali e sovranazionali – le cose vanno bene non se riconfermano i buoni andamenti degli anni precedenti, ma solo se li incrementano di una percentuale significativa) si estende alla mente e allo spirito degli individui, e finiamo per sentirci in colpa se “sprechiamo” il tempo anziché metterlo a frutto, se siamo di umore melanconico e incline all’ozio o al ripiegamento anziché energici e attivi. Personalmente non condivido questo pensiero eppure mi ritrovo spesso a farmene condizionare, anche se, come scrittore, dovrei avere una forte consapevolezza che solo nell’ozio (e intendo con ozio il gesto non produttivo: in questo senso ozio può essere anche fare una passeggiata o sedersi a guardare con atteggiamento contemplativo qualcosa: un paesaggio, una formica, il neo sul collo della persona che amiamo) nascono le idee davvero importanti. O nell’ozio o – e non c’è grande differenza – in un’attività manuale che ci distragga da quel costante e fastidioso ronzio che invade ogni istante della nostra giornata: preoccupazioni, desideri, ambizioni, preogetti per il futuro…
Nel romanzo che ho scritto le due protagoniste scoprono – sarebbe forse più corretto dire: vivono l’esperienza – che nella sofferenza psichica e nella malattia si nascondono possibilità imprevedibili: la felicità, l’amore, l’improvvisa illuminazione che permette di cogliere ciò che è davvero importante nella propria vita, il piacere, genuino e intenso, che si nasconde nei piccoli momenti che ogni giorno affrontiamo con colpevole distrazione. Alla domanda se può esistere un connubio tra “letteratura di morte e malattia” e “letteratura della speranza”, risponderei quindi di sì. O almeno, nel mio piccolo, ci ho provato.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:26 da giampiero rigosi


Ciao a tutti. Mi sento in “dovere” di intervenire.
Operazione di cancro al seno. Tubo di drenaggio che urtava un nervo. Tenuto un mese.
Toradol? No. Un po’ di vita. Il mio pc e un romanzo da scrivere.
L’ho scritto. E a differenza degli altri, pieno di ironia.
Io stessa ridevo mentre scrivevo.
E il toradol l’ho preso solo per dormire con meno dolore.
E’ una piccola testimonianza.
Un saluto

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:35 da stefania


Intervengo al volo per ringraziarvi tutti. Sono molto contento di come si stia sviluppando questo dibattito.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:44 da Massimo Maugeri


Maria Teresa Santalucia segnala la ‘Diceria dell’Untore’ di Bufalino, ed è il primo libro che avrei citato anch’io, un libro dove il perfetto equilibrio tra contenuto e stile narrativo lascia un segno profondo.
Poi Giampiero Rigosi ci scrive:
“La morte, e la malattia, fanno parte della vita, ne sono un aspetto, e spesso un aspetto molto importante. Non solo è impossibile nascondersi, ma sono convinto che fuggirle sia rinunciare a una possibilità di conoscenza. La malattia è uno dei modi in cui corpo e mente – e, se si vuole, spirito – comunicano. E’ un linguaggio fondamentale, come quello dei sogni. Stare dalla parte della vita non significa, credo, stare non voler sentire parlare della morte o della malattia. Penso anzi che vivere pienamente significhi occuparsi di questi aspetti del vivere,……….”.
Come non farsi venire in mente lo splendido testamento che Tiziano Terzani consegna al figlio con ‘La Fine è il mio Inizio’, dove questo stessa tema viene trattato con una mirabile serena (e molto “orientale”) accettazione della malattia e della morte come ineluttabili ma fecondi aspetti di un tutt’uno che è la vita stessa?
E’ un libro che personalmente ho trovato memorabile.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:45 da Carlo S.


@ Stefania
Qual è il titolo del libro che hai scritto? Perchè non ce ne parli?
La malattia vissuta con ironia è una prospettiva nuova, sarebbe interessante conoscerne la genesi.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:50 da Silvia Leonardi


@ Giampiero Rigosi
Caro Giampiero, hai fatto bene a intervenire. Ti ringrazio molto. Come ti ho scritto, in genere qui a Letteratitudine è possibile generare dibattiti – anche profondi – senza il rischio di cadere (e scadere) nelle risse. Se ciò avviene è grazie alla collaborazione dei frequentatori abituali di questo blog – gente in gamba e competente – che mi aiuta a portare avanti sia discussioni come questa, sia l’idea che (anche) su Internet si possa sviluppare qualcosa d concreto e utile. E bello.
Ne approfitto ancora una volta per ringraziarli.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:50 da Massimo Maugeri


@ Giampiero (again)
Ti avrei posto la domanda: quanto tempo hai impiegato per scrivere questo libro?
Hai già risposto: dieci anni.
Devo dirti che la sensazione è proprio quella di un libro molto meditato e dalla lunga gestazione, ma pieno di folgorazioni narrative.
Complimenti!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:54 da Massimo Maugeri


@ Stefania
Grazie per essere intervenuta e per aver raccontato in breve l’esperienza della malattia.
Hai energia da vendere! Ma questo lo sappiamo già.
;)

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:55 da Massimo Maugeri


(Off topic)
@ Pasquale / Eventounico
Hai fatto benissimo a “rivelarti”.
Bravo. Sei Pasquale, ma rimani sempre un Eventounico. :)

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 15:56 da Massimo Maugeri


@ Zauberei
Della presentazione di “Patrimonio” di Roth me ne sono occupato io. Ho scelto di riportare la frase relativa al lascito (patrimonio) perché, evidentemente, è una frase chiave (il perché l’ho scritto nella recensione).
Ti dico subito che “Patrimonio”, almeno per me, non è all’altezza di “Everyman”; ma ho anche specificato che “Everyman”, a mio avviso, è un capolavoro (in una passata recensione l’ho affiancato a “La morte di Ivan Il’ic” di Tolstoj, “Le intermittenze della morte” di Saramago, e “Il vecchio e il mare” di Hemingway).
Per quanto riguarda l’avversione del personaggio/alter ego di Roth (Zuckerman) nei confronti del padre, proprio in “Patrimonio” lo stesso autore raconta come tanta gente abbia colto erroneamente una sorta di corrispondenza autobiografica (che, di conseguenza, nega).

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 16:03 da Massimo Maugeri


@ Zauberei
Dimenticavo di dirti che un’altra cosa che Roth accenna in questo libro riguarda l’avversione di alcuni “ambienti” ebraici nei suoi confronti, proprio per i motivi evidenziati nel tuo commento.
Ciao

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 16:07 da Massimo Maugeri


rigosi ha scritto

Nel romanzo che ho scritto le due protagoniste scoprono – sarebbe forse più corretto dire: vivono l’esperienza – che nella sofferenza psichica e nella malattia si nascondono possibilità imprevedibili: la felicità, l’amore, l’improvvisa illuminazione che permette di cogliere ciò che è davvero importante nella propria vita, il piacere, genuino e intenso, che si nasconde nei piccoli momenti che ogni giorno affrontiamo con colpevole distrazione

in effetti è l’aspetto che più colpisce nel romanzo.
la felicità che può convivere in momenti così difficili.
ho un ricordo, che rispolvero.
una mia cara amica a cui, erano i tempi dell’università, fu diagnosticato un tumore.
la prima volta che la vidi (e non sapevo) ricordo che mi chiesi – stupidamente: ma perché questa sorride sempre?
sorrideva lottando, scoprii poi.
e viveva la vita con un’intensità difficile a dirsi.
provo a dire, ora.
un bar di torino, il cielo è grigio, ai tavolini tanti studenti che pensano ad esami e ad altro. entra lei, raggiunge gli amici e dice: che bello, ora mi faccio un bel tè.
Fu un grande insegnamento.
mi fermo e saluto

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 16:09 da remo bassini


un appello OT, e poi taccio.
da ragazzo ho letto molti libri di lev davidavic trotzkij.
in uno (ma quale?) TRotzkij racconta di un personaggio della mitologia russa che si presentava ai banchetti di nascite e morti
quando nasceva qualcuno, recitava canti tristi, perché diceva che iniziava la sofferenza.
in caso di morte, recitava con gioia, dicendo che la sofferenza era finita.
in entrambi i casi prendeva botte, e veniva allontanato
se qualcuno sapesse dirmi chi è questo personaggio…
buone cose

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 16:16 da remo bassini


Carissima Barbara e caro Massimo, vi scrivo frettolosamente perché oggi, il mio tempo, è un po’ complicato. Bello il vostro post e la presentazione.
Rispondendo a Massimo; penso che la Letteratura possa tutto, ristorare l’anima e “guarire” i corpi; personalmente, dalla mia esperienza di ammalata posso affermare, con estrema sicurezza, che gli unici periodi della vita in cui mi sono tenuta lontano dai libri, sono proprio quelli trascorsi a letto, nell’immbolità assoluta e alla dipendenza di tutti. Le uniche letture confortanti erano quelle teatrali; copioni e saggi sulla storia del teatro . Quando il mondo ti precipita addosso, non c’è cosa più difficile che concentrarsi su una storia . Alla lettura non puoi dare nulla e quelle parole meditate e pensate (così corrette e giuste) ti sono estranee, se non addirittura ostili. Per il teatro le cose, invece sono diverse; tu, ammalato e quindi con i tuoi limiti, ti concedi l’interpretazione dei personaggi, e ti si apre , anche se effimera, una possibilità.
Il mio amore per il teatro è nato fra le lenzuola.
Ciao, Miriam
Tornerò con più attenzione domani.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 16:20 da miriam ravasio


@ Giampiero: E’ vero anche quello che dici del’ozio, inteso come possibilità di regalarsi dei tempi, di respirare a ritmo lento, non assuefatto.
Una delle cose che mio nonno mi diceva della sua malattia era proprio questo. Che la dialisi gli aveva regalato tempo. Che in qualche modo la sua immobilità forzata era un’alleata.
Era nel tempo in cui la macchina muoveva – al suo posto – i meccanismi del corpo, il rigenerarsi del sangue , che lui risolveva sofismi, costruiva teoremi, risolveva equazioni.
Era un grande matematico e del tempo regalatogli dal suo corpo immobilizzato, trasse la gioia di edificare mondi e di contemplare regole dell’universo.
Alla fine del suo calvario giunse la notizia della sua nomina, honoris causa, all’università di Ancona. Ma era troppo tardi, lui era già spirato il giorno prima.
Tra le sue carte trovammo poi calcoli e calcoli, schizzi felici, glossati con intuizioni da poeta più che da fisico.
Ci ricordava che la vita riposa tra le stelle. Che nei suoi vuoti apparenti produce materia.
Che la gestazione di un teorema, come di un essere umano, richiede noia e amore.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 16:51 da Simona


Massimo mi dice: “Come ti ho scritto, in genere qui a Letteratitudine è possibile generare dibattiti – anche profondi – senza il rischio di cadere (e scadere) nelle risse. Se ciò avviene è grazie alla collaborazione dei frequentatori abituali di questo blog – gente in gamba e competente – che mi aiuta a portare avanti sia discussioni come questa, sia l’idea che (anche) su Internet si possa sviluppare qualcosa d concreto e utile. E bello.
Ne approfitto ancora una volta per ringraziarli.”
Anch’io vorrei ringraziarvi, Massimo per avermi invitato a queto blog, e anche Barbara, e le altre persone che partecipano. La mia istintiva diffidenza per il computer e per tutte le sue applicazioni (sono piuttosto antiquato riguardo a questo) cede qui a un ammirato stupore per la capacità da parte delle persone che fino a qui sono intervenute di scrivere cose profonde, belle, e di scriverle anche bene. Grazie, davvero. Anche per alcuni stimoli di lettura: ho già annotato sul taccuino un paio di libri che mi procurerò al più presto.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 17:12 da giampiero rigosi


@Giampiero Rigosi
Con la sfacciataggine propria di chi ha poco da perdere e molto da imparare allora ti chiedo: perchè non tornare, dunque ?

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 17:23 da Pasquale


penso inoltre che lo scrivere della malattia aiuti tantissimo, sia chi è malato sia chi ne è all’oscuro. all’inizio io non riuscivo nemmeno a pronunciare quelle due parole che la definivano, che da sole mi provocavano angoscia. pian piano l’ho superata, creando un bersaglio da colpire attraverso la forma scritta.
massimo ti ringrazio ancora per questo post, oggi mi ha aiutato a capire tante cose…

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 17:41 da leucosia


@ Giampiero: grazie per aver stimolato una discussione su argomenti “forti” come la malattia e la morte.
@ Stefania e a chi ha il coraggio non solo di convivere con gli aliti della nera signora ma di parlarne e di considerarla uno sprone a vivere pienamente: grazie. Mi fate vergognare del mio preoccuparmi e angosciarmi per nulla.
@ Sergio: è vero, il clima vacanziero mi ha allontanata un po’ ma sono qui adesso e quando non vi leggo o vedo che qualcuno non partecipa a una discussione sento la mancanza della sua voce… Sorriso italianissimo! :-)

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 18:03 da Maria Lucia Riccioli


@ Pasquale: penso proprio che tornerò, perché anch’io ho moltissimo da imparare e oggi ho fatto una piccola, importante scoperta.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 18:11 da giampiero rigosi


Forse qui, oggi, pur parlando della malattia e della morte, anche se subliminate dalla scrittura, abbiamo ricreato la piccola magia dei libri: renderci tutti un pò più felici.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 18:24 da eventounico


A Silvia,
magari ne possiamo parlare privatamente. Non é un vezzo. Assolutamente.
Massimo ha la mia mail
Grazie e un saluto
Stefania

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 18:31 da stefania


Ringrazio lo scrittore Giampiero Rigosi, poiché con tutti gli interrogativi che si è posto per inquadrare, nella complessa trama del romanzo, i numerosi problemi, che il malato e la sua famiglia devono affrontare con un evento che sconvolge la quieta vita normale.L’autore è riuscito ad illuminarmi su alcuni aspetti che non avevo considerato, in particolare su come parenti e figli vivono il disagio e l’impotenza per una persona cara che soffre. Chi ormai mi conosce, sa che tendo ad ironizzare nell’essere diversamente abile, (beata potenza ed evanescenza delle parole…) e tanto per non smentirmi segnalo sul tema un pensiero di Italo Svevo:-”Quando si muore si ha ben altro da fare che pensare alla morte”. Mi complimento per la bella recensione di Barbara, molto brava ed esauriente nel presentare gli aspetti più salienti e emozionanti del volume che riesce a coinvolgere anche coloro che ancora non l’hanno letto.Saluto tutti M. Teresa

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 19:12 da M. Teresa Santalucia Scibona


Anch’io, come Stefania, ho vissuto la mia malattia (un cancro al seno metastatizzato dopo anni) scrivendo. Sul mio blog, e rielaborando quel racconto “in presa diretta”, con la speranza che diventi libro. Perché sì, ha fatto bene a me e faceva bene a chi mi leggeva. Ho letto e sto leggendo un mucchio di libri autobiografici o meno su questi temi, (difficile comunque quando la malattia entra nella letteratura che non ci sia un pezzetto di vita vissuta alla radice), per questo ringrazio Massimo e Barbara per queste recensioni e per il dibattito interessantissimo che hanno provocato.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 20:01 da Giorgia


Ho perso un fratello nel 2001 per un cancro. Ho compreso l`inutilita` dell`ambizione e la fiacchezza di ogni aspirazione ( lui era una persona molto ambiziosa ).

Per questo e perche` ricordo la sua sofferenza passo. Non credo leggero` questi libri molto presto.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:07 da outworks110


Massimerrimo grazie:)

sto tema però almeno questi giorrni – mi intimorisce troppo. Nun je la fo per il momento ad andare oltre.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:48 da zauberei


@ Remo
Grazie per essere intervenuto. (Su lev davidavic trotzkij temo di non poterti aiutare)

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:48 da Massimo Maugeri


(off topic)
@ Zauberei
Ti invito ne “La camera accanto”

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:49 da Massimo Maugeri


Ringrazio tutti voi per i nuovi commenti e Giampiero per essere ancora intervenuto.
-
@ Miriam, Leucosia e Giorgia:
grazie a voi

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:51 da Massimo Maugeri


@ Giampiero Rigosi.
1. Tu l’hai letto quest’ultimo (pubblicato in Italia) di Philip Roth?
2. Ci saranno nuove presentazioni (in libreria) de “L’ora dell’incontro”?
2. Stai già lavorando a un nuovo libro?

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:53 da Massimo Maugeri


@ Zauberei
Però mi aspettavo un tuo intervento da psicologa (insomma, da addetta ai lavori).
I libri e la scrittura (sugli argomenti che stiamo affrontando) posso svolgere un ruolo terapeutico?

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 21:55 da Massimo Maugeri


Uh Massimo me pigli sul narcisismo me pigli!

La scrittura può aiutare molto e non aiutare affatto. La lettura può aiutare molto e non aiutare affatto. La malattia è uno scacco psichico che ha delle fasi, dei momenti delle necessità diverse. C’è certamente la grande necessità di mentalizzare di capire quello che succede. La psicologia non si sposta dalla filosofia, e la psiche sa che a ogni cosa della vita deve conferire senso – significazione. La psiche sa che ha bisogno di forza – certi assetti psicologici traggono forza dalla narrazione, e dalla lettura di narrazioni altrui.
Dettaglio poco decorativo ed estetico. Sono anni che si fanno ricerche con i pazienti di cancro negli Usa. Nei progetti che si seguono in ambito psicosomatico e fisiologico- si sta cercando di dimostrare che l’attività diaristica, la scrittura quotidiana dei propri vissuti di malattia e non, aumenta la produzione di difese immunitarie e difese dell’organismo. I risultati sembrano molto interessanti.

Non sempre però la narrazione aiuta. C’è il fatto che quando ci si ammala, non ci si ammala sempre da sani ed equilibrati psicologicamente. Un certo tipo di narrazione può essere lo strumento con cui qualcuno si attorciglia nel baratro – magari un baratro molto estetico per altri lettori – l’autolesionismo e la cupezza alle volte sono terribilmente chic – ma possono anche condurre a un suicidio indiretto. Magari mentre questa scrittura che pensa di conferirsi senso guarda l’abisso vede il proprio abisso psichico incarnarsi in quello fisico, l’anima dimentica altre segrete energie del corpo.
Nella lotta contro thanatos – eros può avere altre risorse.

( e adesso perdonatemi se tocco legno, ma questo post è capitato casualmente in un momento di vita particolare)
scusate se sono andata off topic ma nun è colpa mia eh

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 22:51 da zauberei


Complimenti a tutti voi per questo bellissimo post. Non saprei cosa aggiungere, ma ho letto tutto con molto interessee

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 07:56 da Martina


@ Zauberei e Martina
Grazie!
Aspetto nuovi interventi (anche se vi potrò leggere solo stasera)
-
Barbara, se puoi torna (baci al piccolo)

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 08:07 da Massimo Maugeri


Eccomi.
E’molto interessante quello che scrive Zauberei. E se qualcuno avrà voglia o modo di leggere ‘L’ora dell’incontro’ un pò ci si ritroverà perchè anche Clara scrive, annota nel ‘quaderno dei sogni’ pensieri e stralci. Ed è una scrittura che spurga e apre nuovi baratri in un certo senso.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 08:21 da Barbara Gozzi


@ outworks110
Hai ragione e ti capisco.
E’un pò il discorso che si accennava ieri mattina. La necessità di una storia, una lettura però in un certo periodo della vita del lettore. Ci sono libri, secondo me, nati per essere abbastanza adattabili alle realtà di chi andrà a leggerli. Quelli di intrattenimento puro, per intenderci. Dove l’accento è posto nella trama, gli sviluppi, i personaggi, i colpi di scena. Dove l’obbiettivo e costruire nuovi mondi, insomma. Altri invece che provano ad andare più a fondo, inseriscono riflessioni o toccano comunque tematiche delicate. (Senza per questo volerne identificare categorie più o meno importanti.)
Del libro di Giampiero, per esempio, non ne ho ancora parlato con mio marito (ma proprio mai) perchè ha perso suo padre ormai un anno fa con una forma di tumore praticamente fulminante. E io so, sento che non sarebbe in grado di affrontarlo in questo modo. Io, invece, sono riuscita a scrivere qualcosa sulla morte di mio nonno materno (tumore alla prostata) dopo circa nove anni dalla sua morte (a cui ho assistito).
Per cui.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 08:32 da Barbara Gozzi


Volevo ringraziare Giorgia e Stefania per aver condiviso con noi le loro storie. Grazie.
Alle volte è proprio ascoltando che si impara a fermare la giostra e riflettere.
Io credo molto nel tempo dedicato ‘all’ozio’ (come lo ha chiamato Giampiero) perchè è proprio quando riusciamo a smettere di correre che ci accorgiamo di cosa ci succede attorno. Dei dolori, i problemi, le difficoltà, le mancanze….
Conosco una famiglia che da anni combatte contro i tumori. Fu diagnosticato al figlio minore che aveva qualche anno appena di vita. E ogni volta che li vedo (di sfuggita in realtà) è come se qualcuno mi frustasse per ricordarmi di quanto invece io sia fortunata, di quanto certe persone sono in grado di affrontare con coraggio e determinazione situazioni difficilissime. Nel Natale’06 il nonno del bambino mi raccontò che gli ultimi esami erano andati bene (dopo tre cicli di chemio). Mi sembrava un miracolo. Il sette gennaio 2007 (lo ricordo come fosse ieri) è scoppiato a piangere per strada perchè la pediatra aveva sentito qualcosa di ’sospetto’ verso l’inguine. E i primi esami le davano ragione. Tutto da capo. Per la seconda volta. (adesso è alla terza recidiva).
Storie come questa e altre non si possono ‘ascoltare’ tra una corsa in macchina per arrivare al lavoro e la palestra (per fare due esempi a caso). C’è davvero bisogno di fermarsi e ascoltare. E lasciarsi andare anche a quei sentimenti che ci fanno stare più male.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 08:42 da Barbara Gozzi


Tornando alle domande proposto da Massimo in questo post.
C’è stato un altro libro che di recente mi è rimasto ‘addosso’, dove si parla di un’altra malattia.
‘Lo sconosciuto’ di Nicola Gardini (Sironi Editore).
In questo caso posso proprio dire che il libro mi è arrivato perchè ne avevo bisogno. Per provare a capire cosa succederà quando.
Nel libro di parla dell’Alzheimer. E’una testimonianza, in sostanza. Ma non solo. Nicola (che narra in prima persona) racconta il progredire della malattia su suo padre e lo fa svelando gli stati d’animo, le reazioni. Senza filtro insomma.
La letteratura non può rispondere a ‘certe’ domande. Ma può, in alcuni casi, generare condivisione e, forse, farci sentire meno soli e incompresi (perchè altri prima di noi hanno affrontato e ce lo fanno capire chiaramente). Con questo libro mi è successo più di una volta di pensare ‘ah, ecco. Infatti. E’proprio così.’. E non solo per i semplici eventi descritti. Proprio per i sentimenti che Gardini racconta (anche e soprattutto quelli meno ‘nobili’ ma pur sempre concreti di paura, rabbia, frustazione, desiderio di fuga o evasione, egoismo…)

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 08:53 da Barbara Gozzi


Ok,
per stamattina ho già contribuito abbastanza a deprimere tutti.
^ _ ^

Buona giornata!
B

@Massimo (baci anche alle tue piccole)

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 09:07 da Barbara Gozzi


@ Stefania
Comprendo benissimo. Grazie. Chiedo la tua mail a Massimo.
kiss

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 09:27 da Silvia Leonardi


Rispondo alle domande di Massimo:
L’ultimo di Roth non l’ho ancora letto ma è tra le prossime letture: Roth è uno dei miei autori preferiti e non posso certo perdermi questo libro, dopo l’ottimo “Everyman”, divorato in un giorno.
Ci saranno altre presentazioni del mio romanzo: per esempio giovedì sera, alle 20,45, sarò a Bolzano, al Café Plural (Piazza Parrocchia, 19), e martedì 23 alla biblioteca di Casalecchio (vicino a Bologna), alle ore 18. Comunque chi fosse interessato può seguire le varie presentazoni o incontri sul miio sito: http://www.rigosi.net.
Rispondere all’ultima domanda è un po’ più complesso. Ho cominciato a scrivere un romanzo (sarebbe più corretto dire: ho ricominciato) che avevo iniziato un po’ di tempo fa. Poi mi sono un po’ arenato e contemporaneamente sono venute fuori – mi si sono imposte – alcune scene di un altro romanzo ancora, corale, al quale lavoro da tanti anni e da una cui costola è nato “L’ora dell’incontro”. Quindi, oltre naturalmente alle sceneggiature a cui sto lavorando, per il momento porto avanti due romanzi: sono io stesso curioso di scoprire quale dei due si imporrà con maggior forza.
Ancora grazie a Massimo per avermi invitato, a Barbara per aver condotto la discussione e a tutti per le riflessioni e gli spunti davvero stimolanti che sono scaturiti da questo post.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 11:51 da giampiero rigosi


@ Giampiero
vorrei chiederti cosa è cambiato in te (se qualcosa è cambiato) nei dieci anni di scrittura di questo libro, come si è evoluto il tuo pensiero sull’argomento. In sostanza, se sei partito con un’idea per giungere a conclusioni magari inaspettate. O se esperienze che hai fatto in quel periodo hanno cambiato le tue prospettive.
grazie

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 12:23 da Silvia Leonardi


Assolutamente sì. Oltre al fatto, ovvio, che la vita procede e ogni cosa che accade ti modifica e riverbera in tutto quel che fai, nella tua scrittura, nel romanzo che stai scrivendo, penso che scrivere un romanzo sia un’esplorazione in un territorio per la maggior parte ignoto: la tua interiorià. Poi, anche se io tendo a pianificare i punti più importanti della storia che sto scrivendo, mi mantengo sempre aperto ai suggerimenti che la storia stessa, o la vita, mi danno. Se usi tanto tempo e tante energie per scrivere un romanzo, lottando con i dubbi e i timori sulle tue capacità di arrivare in fondo, finendo per pensare ai personaggi che popolano la tua storia come a persone reali, credo che ti sostenga qualcosa di molto profondo, qualcosa che ha a che fare con dei nodi che ti porti dentro e che cerchi di esplorare attraverso la vicenda che stai raccontando. Penso che ciò che ti spinge ad andare avanti siano proprio le domande che ti fai e che ti appartengono profondamente. Attraverso la storia che stai inventando rifletti così su te stesso e in questo modo il romanzo che stai scrivendo, le esperienze potenziali dei personaggi che hai inventato, ti fanno scoprire qualcosa di te e ti cambiano. Accade poi, curiosamente, che mentre scrivi la vita reale si intrecci con le vicende immaginarie che hai inventato, e che quel che ti accade abbia degli strani rimandi con ciò che stai facendo accadere sulle pagine del romanzo. Allora pensi che quella storia non ti ha scelto a caso e ti viene da pensare che in quel momento della tua esistenza avevi bisogno di scrivere proprio quella storia, che quella storia faceva parte del tuo destino molto prima che decidessi di scriverla e che era un appuntamento al quale non avresti potuto mancare. Ma questi sono pensieri di alcuni momenti. Non sempre la vedo in modo così deterministico. Una cosa è certa però: che sia stato per la storia che stavo scrivendo o per quel che mi è accaduto nella vita, le idee sui temi che stavo trattando nel romanzo sono molto cambiate nel corso di questi dieci anni, così come sono cambiati i personaggi, costringendomi a parecchie modifiche al testo e numerose revisioni.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 13:17 da giampiero rigosi


@ silvia:
complimenti. una domanda che farebbe Marzullo in overdose da lambrusco

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 13:38 da Enrico Gregori


@ Giampiero
mi trovo in perfetta sintonia con le tue parole, soprattutto quando scrivi che “quella storia non ti ha scelto a caso e ti viene da pensare che in quel momento della tua esistenza avevi bisogno di scrivere proprio quella storia”. Anche se non può definirsi un dictat, è un pensiero reale il più delle volte.

@ Enrico
Vedi che brava? e non ho avuto bisogno di labrusco o strane sostanze!!
sobria sono (da leggere stile “montalbano sono!”)!

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 14:40 da Silvia Leonardi


@Giampiero
Se mi permetti, volevo confrontarmi con te su un punto.
Quando leggo non riesco a leggere un solo libro alla volta, sento continuamente il bisogno di sentire altre voci. Così ho libri sparsi in tutte le stanze della casa, ognuno con un suo segno. Poi li riprendo ed ogni volta in un ordine casuale. Quando scrivo, sia pure limitatamente ad un numero minore di soggetti, mi comporto nello stesso modo.
Per ricontestualizzare preparo delle “mappe” del luogo, degli interpreti, a qualcuno metto accanto un attributo comportamentale o caratteriale di quel momento (es. nervoso, triste, dubbioso, ecc.) così da poter visualizzare dov’ero prima ancora di rileggere il testo. Cosa che faccio più volte. Esistono delle eccezioni, però, nelle quali la storia mi “chiama”. Mi alzo, dunque, dal letto (ad es.) e vado a scrivere di getto quello che la storia stessa mi sta dettando in quel momento. La poesia si manifesta sempre in questo modo. Poi rileggo, rileggo.
Ti andrebbe di raccontarci il tuo approccio ?
La domanda la pongo a seguito dei tuoi commenti precedenti (10 anni, più storie, più soggetti, ecc.).
Solo se ne hai voglia, però.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 14:57 da eventounico


@ tutti
Se volete farvi un’idea di come “un ammalato, suo malgrado” può reagire al suo destino, leggete il Diario di Frida Kahlo e la biografia scritta, su di lei, da Hayden Herrera. Due testi, fra i più importanti della mia libreria; quasi una cura psichiatrica. Ma, se decidete di avvicinarvi alla vita infernale di Frida, dimenticate i miti, le sciocchezze da salotto che su di lei sono state scritte. Dimenticatevi il fascino erotico di Frida, la sua bellezza, la sua eccentricità e soprattutto il suo (solo suo, perché l’altro di lei se ne fotteva altamente) amore per Diego Rivera. Da quei libri ho imparato molto e in particolare ne ho tratto la forza per affrontare la mia vita, la solitudine di chi soffre e il destino che ti aspetta sempre solo, più o meno a Samarcanda! La “bellissima” (perché estetica e non umana) introduzione di Carlos Fuentes al suo diario è la più grande “stronzata” di un uomo d’arte e di cultura può scrivere a proposito del dolore. “Frida Kalho aveva un cane di nome Dolore, più che un dolore di nome Cane. Lei descrive il suo dolore, non ne viene ammutolita, il suo dolore è articolato perché acquista una forma visibile e sensibile. Frida Kahlo è tra i più grandi narratori del dolore…” Queste “belle” parole ci appagano e ci rimandano l’immagine di una donna eccezionale, che eccezionale è stata veramente. Ma non c’è onestà nell’appropriarsi della vita di chi soffre per ricamare o circumnavigare nei pensieri nostri, dei lettori e degli editori. Frida voleva Amore e lo rivendicava come un diritto di chi lotta con un corpo stretto in condizioni rigide, e sempre pronta al volo. Io non leggo libri sul dolore, io AMO e pratico l’amore come un esercizio naturale e quotidiano per la sopravvivenza.
@ za, mi farebbe piacere conoscere la tua opinione.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 15:16 da miriam ravasio


@ eventounico
il mio approccio assomiglia moltissimo al tuo, e non saprei descriverlo meglio di quanto hai fatto tu. Anch’io, fin da bambino, ho letto diversi libri contemporaneamente, tutti con i loro segnalibri dentro, e questa cosa di riuscire a stare dietro a diverse storie si è rivelata molto utile quando scrivere è diventato il mio mestiere: così passo abbastanza facilmente da una scenaggiatura a un romanzo, al soggetto per un futuro film, a un radiodramma… Poi anche a me a volte capita che si affacci una scena, un dialogo o anche solo un’idea che devo con urgenza “fissare”. E allora gli appunti presi su foglietti volanti o le ore rubate al sonno (tanto di dormire quando hai un’idea che ronza in testa non c’è verso) o gli appunti vocali registrato al volo sulla poca memoria del cellulare mentre stai guidando in autostrada.
E’ interessante il tuo metodo per ricontestualizzare rapidamente l’umore o l’atteggiamento: ma si riferisce a come ti sentivi tu nel momento in cui hai sospeso la lavorazione del testo?

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 15:24 da giampiero rigosi


@giampiero
Indico l’umore o l’atteggiamento del personaggio nel momento in cui ho sospeso la vicenda. Un tempo facevo degli schemi su carta. Dunque ogni volta era uno schema diverso. Poi ho cominciato a farli al computer. Solo, non tengo tutte le versioni. Non sono così preciso. Lascio l’ultima.
Trovo molto utile questo approccio nei due casi estremi: molti ambienti- molti personaggi e stesso ambiente-stesso personaggio. In tutte le situazioni intermedie è meno utile. Pensa cosa avrei combinato con l’Ulisse di Joyce.
Tornando al tuo romanzo, per non sembrare troppo OT, penso sia stato utile tenere sempre ben presente qual’era il quadro psicologico del momento.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 15:35 da eventounico


@giampiero
Ultima domanda e poi smetto di rompere altrimenti mi cacciano dal blog:
cosa pensi di quelle persone che si gettano nella depressione, malati realmente o meno, perchè hanno bisogno di arrivare al fondo per trovare la forza di risalire fino ad un punto più alto di quello di partenza ?
Trovi che siano soggetti interessanti in letteratura ?
Ti anticipo cosa penso io (per pagar pegno). Li trovo interessanti come “caratterizzazione”, ma non saprei, per miei limiti evidentemente, tenere in piedi una storia su uno così. Dovrei affiancarlo ad un soggetto realmente sofferente o realmente sano.
Mi taccio e ti ringrazio per la tua disponibilità.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 15:41 da eventounico


@ eventounico e Giampiero: Anch’io ho sempre letto più libri contemporaneamente e anch’io ho sempre con me un taccuino nero, fitto fitto, dove segno tutto ciò che mi colpisce.
Può essere una parola, un’inflessione dialettale, a volte anche una deposizione testimoniale durante un processo. “Rubo” dove posso, prendo come una ladra o una saccheggiatrice cose , fiati, volti che non mi appartengono. Poi diventano miei, ma ci vuole amore, perseveranza e molta buona volontà. Comunque anche a me accade, sorprendentemente, di “essere scelta” dalle storie e di cogliere da quel momento in poi nella realtà che vivo aiuti e ispirazioni per portarle a compimento.
Ovviamente nel tempo i gusti e il nostro cuore cambiano, perciò comprendo lo sforzo di adeguare i personaggi quando la gestazione di una storia occupa un lungo lasso di tempo.
Eppure questo dovrebbe essere anche un vantaggio, non credi Giampiero?
A volte il fascino dei personaggi sta proprio nella loro capacità di mutare come noi, di evolversi e offrire al lettore una chiave del loro cambiamento.
Direi che se non vi è trasformazione, non vi è neanche racconto.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 15:46 da Simona


ma qualcuno ha mai preso in considerazione l’ipotesi che possa scrivere un bel libro anche uno pieno di soldi, che scoppia di salute e tromba come un fagocero?

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 16:00 da Enrico Gregori


Uh grazie dell’invito Miriam – nel frangente saluto giampiero rigosi – di cui non ho letto il libro, ma penso che possa esser bello.

Miriam mi fai una bella domanda e dovrei non risponderti perchè io Frida famigerata non la conosco che superficialmente. sinceramente le parole dell’introduzione da te citate mi hanno fatto accapponare la pelle – hai talmente ragione che mi devo esser persa il barlume estetico della cosa.
Perciò se può essere terapeutica o meno non lo so – qualcosa mi dice che lo possa essere per alcuni e per altri affatto, un po’ come ho scritto sopra. Ma è una congettura che non merita molta attenzione.
forse potresti raccontare, e sarebbe anche in linea con questo post, perchè l’hai considerata tanto utile e salvifica.

Sul potere terapeutico della lettura io ho dei sospetti, ma riguardano altre circostanze esistenziali tutto sommato. La malattia relativamente di meno. in altri campi si, meglio na bella passeggiata.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 16:00 da zauberei


Tolstoj gregò -pe dinne uno.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 16:01 da zauberei


Ciao a tutti,
partecipo forse per la prima volta a una discussione su questo blog, che comunque conoscevo e ammiravo già. Complimenti.
Ho aspettato “L’ora dell’incontro” per molto tempo e poi, alla fine, l’ho affrontato: affrontato, perchè è un libro bellissimo, che però fa davvero male. E’ un libro che s’insinua sottile in te, va a scovare nella tua vita piccoli e grandi dolori che sai di non aver eliminato, che hai solo nascosto sotto un tappeto, tra la polvere. Quel dolore c’è ed ha una funzione. Essere parte integrante della VITA.
Ammetto di non leggere spesso libri di questo tipo, libri che parlino di morte e malattie, forse per uno sbagliato, inutile tentativo di fuga. Eppure, il modo in cui ne parla questo libro è diverso: non mostra la malattia e la morte come negativi della vita, tutt’altro.
Luci e ombre.
Come apparirebbe il mondo senza ombre?

Un saluto a tutti, penso che tornerò a trovarvi.
Faccio i complimenti a Barbara per la bellissima recensione. Anch’io ho recensito il libro, sul sito BorderFiction. Se vi va di darci un’ochiata, lo tovate in archivio.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 16:15 da Sofia


Non vi sono mancato per niente?
Nessuno ha sentito l’assenza del botolo Didò?
Non sono riuscito a leggere nessun commento, ho appena lasciato il Signor Telecom con un vaffanculo, volevo vedere se erano bloccate le linee di quel ciclostilato di parrocchia de “Il Messaggero” come le riattivavano subito! Greg, lo sai che scherzo, il “Messa” è il mio secondo amore (indovina tu il primo).
@Il dolore.
Il dolore me lo ha raccontato il mio grande, infinito maestro Gesualdo Bufalino. Il dolore dell’amore nel dolore; la smania dell’amore nel dolore; il racconto raffinato innamorante della malattia. La malattia non dolore ma compartecipazione, fusione e poi smembramento e poi, infinita delicata dolcezza: “Dicerie dell’Untore” – Il capolavoro.
@Silviuccia Leonardi,
anche per me era Pirandello, le parole che fanno pensare e in special modo “Il fu Mattia Pascal”…l’assenza/presenza; il “…si potrebbe andare tutti al proprio funerale…”
Oppure, l’elenco del telefono, la grandiosa epopea dei nomi che conteneva “L’elenco”. Che diavolo ci facesse Michael Berwicks a Viale Michelangelo a Napoli? Era un agente Cia? un ufficiale Nato, o il figlio di un soldato americano rimasto a Napoli afterwar?
Chi potesse essere Anna Mangiafico, vicolo Tofa, 6 – 403822? Una venditrice ambulante? Una cantante del San Carlo o semplicemente una massaia (puttana no, troppo semplice)?

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 16:43 da francesco di domenico


@ Francesco Didò
a me sei mancato…e se vai nella “camera accanto” vedrai che ho reclamato epressamente la tua presenza!

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 16:49 da Silvia Leonardi


Un saluto a Sofia, che mi vuole convincere e rileggere con più attenzione tutta la saga du Harry Potter.
@ eventounico: io credo che qualsiasi soggetto possa essere interessante. Penso che il risultato letterario dipenda da che visuale lo si osserva e da come lo si si racconta.
@ Simona: è assolutamente un vantaggio. Però può capitare (soprattutto se impieghi molto a scrivere un romanzo) che cambi tanto da non riconoscerti più in quello che stavi scrivendo. In questo caso, temo che l’unica alternativa sia lasciar perdere o – riprendendo quello che dicevo poco sopra a eventounico – cambiare l’angolo di visuale, trattare il tema e il soggetto in un altro modo, che ti rispecchi per come sei diventato.
@ Enrico Gregori: ma – a parte che si scrive facocero – chi ti ha detto che io non sia così? Ammesso che il mio sia un bel libro. Altrimenti potrei comunque essere uno pieno di soldi, che scoppia di salute, tromba cone un facocero, e scrive brutti libri.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 17:23 da Anonimo


Scusate, sono passato a un portatile e mi accorgo che il post poco sopra risulta inviato da un Anonimo: sono Giampiero Rigosi

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 17:25 da Anonimo


@ rigosi:
la “g” mi è sfuggita, sorry. per il resto, se tu fossi in cotal guisa, scrivere brutti libri sarebbe un male sopportabile :-)
@ didò:
a me sei mancato quanto un erpes tra le natiche

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 17:34 da Enrico Gregori


@enrico e giampiero
Scambiatevi una g (fagocero) con una m (cone) da bravi fratellini.
In sintesi mi state dicendo che sono obbligato a scrivere bei libri altrimenti divento il soggetto del prossimo di giampiero ? A patto, ovviamente, che trovi la visuale giusta…
Enrico non dire nulla ! :-)

Ed io che pensavo di doverlo fare per accontentare il mio demone…

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 17:48 da eventounico


Il prezioso aiuto di un editor che sa mediare! Trovare errori e indicare la strada migliore. Grazie, eventounico. Comunque sì: sarai costretto a scrivere bei libri, per entrambi i motivi.
giampiero

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 18:01 da Anonimo


@ Giampiero Rigosi
Ehehe,
e giampiero scoprì il blog…
Non hai nessun sacco da trasportare nell’isola ecologica? Mi sto apprestando a scrivere racconti funghetti e libri erasmici. Chissà.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 18:06 da Sofia


@eventounico
allora aspetta che ti mando anch’io un paio di cosette mie… i bravi editor sono rari e nascosti…

^ _ ^
Un salutone a tutti! Grazie Giampiero per i tuoi passaggi…

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 18:29 da Barbara Gozzi


Rigoni qualche riga sopra dice (cito a memoria) che mentre scrivi un romanzo la vita sembra intrecciarsi alla storia che stai narrando. C’è una teoria scientifica che tratta di questo, è molto interessante. Pare che scrivendo imprimiamo nel subconscio o se preferite rimandiamo all’interno alcuni pensieri che poi influenzano le nostre azioni. Al punto di farci agire in modo che quello che abbiamo scritto si avveri.

Sono venuta a conoscenzadi questa teoria molti anni fa.
Da allora sto molto attenta a quello che scrivo e soprattutto a come lo faccio.
:-)

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 21:21 da F. M. Rigo


@ Rigosi, eventounico e Simona: anche io!!! Leggo più libri contemporaneamente – e mia mamma: Ma come fai? Non ti confondi? – come la protagonista del delizioso Papà Gambalunga… è delizioso, (ri)leggetelo, specie le girls!
Scrivo tre o quattro storie contemporaneamente e casa mia è piena di fotocopie, libri, pizzini – traduco per i non siculi: pezzettini di carta, non necessariamente pieni di appunti di padrini – e schemi di romanzi.
Alcuni non vedranno mai la luce.
Ma uno scrittore è quasi un medium che non riesce a dare voce a tutti i fantasmi che gli cantano dentro…
@ Enrico, gentleman as always… Sergio, perdonami! L’anglais mi scappa perché mi piace e sono reduce da due ore di lezione su Churchill Tony Blair e William…
Enrico, torno seria. Per me la letteratura è sempre mancanza, incompletezza, come Eros figlio di Poros il bisogno e Penia la povertà…
Scriviamo per costruire il frammento di specchio che ci manca per rifletterci…
Beh, i facoceri ricchi e belli avranno qualcosa che gli manca!!! :-)

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:09 da Maria Lucia Riccioli


@ maria lucia:
hai fatto bene a specificare “torno seria”, altrimenti sarebbe stato impossibile accorgersene. grazie, da parte di tutti i facoceri
:-)

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:40 da Enrico Gregori


…e poi, vabbé che il padre di Roth è morto di cancro, ma aveva pure 86 anni. mica l’ha strangolato la baby sitter!

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:42 da Enrico Gregori


Rieccomi. Della serie: “meglio tardi che mai”.
Consentitemi di ringraziare ancora una volta tutti voi per i commenti. E in particolare Giampiero Rigosi per la disponibilità, Barbara Gozzi per la bella recensione e la co-conduzione del post ed Eventounico per aver “moderato” bene in mia assenza (grazie Pasquale!).

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:46 da Massimo Maugeri


@ Sofia
Ti do ufficialmente il benvenuto qui a Letteratitudine. Ti invito a tornare. E a sentirti a casa.

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:47 da Massimo Maugeri


@ Enrico.
Hai scritto: “ma qualcuno ha mai preso in considerazione l’ipotesi che possa scrivere un bel libro anche uno pieno di soldi, che scoppia di salute e tromba come un fagocero?”
Giampiero ti ha già risposto.
Zauberei ti ha indicato Tolstoj.
Proprio Tolstoj, come è stato detto, è stato – tra l’altro – l’autore di uno dei più grandi capolavori incentrati sul tema della malattia e della morte: “La morte di Ivan Il’ic” (romanzo breve che consiglio a tutti).
Aggiungo che lo stesso Philp Roth rientra a pieno titolo nella categoria da te citata, essendo ricco, piuttosto in salute (a parte qualche problemuccio) e un noto amatore. Mi risulta, inoltre, che abbia un gran senso dell’umorismo e la battuta pronta. Segno che si può essere spiritosi e avere comunque la capacità di scrivere opere d’arte del calibro di “Everyman” (su temi così forti e dolorosi).
Sulla veneranda età del padre di Roth avevo scritto sul post: “Perché un padre può anche avere ottantasei anni (età invidiabile) ma – per te figlio – non smetterà mai di essere padre, di essere colui che ti teneva per mano nelle tue passeggiate di bambino, di essere il depositario di ricordi e di esperienze famigliari che si perderanno con il suo trapasso.”

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:55 da Massimo Maugeri


Ciao, Maria Lucia,
…Eros pero’, nelle piu’ antiche teogonie, risulta nato direttamente dal Caos primigenio, assieme alla Terra sua sorella. Oppure, in altre storie, esce dall’Uovo Primordiale, che, generato dalla Notte, si divide in due pacche che generano a loro volta la Terra e il Cielo.
Va be’: Amor omnia vincit. Et Mortem.
Sergio

Postato martedì, 15 gennaio 2008 alle 23:55 da Sergio Sozi


@ massimo:
ho letto “La morte di Ivan Ilic”….grandioso!
non ho letto alcunché di Roth….recupererò!

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 00:02 da Enrico Gregori


@ Enrico
Come si evince dalla recensione, a mio avviso “Everyman” è superiore a “Patrimonio”. Da questo punto di vista ti consiglio di leggere il primo; ma come ho già fatto con altri amici a cui l’ho consigliato… ti metto in guardia. È un libro duro, che colpisce a fondo. Quindi, se non si è nello spirito giusto è meglio non affrontare la lettura (anche se so bene che per il lavoro che fai ne hai viste, e ne vedi, di tutti i colori… e immagino, dunque, che il tuo spirito sia rafforzato da una bella scorza protettiva).

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 00:07 da Massimo Maugeri


@ massimo:
grazie per il consiglio, partirò da Everyman. Sarò banale ma per me il requisito fondamentale è la scorrevolezza o, meglio, quella che per me è scorrevolezza giacchè nessun libro scorre per chiunque nello stesso modo.
quanto alla scorza protettiva, purtroppo o per fortuna, è pressoché impenetrabile

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 00:16 da Enrico Gregori


Adesso che ne ho l’ispirazione, vorrei esprimermi sul tema della benedettissima Morte che sta tanto a cuore a frotte di autori e comuni uomini d’oggidi’. Lo faccio pero’ come ”unicum”, che’ non vorrei dialogare, stavolta, ma soltanto affermare (mica l’uomo e’ un ”dialogante per forza” no? a volte sa dire e basta: rivolto al vento o a colui o a cos’altro gli stia vicino in quel momento. Senza desiderare risposte).
Ecco. Chiarito questo, procederei.
La Morte e’ l’argomento preferito, nell’Italia attuale, di queste principali categorie di uomini (e relative minime sottocategorie, per ora di secondaria importanza): i superficiali, gli improlifici, gli scrittori, i sacerdoti, i filosofi, i poeti, i paurosi e gli egocentrici. Solo costoro ne parlano pubblicamente, insomma, in un modo o nell’altro. Alcuni abitualmente.
Ora non so a quale di queste io appartenga, forse a nessuna, perche’, sentendo la sacralita’ e inscalfabilita’ della ‘’sostanza” dell’argomento stesso me ne allontano con un misto di rispetto e terrore. Forse dunque sto nella categoria dei ”bambini”, i quali capiscono istintivamente la stupida inutilita’ del parlarne, ma hanno in se’ tutta l’inconscia intelligenza della vitalita’ primitiva. La vitalita’ primitiva dovrebbe essere il nostro costante motivo di riflessione e meditazione, direi, dunque, perche’ solo dai bambini si impara qualcosa di vero. Il resto e’ falsita’, violenza, estraneita’ e raffinata cattiveria ”adulta”; e non sara’ certo permettendosi di ”prendere per la giacca” la Morte che essa risparmiera’ la nostra insulsa voglia di eterna gioventu’, di superficiale godimento della carne e di insensibilita’ alle altrui sofferenze.
Pensiamo piuttosto a far star meglio chi ci vive accanto. Alla vita, dunque, nostra e di chi vive in Italia. Il resto non dipende da noi: meglio una preghiera che cento riflessioni.
Naturalmente non alludevo a nessun commento di questo ”post”, era un’affermazione fatta cosi’, a prescindere dal vostro dibattito, che rispetto. Un’affermazione di principio, la mia, scarna e ”inoffensiva”. Tutto qua.
Cordialmente
Sergio Sozi

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 01:13 da Sergio Sozi


@ Sergio
Di morte l’uomo ne ha parlato da sempre, a prescindere dalla nazionalità. E sempre ne parlerà
Ne hanno parlato i classici greci e gli autori odierni, Dante e Leopardi, Foscolo e Goethe. L’elenco sarebbe lungo, ma mi fermo qui… rispettando comunque la tua opinione.
Ciao

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 01:19 da Massimo Maugeri


Parlavo solo di quelli di oggi, come ho specificato. Oggi secondo me e’ cosi’. Oggi.

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 02:09 da Sergio Sozi


(Prima era diverso: parlava di argomenti come questo chi ‘’sentiva e sapeva”. Come dici tu gia’ nel titolo del ”post” del Papa. Oggi, invece… Ma io parlavo senza giudicare, ripeto ancora. Se qualcuno si sente giudicato sono affar suoi, io non l’ho fatto).

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 02:12 da Sergio Sozi


Gli uomini di sapienza e retto sentire sono sempre stati pochi, lo so, ma solo costoro erano – nei tempi antichi, i tempi che contano qualcosa – abilitati a parlare, perche’ erano dei ”bambini sapienti”. Oggi e’ il contrario: solo gli stolti parlano di morte (e qualche inascoltato). Io non mi permetto di farlo. E basta. Se volete, fatelo voi: siamo in un Paese libero, vero? – tranne che per il Papa.

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 02:19 da Sergio Sozi


Scusate, ripeterei qui il mio primo ed ultimo modesto intervento in questa discussione, per evitare che venga a confondersi con il mio dialoghetto con Massimo. Eccolo. Fatene quel che volete. Io ho detto l’unica cosa che volevo dire e dunque tacero’.
”Adesso che ne ho l’ispirazione, vorrei esprimermi sul tema della benedettissima Morte che sta tanto a cuore a frotte di autori e comuni uomini d’oggidi’. Lo faccio pero’ come ”unicum”, che’ non vorrei dialogare, stavolta, ma soltanto affermare (mica l’uomo e’ un ”dialogante per forza” no? a volte sa dire e basta: rivolto al vento o a colui o a cos’altro gli stia vicino in quel momento. Senza desiderare risposte).
Ecco. Chiarito questo, procederei.
La Morte e’ l’argomento preferito, nell’Italia attuale, di queste principali categorie di uomini (e relative minime sottocategorie, per ora di secondaria importanza): i superficiali, gli improlifici, gli scrittori, i sacerdoti, i filosofi, i poeti, i paurosi e gli egocentrici. Solo costoro ne parlano pubblicamente, insomma, in un modo o nell’altro. Alcuni abitualmente.
Ora non so a quale di queste io appartenga, forse a nessuna, perche’, sentendo la sacralita’ e inscalfabilita’ della ‘’sostanza” dell’argomento stesso me ne allontano con un misto di rispetto e terrore. Forse dunque sto nella categoria dei ”bambini”, i quali capiscono istintivamente la stupida inutilita’ del parlarne, ma hanno in se’ tutta l’inconscia intelligenza della vitalita’ primitiva. La vitalita’ primitiva dovrebbe essere il nostro costante motivo di riflessione e meditazione, direi, dunque, perche’ solo dai bambini si impara qualcosa di vero. Il resto e’ falsita’, violenza, estraneita’ e raffinata cattiveria ”adulta”; e non sara’ certo permettendosi di ”prendere per la giacca” la Morte che essa risparmiera’ la nostra insulsa voglia di eterna gioventu’, di superficiale godimento della carne e di insensibilita’ alle altrui sofferenze.
Pensiamo piuttosto a far star meglio chi ci vive accanto. Alla vita, dunque, nostra e di chi vive in Italia. Il resto non dipende da noi: meglio una preghiera che cento riflessioni.
Naturalmente non alludevo a nessun commento di questo ”post”, era un’affermazione fatta cosi’, a prescindere dal vostro dibattito, che rispetto. Un’affermazione di principio, la mia, scarna e ”inoffensiva”. Tutto qua.
Cordialmente
Sergio Sozi”
S.S.

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 02:25 da Sergio Sozi


@ Sergio
Caro Sergio, come ho già detto rispetto la tua opinione. Secondo me, però, è ancora giusto e opportuno parlare di morte, soprattutto di questi tempi (dato che tendiamo a rigettarne l’idea più di ieri).
Tra i big di oggi, oltre Roth, ne ha parlato il Nobel Saramago (Le intermittenze della morte).

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 08:19 da Massimo Maugeri


Vero è che oggi la morte è un argomento abusato. Sangue e squartamenti a litri nei libri, nel cinema, al telegiornale. Un bambino vede più morti ammazzati di un monatto o di un becchino novantenne ai tempi della peste…
Come diceva Marguerite Yourcenar in “Colpo di grazia” – meraviglioso libriccino… ne sappiamo della morte quanto una zitella dell’amore, anche i più avvertiti e i più maturi tra noi.
Se scriverne vuol dire tentare di squarciare il velo, dare un nome e una voce al dolore senza compiacimenti insistiti, allora ben venga. Altrimenti meglio di mille secoli il silenzio.
Mi riservo di riparlarne.
Non è una minaccia!!!
;-)

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 10:04 da Maria Lucia Riccioli


@ za
Ti rispondo brevemente, anche se su Frida ho studiato e letto quasi tutto quello che è stato scritto.
E’ normale, per un ammalato, privato della normalità, investire nella malattia stessa; riparcisi un po’, è veramente umano. Frida della sua malattia aveva fatto il trionfo del coraggio e della provocazione, ma si rivolgeva ad un pubblico che stava in basso, che godeva le sue performance per nutrire la propria noia. Il suo amore non è mai stato corrisposto, nessun intrattenitore comprimario, con lei nella vita, solo spettatori. Per chiudere con il Talmud, nessuno le aveva insegnato a “guardare le montagne (o dio) dall’alto”
Ciao

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 15:19 da miriam ravasio


Cito un libro che ho pubblicato come editore, scritto da un debuttante, giovane e bravo. Si tratta di Qualcuino uccida mio padre (edizioni Il Foglio – http://www.ilfoglioletterario.it). Romanzo verità di scottante attualità sul problema dell’eutanasia vissuto sulla pelle dell’autore. Ho avuto l’impressione che il pubblico non voglia leggere storie di sofferenza…

Gordiano Lupi

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 16:59 da Gordiano Lupi


Caro Gordiano,
penso che tu abbia ragione (chiaramente non in senso assoluto). E’molto più comodo, rilassante, divertente e semplice leggere storielle di intrattenimento (che comunque hanno una loro ragione di esistere, secondo me, perchè non si può sempre bombardare la mente). Io comunque ho finito da poco il dramma teatrale ‘Love-lies-bleeding’ di Don DeLillo che tratta proprio dell’eutanasia, quindi ho già ‘ingrassato’ il mio ordine su ibs con la tua segnalazione…

Postato giovedì, 17 gennaio 2008 alle 20:13 da Barbara Gozzi


Precisazione: ‘chiaramente non in senso assoluto’ si riferiva alla frase di Gordiano ‘Ho avuto l’impressione che il pubblico non voglia leggere storie di sofferenza’. In pratica tentavo di scrivere che secondo me si, c’è spesso questa tendenza ma non si può generalizzare. Di certo c’è l’idea che meno si ’scava’ e meglio si sta (tanto, ho sentito dire spesso, ce n’è già abbastanza tutti i giorni di sofferenza e poi ci sono i tiggì, i reportage, i dossier, i supplementi dei quotidiani, le news on line, gli aggiornamenti in tempo reale, le interviste, i collegamenti… è un pò come ingozzarsi di gelatina alla frutta che da l’impressione di essere più che sazi anche se poi, a conti fatti, dei veri e propri principi ‘nutritivi’ non se n’è vista neanche l’ombra)

Postato giovedì, 17 gennaio 2008 alle 21:55 da Barbara Gozzi


Il post “mortuario” è morto così?
Ha ragione Barbara…
Però se ci fate caso la gente si interroga tanto sulla morte, vedi il successo di serie tipo Presenze o Medium…
o tutte le serie ospedaliere con codazzi obitoriali…
Lo sapevate che in Argentina c’è San La MUerte?

Postato lunedì, 21 gennaio 2008 alle 21:56 da Maria Lucia Riccioli


@maria lucia riccioli
Sì, lo sapevo e ti chiedo se anche in Argentina si festeggia la festa delle Calaveros, come si fa in Messico. La grande giostra degli schelettri: ironia, dolciumi e satira politica.

Postato lunedì, 21 gennaio 2008 alle 22:14 da miriam ravasio


Non lo so, chiederò ai miei cugini di Buenos Aires…
Comunque, dovremmo imparare la lezione degli antichi, per cui imparare a morire era il mondo migliore per imparare a vivere.
Lo dico per prima cosa per me, perché nonostante la fede, nonostante le letture e la riflessione temo come tutti credo la malattia, il buio, l’oblio. Ci sono dei giorni in cui tutto mi sconforta. E giorni grazie a Dio in cui passeggio per il cimitero e penso che la gente che è lì non è più lì ma ha avuto la grazia di partecipare al Mistero della vita, prima temuto e poi risolto in un abbraccio d’amore universale.
Scusate gli sproloqui mezzanottiferi…

Postato lunedì, 21 gennaio 2008 alle 23:46 da Maria Lucia Riccioli


[...] Un libro sulla vita e sulla morte. Per certi versi torniamo all’argomento già trattato nel post letteratura e malattia, letteratura e morte. Ora, voi potrete dire (e con ragione): ma che vuoi da noi? Perché ci devi tediare con argomenti [...]

Postato lunedì, 17 marzo 2008 alle 00:32 da Kataweb.it - Blog - LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » REMARE SENZA REMI. UN LIBRO SULLA VITA E SULLA MORTE


“Patrimonio” di Ph. Roth è un libro autobiografico bellissimo (come tutti i suoi libri). Comunque non è l’unico di Roth su vita e morte. Anche “Everyman” analizza l’ultimo periodo della vita del protagonista (non ricordo il suo nome), ammalato. Il romanzo inizia con il funerale del protagonistra, per poi andare a ritroso e raccontare tutta la sua vita. Per me il tema vita morte costituisce l’essenza di ogni individuo, anche se, a leggere i commenti di qualcuno, la morte è un argomento un pò troppo pesante. Io non credo a questo e, anzi, ritengo che ogni uomo si interroghi prima o poi sul significato dell’una e dell’altra.
Un altro bel libro sulla morte, ma molto ironico e divertente, è’ “Le intermittenze della morte” di Josè Saramago. E’ un romanzo surreale, in cui lo scrittore immagina un paese in cui, per un certo lungo periodo, la morte (rappresentata figurativamente come una donna)scompare dall’esistenza e in quel paese nessuno più muore. Ciò naturalmente creerà degli scompensi sociali ed esistenziali nella comunità. Gli abitanti sono costretti a portare i vecchi moribondi appena al di là del confine, per farli morire. La sua finale ricomparsa sarà ben accolta da tutti.
***
Vorrei inoltre aprire un’altra parentesi (in realtà non so se è il luogo adatto questo, soprattutto per ricevere delle risposte: è la prima volta che mi inserisco in un blog.) Per caso ho scoperto qualche giono fa che “La coscienza di Zeno” di Svevo contiene la medesima narrazione di un episodio (sberla del padre, che disprezza il figlio, protagonista del romanzo, come ultimo gesto prima di morire, in segno di definitivo ultimo disprezzo) narrato anche da Roth in “Zuckermann scatenato”.
Ora mi domando: ma Roth può essere accusato di plagio letterario o essendo passati così tanti anni dalla morte di Svevo, tutti gli episodi da lui trattati sono un c.d. “bene dell’umanità”, cui tutti possono attingere?

Postato lunedì, 12 maggio 2008 alle 19:02 da Elena


[...] pensavo continuamente ai due ultimi racconti di Philip Roth, “Everyman” e “Patrimonio“. Qualcuno ha scritto: il papa non deve preoccuparsi di Odifreddi e compagni, sono atei [...]

Postato giovedì, 4 settembre 2008 alle 16:54 da Kataweb.it - Blog - LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » L’ANIMA E IL SUO DESTINO



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