giovedì, 25 gennaio 2007
LA DISUMANIZZAZIONE SCOLASTICA (di Miriam Ravasio)
Miriam Ravasio, insegnante con esperienze di scrittura, mi ha inviato un interessante articolo dal titolo "La disumanizzazione scolastica".
Si tratta di una sorta di denuncia su alcune problematiche della scuola (con il coinvolgimento di tutti gli attori coinvolti: dai bambini, agli insegnanti; dai programmi, ai genitori). Ho pubblicato l’articolo convinto che possa essere oggetto di un costruttivo dibattito. (Massimo Maugeri)
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La comprensione di noi stessi è enormemente impoverita se non siamo in contatto con l’infanzia.
(R. Laing )
Ho riassunto nella citazione di Laing, lo stato d’animo che, qualche tempo fa, mi ha indotto scrivere un diario. A registrare con precisione meticolosa, per gli estranei sicuramente pedante, ogni lezione, ogni intervento. Tornavo a scuola dopo anni di altre cose, altre attività; ci tornavo nelle vesti di esperta in educazione all’immagine, ricca di un bagaglio formativo accumulato come grafica, scenografa e disegnatrice di costumi e animatrice di tante iniziative culturali. La mia personale esperienza scolastica era stata brutta e deludente, ma occupandomi dell’educazione di mia nipote le cose mi sembravano cambiate; i programmi aperti e ambiziosi nei loro obiettivi, le maestre preparate e disponibili ad aggiornare con armonia il loro lavoro. Come molti, e la stessa ultima statistica dell’Osce conferma, pensavo che i problemi fossero alle superiori, ma che la preparazione di base funzionasse in modo ottimo. O almeno bene, qui da noi al nord, dove gli amministratori, pur nei limiti dei bilanci, non negano soldi per progetti ed iniziative. Invece non è così; la scuola dell’infanzia sta nella società, come i bambini al pranzo di Natale. Carichi di doni, vestiti della festa, i bambini stanno seduti a parte, sazi e senz’appetito ascoltano il mangiare rumoroso degli adulti aspettando che il pranzo finisca, che il rito si consumi. Quella che si consuma nelle Primarie è una didattica fragorosa, dove ogni ministro ha aggiunto sempre del suo, nulla togliendo eppure tutto cambiando. Un caos incomprensibile che sovverte l’umano, un chiasso pedagogico equamente e correttamente distribuito fra programmi, programmazione, autonomia scolastica, personale insegnante e genitori.
Un mondo che si è svelato a poco a poco, e che, nella sua complessità ha dimensioni solo frammentarie, perché, nella scuola si è realizzato un processo di disumanizzazione. L’insegnamento è stato ridotto a disiecta fragmenta dalla didattica e dalla troppa pedagogia. Così, paradossalmente abbiamo una scuola iperattiva che non insegna più, ma espone nozioni che solo i più svegli, o i più seguiti a casa, fanno proprie.
Leggiamo poco, siamo volgari e ci perdiamo in celebrazioni ridicole, ci massifichiamo con felicità: siamo brutti, ma ci educano così fin da piccoli e la scuola fa la sua parte. La scuola bambinizza. La codificazione che si fa sistema, diventa semplificazione di tutto, della capacità di comprendere, di capire, di distinguere.
Il codice che diventa linguaggio formativo è coercizione; perché non rimanda al bagaglio della memoria, ma è azzeramento su cui, arbitrariamente si stabiliscono altri parametri di percezione.
“In tre anni ho lavorato in diverse scuole, sei plessi, trentun classi, cinquecentottanta bambini, un infinito numero di maestre e non so quanti disegni: non li ho mai contati, forse più di cinquemila. Tanti tantissimi, che preferisco non evocare perché mi disturbano il sonno, riaccendono il momento, rivivo la fatica e lo sfinimento entusiasta.” Con queste parole inizia il mio diario che in 27 capitoli ricostruisce il percorso dell’attività svolta; dalla presentazione dei progetti alla loro realizzazione. I temi sono legati ai luoghi, alle origini dei luoghi, alle parole dei “posti”che si fanno immagine, alla storia conosciuta o immaginata nelle sue umane manifestazioni, agli uomini, al lavoro e alle diverse percezioni nei tempi, all’ambiente come sillabario della memoria.
“Eppure alla fine di tutto, una stolidità caparbia si è imposta su quest’esperienza, che è stata letta solo nella sua fattibilità tecnica. Si è vista la realizzazione, la facilità dei modi, ma poca attenzione è stata prestata ai contenuti e soprattutto all’intento di fondo, che nei miei interventi è essenziale: l’educazione all’immagine. Immagine che è strumento di comprensione e conoscenza di ciò che siamo e di ciò che ci circonda.”
Lavorando fianco a fianco con le insegnanti ho condiviso la programmazione, interagito con le finalità didattiche, verificato quanto della società entra nella scuola. La stessa solitudine interattiva che caratterizza il nostro presente e che ci fa intervenire nei blog, ma ci impedisce una comunicazione diretta, nell’insegnamento diventa mancanza d’armonia. La scuola è come “un grande corpo con gli apparati funzionanti e in movimento ma con un difettoso circuito centrale. Come la creatura di Frankenstein, solo che nel nostro caso il mostro è più simile a quello di Mel Brooks, svagato e tenerone. Effetti involontari, nati accidentalmente dalla buona volontà e tanta voglia di fare.
C’è una scena in Frankenstein Junior, che è veramente esilarante, quando il Doctor e l’assistente scoprono il passaggio segreto che si apre sollevando una candela dal supporto a muro. Il Doctor che si ritrova imprigionato dall’altra parte, grida sillabando alla sua assistente “ri-met-ta a po-sto la can-de-la”, qualcosa non funziona e la porta continua a girare su se stessa, quando finalmente i due riescono a controllare il meccanismo, è l’assistente che ritrovandosi imprigionata, dall’altra parte impartisce a sua volta l’ordine “ ri-met-ta a po-sto la can-de-la”. Ecco, a volte, guardando i bimbi seduti davanti a me, mi aspetto che da un momento all’altro, si alzino e si rivolgano a noi usando a giorni alterni, solo parole che iniziano con la se, la da o la ta: “sedatavo”, come nel film.”
All’inizio di quest’avventura pedagogica mi è capitato un fatto sgradevole e grottesco, ma forse profetico. Una premonizione.
In una seconda, stavamo impostando il lavoro dei costumi e la maestra di turno voleva che una bimba rifacesse il disegno, perché a suo giudizio non era abbastanza bello, il foglio si era solo un po’ troppo spiegazzato e invitai la piccola a continuare. Dopo qualche minuto mi accorsi che l’insegnante aveva gettato il lavoro nel cestino costringendola a rifarlo. Cercai in qualche modo di riparare, tranquillizzando la bimba e recuperando il lavoro ma al momento di lasciare la classe successe l’imprevedibile. Nell’alzarsi dal suo banco, la bimba pallida e ancora scossa ebbe un rigurgito e un conato di vomito violento e spaventoso si riversò proprio nella direzione dell’insegnante sporcandole scarpe, gonna e borsa. Un vero colpo di scena! In quel gesto c’era tutto quello che poi avrei visto giorno dopo giorno. L’insensibilità, il pressappochismo, l’esaltazione, la paccottiglia psico-pedagogica dei programmi, l’ambizione dei genitori, la competitività delle insegnanti, la vanità dei dirigenti scolastici, la fragilità dei bambini.
Miriam Ravasio
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Miriam Ravasio si occupa di educazione all’immagine nelle scuole; un lavoro a cui è arrivata "per caso", dopo una vita dedicata alla moda e alla ricerca di immagini per abiti, tessuti e ricami. L’impatto con la scuola, e in particolare, con il frastuono pedagogico della didattica, è stato così forte e violento da indurla a scrivere (cosa in cui sono assolutamente un’autodidatta). Ha scritto un manuale dove racconta la sua esperienza. Alcuni capitoli sono stati pubblicati da Nanni Balestrini e Maria Teresa Carbone sul sito di Raizoom, 2002/2003. Sono capitoli divisi per tema che ricostruiscono tre anni di lavoro intenso, molto particolare e "irripetibile". C’é la scuola, l’universo infantile, il fragore sociale che dirompe nella didattica e nei rapporti, riflessioni sull’arte, sulle sue letture, pensieri pedagogici, morali.
L’articolo qui pubblicato trae spunto dal suddetto manuale.
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