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Archivio del 3 febbraio 2007

sabato, 3 febbraio 2007

CATANIA TRA LUTTO E VERGOGNA

*

Come catanese non potevo esimermi dal prendere posizione sulla tragedia che ieri sera ha investito la mia città.

Catania tra lutto e vergogna. Catania tra rabbia e incredulità.

Non mi soffermerò molto sulla cronaca. La conosciamo tutti.

In occasione del derby calcistico Catania–Palermo, a seguito di scontri tra bande criminali e forze dell’ordine, è deceduto il poliziotto Filippo Raciti, 38 anni. Filippo lascia la moglie e due figlie.

Questo il fatto più grave. Un morto. E un centinaio di feriti. Un vero e proprio bollettino di guerra.

Chi ha visto le immagini in Tv le avrà scambiate per scene da guerriglia urbana. Un quartiere messo a ferro e fuoco. Da non credere.

Sembravano immagini provenienti da Bagdad, o dal repertorio più aspro degli “anni di piombo”. Invece eravamo a Catania, in una serata del 2 febbraio 2007. Una serata che avrebbe dovuto celebrare il giusto orgoglio siciliano, perché le squadre di calcio delle due più importanti città si incontravano per disputare una partita del massimo campionato partendo da posizioni di classifica invidiabili (terzo e quarto posto). Invece la festa si è trasformata in tragedia. Una tragedia annunciata, ha detto qualcuno. E la tragedia ha generato morte.

È inaccettabile subire qualcosa del genere per consentire lo svolgimento di una partita di calcio. Questo il senso dei messaggi che sono giunti da più parti: dal mondo del calcio a quello della politica, dalla gente comune ai vip. È inaccettabile. E la rabbia si frammischia al dolore per la perdita di Filippo. E il pensiero va alla moglie e alle figlie che non vedranno mai più il marito e il papà. Perché Filippo doveva semplicemente contribuire a garantire l’ordine pubblico durante lo svolgimento di una partita di pallone. E invece è morto nel corso di uno scellerato attacco criminale. Filippo è un caduto di guerra. Solo che non sapeva che stava andando a combattere.

Catania, oggi, è al centro del mondo. Ne parlano nei network internazionali, ne scrivono sulle più importanti testate giornalistiche del globo. Fioccano le immagini di una vergognosa battaglia accompagnate da commenti sferzanti.

È dura essere catanese oggi. È difficile accettare che l’immagine della propria città – una città difficile, certo; contraddittoria – circoli solo come immagine indecente di avvenimenti incivili e scellerati.

Attenzione, però. La tragedia si è svolta a Catania, ma sono tanti i palcoscenici in cui lo spettacolo potrebbe ripetersi.

Il campionato di calcio si ferma. È giusto che sia così. Bisogna fare un esame di coscienza. Privato e collettivo. Bisogna interrogarsi sulle responsabilità, su tutto quello che si poteva fare e non si è fatto per evitare la tragedia.

Spero, però, che non si commetta un grave errore. Sarebbe troppo semplice, e semplicistico, additare ciò che è successo come mero male del calcio. Sarebbe semplice. E miope.

La tragedia di Catania si è consumata al di fuori dell’impianto sportivo. I protagonisti negativi sono stati gruppi di giovani, per lo più minorenni. E non uno sparuto gruppuscolo, ma un drappello consistente. Armato e organizzato. E che ha agito, molto probabilmente, in maniera premeditata. Bande di giovani criminali contro le forze dell’ordine. Gruppi di disadattati contro lo Stato. Se non si capisce questo, sarà impossibile risolvere il problema.

La nostra società è malata, signore e signori. E la malattia interessa una parte significativa delle cellule più giovani del suo organismo. Il calcio è solo un pretesto, un’occasione. Un’occasione di comodo, certo. Perché i giovani criminali possono travestirsi da tifosi e mescolarsi con la folla nella speranza di agire nell’impunità. Perché possono confondersi tra le fazioni di tifosi più estreme (che, al massimo, possono arrivare agli insulti e agli epiteti ingiuriosi).

Potremmo fermare il campionato di calcio per più turni. Potremmo bloccare l’intera stagione. Potremmo decidere che, da ora in poi, le partite di calcio si giocheranno a stadi vuoti e chi vorrà seguirle potrà farlo solo sulle pay tv (con grossa libidine e sfregamento di mani da parte di network televisivi e sponsor). Ma avremmo risolto il problema alla base? Non sarebbe, forse, come decidere che un malato che non riesce a digerire, perché ha un tumore allo stomaco, debba astenersi dal cibo? Se il malato non riesce a digerire per via di un tumore allo stomaco la cura non può essere l’astensione dal cibo. Bisogna tentare di estirpare la vera causa del male: il tumore. A costo di asportare una porzione di stomaco.

Perché questi giovani si organizzano in bande criminali? Perché si armano fino ai denti come se dovessero andare sul fronte? Perché attaccano le forze dell’ordine e dunque lo Stato? Qual è la causa della loro frustrazione? La disoccupazione? La mancanza di ideali? L’una e l’altra? O ci sono altri motivi ancora?

Fin quando si continuerà a sostenere che questo è un problema del calcio, o solo del calcio, fin quando non si riconoscerà che si tratta piuttosto di una grave malattia sociale, non credo che avremo la possibilità di giungere a una soluzione vera ed efficace.

Eliminando il calcio è probabile che questi giovani disadattati trovino altre vie per dar corso al loro barbaro sfogo. Quali potrebbero essere le occasioni alternative? Concerti rock? Comizi politici? Qualunque altro evento capace di coagulare folle tra cui nascondersi e agire?

Oppure potremmo decidere di eliminare qualunque occasione di aggregazione. Potremmo rintanarci nelle nostre case e chiudere la porta a chiave. Cosa potrebbe accadere? Che questi giovani sbandati si organizzino in bande rivali per combattersi a vicenda e scaricare così la loro barbara rabbia?

Credo che bisognerà porsi queste domande se c’è davvero la volontà di risolvere il problema. Credo che bisognerà guardarsi allo specchio e riconoscere la malattia.

La soluzione non è a portata di mano. La strada sarà lunga e impervia. Bisognerà coinvolgere sociologi, psicologi ed esperti vari. Nel frattempo temo sia essenziale fare ricorso a misure preventive e repressive, partendo dallo slogan tolleranza zero recitato da più parti. L’importante, tuttavia, è non dimenticare che queste misure saranno dettate dall’esigenza di trovare nell’immediato soluzioni tampone, dunque superficiali e temporanee.

Chiedo al Sindaco della città e al Presidente della Provincia, così come al Presidente della Regione e alle Istituzioni centrali, di impostare i tavoli di lavoro partendo anche dalle suddette considerazioni.

Chiedo alle società di calcio di non cedere al ricatto dei teppisti e di collaborare di più con le Istituzioni per isolare le bande criminali e guerrafondaie.

Chiedo ai tifosi di Catania e Palermo – quelli veri – di incontrarsi e di ragionare insieme sul futuro del calcio siciliano. Forse potrebbe essere un gesto opportuno partecipare congiuntamente ai funerali di Filippo Raciti tenendo gli stendardi di Catania e Palermo calcio l’uno accanto all’altro. Un segnale contro la violenza e la morte. Un segnale per dire che il calcio e il tifo vero si ribellano alle vergognose strategie da guerra urbana.

Chiedo al Presidente del Catania calcio, il dr. Pulvirenti, di non mollare.

Lei, Presidente, ha dato un sogno ai catanesi e ha fatto in modo che quel sogno si trasformasse in realtà. Ha fatto sì che Catania si presentasse sul palcoscenico nazionale, e non solo, con un’immagine – una volta tanto – positiva.

La prego Presidente, non rinunci al sogno. Non si pieghi alle barbarie. Non è questo il calcio. Il calcio è quello che ha portato lei nella nostra città. Per oggi chiniamo il capo di fronte alla morte e al dolore. Stringiamoci tutti intorno alla famiglia Raciti. Poi, però, rialziamo la testa e rimbocchiamoci le maniche. Tutti.

Perché Catania non è quella vista nella maledetta sera del 2 febbraio 2007.

Catania è altra cosa.

È bene che si sappia.

*

Massimo Maugeri

03 febbraio 2007

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   26 commenti »

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