domenica, 25 febbraio 2007
LETTERATURA TRA STILE E VERITA’
Non so se ci avete fatto caso, ma qualche giorno fa (per l’esattezza il primo febbraio 2007) La Stampa ha pubblicato un articolo di Javier Cercas dal titolo: Verità, non stile voglio da chi scrive. Il sottotitolo mi è parso ancora più interessante: Un pamphlet contro i preziosismi ridicoli degli autori firmato dal dimenticato Felipe Azaiz si dimostra di straordinaria attualità.
Per farvela breve qualche settimana fa, in un negozio di libri usati, l’autore dell’articolo si imbatte in un opuscolo pubblicato a Tolosa nel 1946 dal titolo Arte di scrivere senz’arte. L’autore è un certo Felipe Alaiz. Cercas acquista il libro, lo legge e ne rimane estasiato.
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Ora vi riporto uno stralcio del succitato articolo (che potete leggere per intero cliccando qui). Poi, se vi va, ne parliamo.
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“L’Arte di scrivere senz’arte (…). Si tratta di un piccolo saggio sullo stile condito, com’è prevedibile, di buone intenzioni e di ingenuità, ma anche, com’è meno prevedibile, di geniali stravaganze (…). Comunque, a me sembra fondamentalmente esatta la sua concezione di stile che, tra noi, continua a essere essenzialmente decorativa. Il lettore, incapace di avere fiducia in se stesso, spesso non si fida del proprio gusto, ma di quello che gli assicurano gli debba piacere, e ciò non è quasi mai l’efficacia o l’emozione, ma esclusivamente l’apparenza o l’ornamento: l’aggettivo desueto, l’acrobazia sintattica, la metafora vanitosa. Questo lettore trova degno di merito che lo scrittore scriva «destriero» invece di «cavallo», «cilestrino» invece di «azzurro», quasi cercasse indizi che gli chiariscano se ciò che legge abbia o no il diritto di piacergli. Questo lettore dimentica che la frase «i consueti accadimenti che si verificano nella via» non è letteratura, mentre lo è la frase «quel che succede in strada»; dimentica che il fine della letteratura non è la bellezza, ma la verità, supponendo che le due cose non siano la stessa; dimentica che quello che sembra letteratura non è mai letteratura, perché scrivere bene è l’opposto di scrivere belle frasi e perché la vera arte è quella che nasconde il trucco (o, come recita il precetto latino: «Ars est celare artem»); dimentica, infine, che bisogna incominciare a darsela a gambe quando uno scrittore viene definito «uno stilista», termine che quasi sempre è sinonimo di inutilità o di verbosità (o delle due cose insieme), perché lo stile vero rasenta quasi sempre l’assenza di stile. Poche persone l’avrebbero detto meglio di Hannah Arendt quando, parlando dello scrittore meno imprescindibile del XX secolo, afferma: «L’unica cosa che attrae e seduce il lettore nell’opera di Kafka è la verità» alla quale egli arriva «con la sua perfezione senza stile», visto che «qualsiasi stile distoglie dalla verità, bella per se stessa».
Questa è l’idea centrale del libricino di Alaiz, che si rifà a Buffon il quale afferma che lo stile è l’uomo, e a Flaubert che sostiene che la forma sta alla profondità quanto il calore sta al fuoco, per poi lanciarsi in un’arringa rabbiosa contro lo stile ornamentale di quelle opere «rese stucchevoli dai preziosismi» schierandosi a favore di un’arte libera da impostazioni, obliqua o ellittica manifestazione della personalità di chi la crea.”
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A questo punto incalzo… e faccio l’avvocato del diavolo. Vi domando: non è che la letteratura italiana, nel suo Dna, sia un po’ malata di stilismo e di accademismo? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali all’estero la filano in pochi? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali i lettori italiani prediligono spesso la letteratura straniera?
Ho fatto l’avvocato del diavolo, eh? Dunque non insultatemi!
Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE 26 commenti »
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