lunedì, 12 aprile 2010
NEL SEGNO DEL CANCRO
Ci sono argomenti più difficili da trattare, rispetto ad altri; ma non per questo meno importanti.
Il titolo di questo post non ha a che fare con l’astrologia o i segni zodiacali… ma con qualcosa che incide nelle nostre vite in maniera molto più significativa e devastante: la malattia.
“Nel segno del cancro” (Sampognaro & Pupi, € 10) è il titolo di un libro che offre la testimonianza di una donna colpita dal tumore al seno.
Secondo l’Airc, il tumore al seno colpisce una donna su dieci. È il tumore più frequente nel sesso femminile e rappresenta il 25 per cento di tutti i tumori che colpiscono le donne. In Italia sono diagnosticati circa 37.000 casi (152 ogni 100.000 donne). Uno di questi casi è quello di Cinzia Spadola. Ed è lei stessa a raccontarcelo tra le pagine di questo libro che vi propongo.
Nella sua prefazione al testo della Spadola, Gianna Milani scrive: “Da che cosa può nascere l’impellente bisogno (desiderio) di raccontare della propria malattia? Di vincere ritrosia e pudore per spingersi sul terreno della condivisione di fatti (nudi e crudi) e di emozioni (forti e laceranti)? Diverse possono essere le motivazioni. Forse un modo per capire perché «proprio a me», per riappropriarsi del corpo, per restituire alla propria vita il diritto di unicità. Ma anche per non essere più soltanto una diagnosi, una mammella con un nodulo di qualche centimetro, ma una persona“.
A prescindere dalle motivazioni che hanno spinto Cinzia a scrivere questo libro, credo sia importante parlarne: per aiutare a capire che non si è soli, che quel «proprio a me» riguarda tantissima gente; per ribadire che la prevenzione continua a essere l’arma principale per contrastare questo male. E perché il mettere in comune esperienze dolorose – che segnano – può trasformarsi in una risorsa per noi stessi e per coloro con cui le condividiamo.
Parliamone, dunque.
Parteciperanno alla discussione Cinzia Spadola (l’autrice del libro), il dr. Paolo Tralongo, primario del reparto oncologico dell’ospedale di Avola (che ha firmato la postfazione del testo), lo scrittore e critico letterario Salvo Zappulla (che ha recensito questo libro per Letteratitudine)… e tanti altri esperti ed ospiti, tra cui la scrittrice Stefania Nardini (il cui nome metto in evidenza per motivi ben specifici, come capirete nel corso della discussione).
E poi ci siete voi…
Vi chiedo di partecipare al dibattito con particolare trasporto (mettendo in comune esperienze e opinioni). Del resto, come scrive Paolo Tralongo nella postfazione: “Ogni pagina dell’esperienza, per certi aspetti singolare, di Cinzia, riportata in questo volume, è continua testimonianza di quanto gli aspetti comunicativi, relazionali, umanistici, oltre che scientifici, siano rilevanti nel condizionare gli esiti di un programma assistenziale e lo stato di benessere del paziente affetto da cancro“.
Massimo Maugeri
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NEL SEGNO DEL CANCRO di Cinzia Spadola
Edizioni Sampognaro&Pupi – pagg. 65 – € 10.00
recensione di Salvo Zappulla
Rieccoci qua. Dopo tante belle discussioni nel blog, battute e battutacce, dibattiti su argomenti letterari, pause rilassanti e discorsi impegnativi, mi ritrovo coinvolto a presentare questo libro di Cinzia Spadola. Sul CANCRO. Sulla storia di una donna che racconta in prima persona del suo cancro al seno. E cosa c’entro io? mi chiedo. A me il cancro non interessa, Mai posto un simile problema. Fumo un pacchetto di sigarette al giorno, mangio tutto quello che mi capita a portata di ganasce: carne rossa, gialla con anabolizzanti importati dalla Cina, vino al metanolo, vita sregolata, aria della zona industriale insalubre. No, ripeto, il cancro non mi riguarda. Il seno non ce l’ho. Mal che vada potrebbe spuntarmi un nodulo ai testicoli, ma tanto quelli sono già inutilizzabili e, nella peggiore delle ipotesi, con un colpo secco, zac, si possono recidere. Ho cominciato a leggere questo libro alle 8 di mattina e alle 9 avevo già finito. Mi ha fatto riflettere molto. Le prospettive mi sono apparse differenti, la visione della vita anche. Ci comportiamo come se la nostra esistenza dovesse durare all’infinito, litighiamo per un sorpasso, ci scanniamo per l’eredità dello zio buon’anima, ci affanniamo ad accumulare ricchezze e potere, ci crediamo invincibili (Lei non sa chi sono io! La mia famiglia discende direttamente dal re. Ed io allora? Sono parente di trentesimo grado dell’onorevole Truffarelli, specializzato negli appalti sui terremoti) e poi basta un nulla: un ictus, un infarto, un dardo avvelenato che malauguratamente va a cadere sulla nostra testa, per renderci conto di quanto labile sia la nostra permanenza su questa terra. Non ci sono ricchezze che preservino dalle malattie. Non esiste potere in grado di regalarci l’immortalità. Siamo granelli di sabbia nel deserto. La nostra esistenza va salvaguardata, la nostra coscienza pure. La qualità della vita è un bene prezioso. Abbiamo dei doveri verso noi stessi. La protagonista di questo libro con delicata ironia racconta la sua storia ed è come vedere un film dalle scene incalzanti. Mi proietta in una dimensione che ritenevo irreale, mi porta a conoscenza di termini per me astrusi: esami di follow-up, linfonodi sentinella. E a mano a mano che proseguo nella lettura mi accorgo che la mia sigaretta si spegne da sola. Quando arrivo alla postfazione del dott. Paolo Tralongo, primario del reparto oncologico dell’ospedale di Avola (SR) mi rendo conto di averlo ingoiato, il mozzicone della sigaretta. “…non va dimenticato che la diagnosi del cancro ferma il tempo che improvvisamente appare perduto e proiettato a chiudere repentinamente l’esistenza dell’individuo. La disponibilità umana del medico può contribuire a riattivare la speranza (risorsa preziosissima) che il tempo possa essere, in qualche modo, nuovamente percorso con dignità, facendo sì che le proposte terapeutiche considerate dalla comunità scientifica internazionale più vantaggiose possano essere accettate anche quando non completamente risolutive…” Parole di Paolo, medico stimatissimo che ha dedicato alla sua professione l’intera esistenza. Insomma, facendo seguito alle affermazioni di Hermann Boerhaave, clinico olandese, al medico va richiesta la scienza e l’umanità. Senza la seconda, anche la prima vale ben poco. Raccontare della propria malattia in un libro richiede sempre grande coraggio, significa offrirsi nudi, con le proprie paure, le debolezze, le ansie a un pubblico sconosciuto. Lo hanno fatto illustri scrittori prima di Cinzia. Ricordo uno straordinario romanzo di Davide Lajolo che nel 1977 si aggiudicò il Viareggio: “Veder l’erba dalle parti delle radici” in cui lo scrittore descrive minuziosamente e drammaticamente i suoi momenti d’angoscia quando si rende conto di essere stato colto da infarto e si trova solo, senza che nessuno possa prestargli soccorso, nel suo letto. Rivede la propria esistenza, le origini contadine e tutto gli appare sotto un’altra luce. Questo di Cinzia Spadola, che si avvale della prefazione autorevole di Gianna Milano, è un libro forte e violento, un pugno sullo stomaco (e una parte dei proventi andrà alla G.S.T.U. una fondazione che segue in Sicilia i guariti di cancro). Violento, come l’artiglio di un rapace che scende in picchiata a ghermirti la vita. Quando accade un evento sconvolgente condiziona anche l’esistenza delle persone che ci stanno accanto, i familiari, gli amici, le persone che ci amano. Qui hanno un ruolo fondamentale l’affetto dei genitori e la determinazione del marito. Cinzia racconta il suo calvario con grande lucidità e naturalezza, ci sono pagine di straordinaria intensità in questo libro. Cala un velo negli occhi di quanti hanno subìto un trauma di tale portata e quegli occhi non riavranno più la stessa lucentezza. Chiunque potrà identificarsi in questa storia, perché chiunque potrebbe incapparci. Il dramma, il vortice dell´abisso, sentirsi sprofondare senza intravedere una via d´uscita. Lo scoramento, gli ospedali, la tortura della chemioterapia, l´abbruttimento fisico, l´apatia, la fine di ogni speranza. E invece oggi Cinzia è mamma di due splendidi bambini: ha lottato, resistito, vinto. Ed è il primo caso al mondo di una donna che ha portato a termine una gravidanza nonostante i farmaci avrebbero dovuto bloccare le sue funzioni riproduttive. “…Il medico affermò che dopo una chemioterapia e 10 mesi di RH analogo, un’ovulazione e l’immediato concepimento è veramente improbabile, per non dire impossibile, cosa che invece era in qualche modo accaduta…” Un fenomeno? Un miracolo? Lo vogliamo credere e sperare: il miracolo della vita che si impone sulla morte. I medici non sanno trovare la spiegazione scientifica. Una testimonianza importante questa di Cinzia, su un argomento delicatissimo. Una storia di rinascita e di positività. Uno spiraglio di luce che penetra le tenebre e apre alla speranza. Ed ecco che questo libro diventa un documento prezioso da trasmettere agli altri, quasi un manuale che ci insegna come riappropriarci della nostra vita anche quando sembra irrimediabilmente perduta.
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NEL SEGNO DEL CANCRO di Cinzia Spadola
La prefazione di Gianna Milano
Da che cosa può nascere l’impellente bisogno (desiderio) di raccontare della propria malattia? Di vincere ritrosia e pudore per spingersi sul terreno della condivisione di fatti (nudi e crudi) e di emozioni (forti e laceranti)? Diverse possono essere le motivazioni. Forse un modo per capire perché «proprio a me», per riappropriarsi del corpo, per restituire alla propria vita il diritto di unicità. Ma anche per non essere più soltanto una diagnosi, una mammella con un nodulo di qualche centimetro, ma una persona. E per trovare, in definitiva, un nuovo rapporto con se stessi dopo l’esperienza spesso disumanizzante dell’ospedale, non importa se «super» o a quattro stelle, pur sempre un «non luogo» dove i rapporti sono frettolosi, ridotti all’indispensabile, sovente aridi e distaccati.
L’autrice racconta di giorni di angoscia, di ansia, di sofferenze, di reazione alla faciloneria dei medici che spesso si nascondono dietro un linguaggio tecnico e impersonale. Il libro di Cinzia Spadola è la cronaca intima, privata di una lotta durata mesi. Che si apre alla speranza contro tutto e contro tutti. Contro ogni previsione basata sulla medicina delle evidenze scientificamente dimostrate. Una scommessa contro il male che sfocia nella vita, nella nascita di un nuovo essere, del figlio Riccardo che, a dispetto dei pronostici degli esperti (smentiti), sconfigge la malattia della madre e viene al mondo.
La scrittura autobiografica come pratica per attenuare la sofferenza ha precedenti famosi da Giuseppe Berto (Il male oscuro) a Thomas Bernhard (Il respiro), da Lalla Romano (Nei mari estremi) a Tiziano Terzani (Un altro giro di giostra). L’impazienza di raccontare in prima persona, senza più metafore, infermità, dolore, disperazione, speranze, battaglie, guarigioni, sconfitte, e il bisogno di «mettere in piazza i mali dell’anima e delle cellule», come ha scritto la sociologa Simonetta Piccone Stella, superando ogni reticenza e ogni vergogna verso i propri malanni, sono dimostrati dal numero crescente di questo genere di libri. E, soprattutto, sul cancro.
Di nuovo ci si domanda come può essere interpretato questo nuovo desiderio di trovare interlocutori, ossia lettori, inclini a partecipare emotivamente alle vicende personali di un’altra persona? Perché questo bisogno di vivere la malattia autentica con gli altri e di comunicare esperienze vere, vissute sulla propria pelle? Chissà, forse è un modo per difendersi dall’indifferenza della medicina che ha lunghi camici bianchi, che non vede la persona ma il suo male. O, meglio, il suo organo malato. Forse è il desiderio di non vedere tutto ridotto a numeri, statistiche, formule. E, poi, il mondo della salute e della malattia sono confinanti. Un confine davvero labile. Tanto che spesso si confondono. Ma altrettanto spesso noi questo lo ignoriamo.
Narrare credo sia anche un atto di solidarietà verso se stessi. Significa esorcizzare, ma non rimuovere. Anzi, c’è un’appropriazione di tipo personale, un po’ narcisistica, come narcisistica è la condizione del malato. Ma nasce anche dal bisogno di non sentire più la malattia come qualcosa che ci sovrasta, come una spada di Damocle, il cui l’esito dipende anche da noi. Perché, secondo gli esperti di medicina psicosomatica, primo tra tutti Georg Groddeck, è dal modo in cui ci si pone verso la malattia che dipende il suo esito: la vittoria o la sconfitta. La storia di Cinzia sembra dare ragione a coloro che sostengono il ruolo importante della psiche. Del resto, la dicotomia corpo e psiche ha finito per favorire la medicalizzazione di qualsiasi turbamento dell’animo.
Il raccontare la propria sofferenza serve inoltre a oggettivarla, a trasformarla in qualcosa che si passa ad altri (come il testimone in una gara) per coinvolgere, ma anche per uscire dall’isolamento, per creare un filo conduttore tra il prima e il dopo. Infine, per passare attraverso il racconto una testimonianza che lasci una traccia indelebile del proprio vissuto. Lo scrivere, il mettersi a nudo, è simile in fondo alla narrazione orale che avviene durante la psicoterapia: da racconto privato diventa comunicazione pubblica. Con l’analogo scopo di elaborare, di ricercare un equilibrio, di dare senso alla propria sofferenza. Ma anche alla propria esperienza. La rete di comunicazioni, poco alla volta, diventa un affresco in cui si intrecciano i sottili fili delle relazioni. Una rete che produce calore e incoraggia a persistere nella sfida.
La malattia è quasi sempre vissuta con un senso di ingiustizia e di vergogna. Attraverso il racconto il malato riacquista dignità. Perché la malattia è come una violenza subita che abbassa la stima di sé («Perché proprio a me?» ci si chiede) e scrivere la propria storia serve a riacquistare fiducia, dicono coloro che si occupano di antropologia medica. Mettere per iscritto, raccontare ad altri, aiuta a metabolizzare ciò che è successo. L’esperienza dolorosa si trasforma, subisce una metamorfosi, diventa un fatto letterario e va oltre. La «vittima» diventa «protagonista». Dal registro patetico si passa a quello epico-tragico in cui c’è un io narrante (protagonista) e un’antagonista (la malattia).
L’identificazione in chi legge è facile e ha un effetto certamente catartico.
Se per i protestanti la malattia era il castigo di Dio e il successo materiale era essere sani, per i cattolici essa aveva un effetto salvifico per conquistarsi la benevolenza di Dio e quindi il Paradiso. C’è chi ritiene che queste prospettive siano oggi superate. Si assiste infatti a una presa di possesso del proprio corpo, una riappropriazione che pone l’accento su un rapporto nuovo, paritario, con il medico. La protagonista riceve informazioni sulle possibili terapie, sulle eventuali prospettive, sugli inevitabili effetti collaterali, ma poi, in definitiva, è lei a scegliere. A decidere della sua sorte con straordinaria determinazione. Erodoto racconta che i babilonesi portavano i malati sulla piazza del mercato e che a chiunque veniva data la possibilità di accostarsi al malato, consigliarlo sulla malattia. Se qualcuno aveva avuto lo stesso male o sapeva di un altro che l’avesse avuto, si faceva avanti, dava consigli e raccomandava tutto quanto aveva fatto lui stesso o qualcun altro. Non era permesso oltrepassare il malato senza aver chiesto che malattia avesse. Se questa consuetudine tornasse, chissà quanti assembramenti.
C’è chi dice che questo bisogno di confrontarsi attraverso la narrazione nasca da una mutazione della società moderna verso fenomeni condivisi di solidarietà. Un’alternativa alla mentalità borghese. Non c’è lo specialista, ma il mettersi assieme (chi scrive e chi legge) per affrontare un problema comune, magari sottovalutato e difficilmente individuato. Forse è il sintomo del fallimento dell’industria della psiche che punta all’individualismo? Altri vedono in questo fenomeno un’alternativa alla «parzialità» offerta dalla medicina. Una medicina certamente non infallibile. Consapevolezza che è cresciuta grazie anche a una più diffusa distribuzione di informazioni. Consapevolezza che ha ridimensionato la fiducia cieca nella medicina tecnologica capace, come sono andati ripetendoci negli ultimi trent’anni, di vincere ogni malattia.
In questo clima di ripensamento e di sfiducia si è diventati meno disposti a delegare ciecamente all’esperto. Se prima il malato si affidava, oggi tende a riappropriarsi sia del proprio corpo che della propria malattia. Il corpo gli appartiene (questo atteggiamento nasce anche dal lavoro del femminismo) e non l’affida, ma combatte, contratta, si difende, riflette, chiede. Succede che né medici né infermieri siano però disposti a contrattare. Loro sono quello che sanno. E che il recupero della malattia e del proprio corpo sia di matrice femminile lo dimostra il fatto che nove volte su dieci i libri scritti sulla propria malattia sono scritti da donne.
In tutti questi libri in cui i malati raccontano della loro malattia, emerge una critica al sistema sanitario, alla medicina tradizionale che ha trascurato il malato come persona. E torna in mente il racconto che Nanni Moretti ha fatto della sua malattia nel film Caro diario. Una pagina efficace di come andrebbe rivisitato il rapporto medico-paziente. La medicina, da Ippocrate in poi, si esercita tra «techne» e valori umani. E cioè scienza applicata all’uomo e rapporto tra uomini sono i due elementi animatori e categorici del mestiere di medico. Forse è anche questo il messaggio che il nuovo filone editoriale, di cui fa parte questo volume, vuole con forza esprimere. E le parole, si sa, facilmente si dimenticano, mentre gli scritti restano.
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NEL SEGNO DEL CANCRO di Cinzia Spadola
La postfazione di Paolo Tralongo
Il controllo di malattie infettive, l’avvio di programmi di educazione sanitaria ed una migliore igiene di vita hanno contribuito a determinare un prolungamento della vita media dell’individuo; contemporaneamente i progressi scientifici raggiunti negli ultimi anni hanno indotto la remissione di numerose patologie ed il controllo di molte altre.
In ambito oncologico, l’avvio di programmi di diagnosi precoce, l’applicazione di procedure di integrazione terapeutica multidisciplinare e, infine, l’inserimento nella pratica clinica di nuovi ed efficaci principi attivi hanno modificato la storia naturale di molte neoplasie maligne : la cronicizzazione di tumori di frequente incidenza e di valenza sociale, quali quello mammario o del colon, rappresenta, infatti, un riscontro usuale. I pazienti, oggi, vivono più a lungo e non a caso si parla di lungo sopravviventi, cioè di persone che, superata la fase acuta di malattia, si trovano a vivere una esperienza identificabile come fase post-acuta, caratterizzata da controlli periodici finalizzati alla individuazione di una eventuale ripresa evolutiva di malattia e/o di effetti collaterali tardivi attribuibili ai trattamenti e che possono minacciare la qualità della salute.
Per tale motivo, anche la valutazione della QOL e la sua percezione rispetto ad un trattamento riportata dai pazienti (PROs) rappresentano, oggi, alcuni dei requisiti cui fa riferimento la comunità scientifica per valutare l’efficacia di una procedura terapeutica o di un nuovo principio attivo.
Contestualizzata in questo ambito e nella consapevolezza che la patologia di cui trattasi esprime un decorso cronico, la strategia terapeutica, oltre a considerare il controllo sulla patologia, non può misconoscere una più ampia e completa prospettiva centrata sul paziente, sulla sua unicità fisica e psichica; paziente – persona che dinnanzi agli stati di ansia e di preoccupazione per il proprio futuro chiede al medico – persona un duplice aiuto: tecnico (per la componente medico-scientifica) ed umano (per la componente antropologica). Per poter pianificare concretamente un tale programma terapeutico è necessario che si realizzi un nuovo rapporto medico-paziente, non sbilanciato ed unidirezionale ma equilibrato e bidirezionale, all’interno del quale entrambi manifestano la piena consapevolezza che la loro reciprocità si fonda su una comunicazione piena ed esaustiva anche quando apparentemente difficile e complessa. Alle richieste del paziente deve corrispondere una disponibilità all’ascolto ed alla comunicazione da parte del curante, il quale, considerate le peculiarità (età, sesso, cultura,…) dell’assistito, deve fornire le risposte atte a soddisfarne, per quanto possibile, le esigenze e le attese (recupero del ruolo sociale, nuova pianificazione della propria vita familiare, desiderio di avere un figlio,..) o a giustificarne il loro mancato pieno raggiungimento quando non esistono le condizioni per poterlo fare (guarigione non completa). Questo modus operandi può migliorare l’adesione del paziente alle cure e/o alle verifiche strumentali periodiche e, contestualmente, può ridurre l’inquietudine del paziente per un futuro, sociale e familiare, incerto. Non va dimenticato, infatti, che la diagnosi di cancro ferma il tempo che improvvisamente appare perduto e proiettato a chiudere repentinamente l’esistenza dell’individuo. La disponibilità umana del medico può contribuire a riattivare la speranza che il tempo possa essere, in qualche modo, nuovamente percorso con dignità, facendo si che le proposte terapeutiche considerate dalla comunità scientifica internazionale più vantaggiose possano essere accettate anche quando non completamente risolutive.
Così facendo, da parte sua, il medico ha la possibilità di riappropriarsi di un ruolo che gli è peculiare, cioè quello di ricercatore del benessere della persona ammalata, ricerca che contiene, in nuce, il senso più profondo di una attività assistenziale che si realizza in un contesto di rapporti umani. A questo proposito vale qui ricordare quello che ha scritto Hermann Boerhaave, clinico olandese, e cioè che al medico sono richieste essenzialmente due cose: la prima che possieda la scienza e la seconda che abbia la predisposizione di genio per esercitarla con amabile cordialità (ut exerceat medicinam jucundam).
Ogni pagina dell’esperienza, per certi aspetti singolare, di Cinzia, riportata in questo volume, è continua testimonianza di quanto gli aspetti comunicativi, relazionali, umanistici, oltre che scientifici, siano rilevanti nel condizionare gli esiti di un programma assistenziale e lo stato di benessere del paziente affetto da cancro.
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AGGIORNAMENTO DEL 14 aprile 2010
Giulio Perrone mi ha segnalato questo libro che ha appena pubblicato nella collana Lab (perfettamente in tema con il post): “A dieci centimetri dal cuore” di Claudia Vegana.
Gli amici dell’ufficio stampa Mondadori, invece, mi segnalano il libro di Giacomo Cardaci: “La formula chimica del dolore”.
Pubblico le schede dei due volumi qui di seguito invitando Claudia Vegana e Giacomo Cardaci a partecipare alla discussione (se ne avranno la possibilità) e a dirci qualcosa sui loro libri.
Massimo Maugeri
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“A dieci centimetri dal cuore” di Claudia Vegana (Perrone / Lab, 2010)
Continuo a toccarmi la testa. La sfioro e la tasto con le mani. Quasi ad avere la conferma che stiano davvero ricrescendo i miei nuovi capelli. Mi piace sentire sulle dita il loro pizzichio impertinente e la loro giovinezza. A volte mi sento quasi come un’esploratrice, anzi mi sento proprio un’argonauta giunta alla fine di una missione speciale. Anche se non ho ancora finito il mio viaggio sento che queste prime tappe mi hanno già fortificato
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Cecilia ha trentotto anni, un lavoro che ama, un marito e il progetto di un figlio quando scopre, accidentalmente, di avere un tumore al seno. È l’inizio di un percorso in salita: l’attesa della diagnosi, la rabbia e poi l’intervento, l’odore di disinfettante dell’ospedale che diventa giorno dopo giorno familiare, la chemioterapia.
La storia di Cecilia è la storia che accomuna migliaia di donne. È la storia di un dolore che modifica la percezione del mondo, di uno squarcio che si apre e che fatica a richiudersi. Ma è anche la testimonianza, vera, della possibilità di tornare alla vita.
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“La formula chimica del dolore” di Giacomo Cardaci (Mondadori, 2010)
Pazienza. Questa è la virtù di cui deve armarsi chiunque si ammala e deve curarsi, mettersi in lista per le visite, attendere i risultati degli esami, le prognosi dei medici, l’effetto delle medicine, sopportare i compagni di corsia – chiunque deve sperare e lottare per guarire. Pazienza: ce ne vuole ancora di più se la malattia, con tutta la sua ingiustizia e assurdità, ti colpisce quando sei nel fiore dell’età più impaziente di tutte, la giovinezza affamata di vita e di futuro. Come l’autore di questo libro, così Filippo, il suo protagonista, si trova a fare i conti con un male temuto a tal punto che spesso non si osa nemmeno pronunciarne il nome, come per una colpa inconfessabile: il tumore. Inizia così la sua odissea attraverso uno dei luoghi più kafkiani dei nostri tempi, l’ospedale. Pur senza smettere per un momento di interrogarsi sulle ragioni del dolore che lo colpisce, Filippo ci racconta la propria guerra contro la malattia con tutta la freschezza della sua giovane età. E dà voce alla folla silenziosa dei tanti pazienti che riempiono loro malgrado quella “prigione degli innocenti” che è l’ospedale, dove si viene rinchiusi senza avere commesso alcun delitto.
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Scritto lunedì, 12 aprile 2010 alle 20:07 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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