martedì, 5 marzo 2019
UN CARNEVALE DA RACCONTARE
Il Carnevale letteratitudiniano (ri)passa da questo post annuale che si prefigge di provare a… raccontarlo.
Siete tutti invitati a farlo.
In che modo? Ecco alcuni spunti, forniti a titolo di esempio:
- microracconti sul carnevale (pura fiction)
- il carnevale nei vostri ricordi d’infanzia e adolescenza
- il carnevale oggi
- citazioni di opere letterarie che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare con il carnevale.
Di seguito, l’ormai storico articolo di Alessandro Defilippi pubblicato su Ttl del 26 gennaio 2008…
Inoltre, se vi va, – fino a martedì notte – potrete “mascherarvi” travestendosi in un personaggio letterario, dei fumetti, del cinema (ma va bene anche indossare una “maschera classica”)… per partecipare a una carnascialesca festa letteratitudiniana che avrà luogo proprio qui, in questo post.
Si tratta di scegliere un personaggio, “impersonarlo” (appunto) e rilasciare commenti in coerenza con il personaggio impersonato.
Grazie a chi potrà e vorrà partecipare!
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di ALESSANDRO DEFILIPPI
Festa singolare, il carnevale. Per i vecchi torinesi è un luogo, divenuto sinonimo d’un evento: «Mi porti in Piazza Vittorio?», chiedevano i bambini, e la piazza era il carnevale, affollata di giostre e baracconi, con i morbidi manganelli di plastica verde da inseguirci le ragazzine, le lingue di Menelik, l’inestricabile garbuglio delle stelle filanti. E a sera la piazza diveniva quella che Ungaretti chiamò «una decomposta fiera». Perché questa, più d’ogni altra, è una festa ambigua, che porta con sé un sentore di morte. Festa del corpo pesante (il corpo di Gargantua, di cui parla Bachtin), di quell’addio alla carne (carne, vale!) che annuncia la quaresima e che viene celebrato con l’eccesso e con l’inversione dei ruoli. Festa orgiastica, in cui frenetica scorre l’energia, ma anche festa mortifera, durante la quale, al riparo della maschera, può accadere ogni cosa, si può commettere ogni peccato, consumare ogni passione. Festa in cui i confini – di sesso, di ceto, di morale – si assottigliano, sfumando l’uno nell’altro, e permettono l’erompere del caos nel flusso ordinato del tempo.
Florens Christian Rang, «funzionario statale ma anche pastore, giurista, filosofo e teologo», è un’eccentrica e fondamentale figura di intellettuale tra XIX e XX secolo. Amico dei maggiori, da Hoffmansthal a Buber, da Rosenzweig a Benjamin, di lui in Italia assai poco si conosce, ed è pertanto benvenuto il ritorno della sua Psicologia storica del carnevale (Bollati Boringhieri, pp. 126, e 9). Preceduta e seguita da due densi – talora fin troppo criptici – saggi di Fabrizio Desideri e di Massimo Cacciari, l’opera rivela un’intensità di scrittura e una libertà di pensiero che ci rimandano a Nietzsche e ai grandi della psicologia dinamica.
Carnevale, nell’interpretazione di Rang, è il car navale, il carro che trascina il tempo lungo lo zodiaco e lo scandisce, ma anche la nave dei folli – stultifera navis – dei cortei e delle pitture medievali. Il carnevale è un interludio nel tempo ordinato dell’anno, è il riempimento, fatto di scherno, follia e rovesciamento, dei giorni intercalari, che cadono tra la nascita e la morte del Salvatore, tra il giorno del sole – il solstizio d’inverno, che nel cuore del buio celebra il sol invictus con la sua promessa di ritornare a illuminare il mondo – e il buio psicologico della Passione e Morte del dio. Festa dunque che incide con forza nello spirito la carne, ricordandocene la presenza, l’ottuso legame che abbiamo con la vita e con la terra. Carnevale è dunque «un pezzo di storia della religione», in cui la risata di scherno è «la prima blasfemia».
Rang fa risalire il carnevale alla Caldea favolosa e storica degli astrologi e dei Magi, e poi all’ebbrezza dionisiaca. Dioniso non è però il cordiale Bacco romano, con la coppa in mano e la corona di pampini sul capo: è invece lo Sbeffeggiatore del Mondo. L’associazione è con Arlecchino. Arlecchino è la maschera che serve due padroni, che inverte i ruoli e le regole, il bastonato che diventa bastonatore, ma è anche il discendente di Hellequin, diavolo conduttore dell’Exercitus Mortuorum nei misteri popolari del medioevo, e nel cui nome risuona quello dell’Inferno: l’Hell inglese e l’Hel scandinavo. Del carnevale medievale e rinascimentale Rang non parla: ne tratterà Bachtin, parlando dell’inversione dei ruoli tra uomo e donna, uomo e bestia, servo e padrone, prete e peccatore, nella costruzione di quel «mondo alla rovescia» in cui pare che per una volta tutto sia possibile.
Se tutto, il dritto e il torto, diventa possibile, allo psicologo pare inevitabile associare il carnevale all’Ombra, metafora adoperata da Jung per indicare il socialmente inaccettabile, ma anche l’energia che da quel rimosso prorompe, se riconosciuta. Nel tempo dell’inversione, l’Ombra, al riparo della maschera, può parlare e agire. Come ogni dismisura essa però richiamerà il suo polo opposto: in quanto portatrice di energia e di vitalità corporale non potrà pertanto che richiamarci alla morte, facendo oscillare il tempo del carnevale tra l’euforia e la depressione, la gioia sfrenata e la malinconia. L’eccesso carnale ci ricorda la precarietà del corpo; lo sforzo del piacere ci riporta all’immobilità della tristezza: «Post coitum omne animal triste».
Ma per Rang il carnevale è anche il segno della libertà che l’uomo cerca di prendersi nei confronti di Dio: la libertà dello scherno, della blasfemia. In questo gioco d’inversioni, però, la risata beffarda si rovescia ancora una volta, e il riso, nota Cacciari, «è già anche risus paschalis, riso gioioso di rinascita». Oscillando tra l’Ombra (l’inverno, le vittime dilaniate dalle Baccanti, il pericolo annidato nel buio) e l’alba della rinascita pasquale, il carnevale, festa per eccellenza degli opposti, si muove tra perdizione e redenzione, tra Dio e Diavolo-Arlecchino. Tra quei due, dice Rang, l’uomo scelse, nel tempo del Medio Evo, il primo: così il carnevale si spense, continuando ad aggirarsi «come uno spettro», e «il riso della felicità è andato perduto», sostituito dall’ebbrezza dell’ascesi.
Peggio forse va ai moderni, per i quali, la nuova ascesi è «il dovere del lavoro». Ma in fondo alla nostra psiche, verrebbe da aggiungere, «il carnevale impazza», alimentato dal pathos, da quella passione di vivere che è anche la sofferenza di accettare la vita nella molteplicità e nell’imperfezione, nella luce e nella confusione. Noi, più o meno consapevoli, non possiamo che continuare a percorrere la nostra via, e «la via dell’umanità è la via dello spirito e la via dello spirito quella della passione».
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 26 gennaio 2008)
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Tags: carnevale, defilippi, un carnevale da raccontare
Scritto martedì, 5 marzo 2019 alle 21:30 nella categoria A A - I FORUM APERTI DI LETTERATITUDINE, EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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