Il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di Consoli – La curva della notte (Rizzoli) – si chiama Teseo. Un personaggio complesso e paradossale, affetto da una delle più tremende e classiche malattie che può colpire un essere umano: il “mal di vivere”.
Un romanzo che a mio avviso - per la tipologia dei temi trattati – può richiamare alla memoria classici della letteratura italiana del Novecento: quali “Il male oscuro” di Giuseppe Berto e “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda.
Di seguito leggerete le recensioni di Barbara Gozzi e di Francesco De Core (quest’ultima già pubblicata sul quotidiano Il Mattino) che vi porteranno dentro la storia.
In questa nota introduttiva aggiungo soltanto che il “male” di Teseo trae origine da un episodio del passato… quando scopre che sua madre e Rocco – suo grande amico, coetaneo – sono legati da una storia d’amore e sesso.
La curva della notte di Teseo comincia proprio lì. E diventa mortale nel momento in cui Rocco, anni dopo, divenuto nel frattempo un noto cantante, lo va a trovare al Byron (locale gestito dallo stesso Teseo).
Mi piacerebbe discutere del libro e delle tematiche da esso affrontate (come al solito, partendo da alcune domande).
Quale potrebbe essere il rimedio migliore per combattere il mal di vivere - chiamatelo angoscia o depressione, se volete - che continua a mietere vittime forse oggi più di ieri?
Provate a entrare nei panni del personaggio Teseo…
A vostro avviso, Teseo, sulla base di quanto sopra accennato, dovrebbe sentirsi più “tradito” dalla madre o dall’amico Rocco? O da nessuno dei due?
E ora, le già citate recensione di Barbara Gozzi e Francesco De Core.
Massimo Maugeri
—
LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli, Rizzoli, 2008, euro 17, pagg. 202
di Barbara Gozzi
Teseo è un uomo tormentato, annoiato, attanagliato da un ‘male di vivere’ quasi inspiegabile nei suoi tessuti contraddittori, tra alti e bassi feroci e improvvisi.
Due mogli e una figlia alle spalle, un passato da ferroviere poi un locale, il Byron, diventato casa e supporto, passione e peso.
Finché qualcosa stravolge i fragili equilibri di cristallo: Rocco, vecchio amico dimenticato, torna, lo cerca. E prima di morire in un tragico quanto sfuocato incidente, riaprirà le porte di un passato che Teseo aveva chiuso forzatamente, nel disperato quanto inutile tentativo di dimenticare vecchi rancori, tradimenti e quel senso di disgusto e abbandono che, in realtà, ha continuato a perseguitarlo tra gambe aperte e giri di valzer. Perché Teseo non si nega nulla, specialmente i piaceri della carne che lo fanno sentire vivo, riescono a fargli provare ‘qualcosa’ di temporaneo quanto prezioso.
L’ultimo romanzo di Di Consoli mantiene le tinte forti e scure del precedente ‘Il padre degli animali’ ma sposta l’angolazione, la visuale vira e si concentra su un uomo e su un vivere inquieto, selvaggio quasi, tra rimozioni e riprese. E soprattutto dove i sentimenti esistono per riflesso, perché hanno un nome che ogni tanto è necessario pronunciare. Finché il passato torna e con lui i rimescolamenti dell’anima, di quell’anima che sembrava scacciata, sopita o addirittura annientata e invece resiste. C’è. Si svela proprio quando i granelli di sabbia scivolano quasi del tutto, sfuggiti a dita ormai scosse da tremori, invecchiate e incerte. Confuse.
Di Consoli gestisce una prosa potente, lucida, che risente a tratti dell’amore sviscerale per la poesia e ogni tanto ne ‘ruba’ atmosfere, ritmi e approcci.
Ci sono tre diversi livelli narrativi, individuati dai capitoli (comunque sempre brevi, fulminanti) e dai titoli. La stessa cronologia sarà comprensibile solo leggendo, strada facendo. C’è un passato che è remoto, mischiato quasi ai sogni, all’irrazionalità dei pensieri incompleti, dove il tempo ha iniziato a rosicchiarne pezzetti. Ma ci sono anche due strutture presenti che sembrano slegate, assestanti. Sembrano perché non lo sono. In questo romanzo si racconta una storia che non è ombelicale: l’analisi introspettiva di un uomo complesso e controverso. Si tirano fili precisi tra tessuti che sono anche analisi di una società – la nostra, quella che vive oggi seppure con riferimenti precisi al sud – ; e i personaggi sono protagonisti e simboli. Ci sono, dunque, passato remoto, prossimo e presente. Ma l’ordine non è scontato. Tutt’altro. Lo stesso titolo in realtà, mi sembra una traccia rilevante, da seguire per trovare il ritmo giusto, una prima decodifica. ‘Una’ notte si consuma un presente annunciato dalle prime righe, in una curva che si allunga, sale poi scende irrimediabilmente verso il basso, quando ormai ogni personaggio ha recitato la sua parte, incastrando tasselli e sfaldando certezze.
Di Consoli ha capacità espressive non comuni, usa un’aggettivazione mirata e ‘visiva’, ogni nuova scena viene tratteggiata in modo che il lettore ci si ritrovi immerso, tra odori, sapori, umori.
Non ce la facevo più a vivere […] la morte che più non si teme quando si è stanchi, sfiniti, alla fine del deserto; alla fine di una statale che porta nel regno dei vivi che sono già morti.
(pag.63)
Questo parallelismo tra vita e morte, anzi peggio, questo considerare taluni ‘vivi’ come fossero già morti è decisamente pressante, nel corso della narrazione. Teseo sa, sente. E queste sue percezioni incombono, irrompono tra avvenimenti presenti e passati.
Il passato è la nostra vergogna, la palude che ci fa impazzire di risentimento e di noia.
(pag.83)
Rancori dunque per accadimenti mai dimenticati, impossibili da cancellare e allo stesso tempo la noia, quel lento lasciarsi vivere tra il torpore di azioni che scivolano e la sottile depressione verso un futuro che appare piatto.
Solo il sesso, l’atto in sé, sembra scatenare nel protagonista reazioni cercate e mai noiose. Ed è una ricerca continua, un impulso irresistibile, unico a cui Teseo non si sottrae mai, neanche quando si sente avviluppare da trame oscure, a lui avverse. C’è senza dubbio una forte e presente componente sessuale in questo romanzo ma non la definirei erotica, non ci sono manifestazioni di un desiderio che cerca, annusa corpi; bensì tratteggi brevi e precisi di azioni solitarie. E’ un prendere, per Teseo, un dare per riflesso. I gesti sono ripetitivi, non si curano di forme o sostanze. E’ l’atto, come accenno sopra, l’unico vero obbiettivo. Il resto è un contorno spesso inutile, privo di sapore. E lo spiega in più d’un occasione lo stesso Teseo.
Non esiste, il piacere. Esiste solo il dolore di non amare più, o di amare male, come una ferita che non si chiude.
(pag.107)
Poi l’ ‘urlo della mente’ (pag.128) e l’ ‘amore nero’ (pag. 91). Parole chiave precise. Dominanti eppure sussurrate, che quasi si perdono tra racconti e virate.
La curva, dunque, si avvicina alla sua discesa finale e quaranta, cinquanta pagine dalla conclusione, il lettore la avverte, la caduta. Ci si sente dentro. I personaggi stringono, incalzano, i tasselli appaiono e lentamente si uniscono.
Di Consoli non è un autore facile, secondo me. Scrive avvalendosi di simboli, livelli diversi e strutture che sono il frutto di volontà precise. E rallenta forse proprio quando il lettore vorrebbe invece correre verso il finale. Ma è tutto necessario, sotto molto punti di vista. Decodificare non è un processo semplice tanto meno comodo.
In quel momento – senza capire niente – capii invece tutto. Mi andava bene, quello che stava succedendo. “Iole” dissi con la voce spezzata di chi è disposto a morire pur di amare ancora una volta.
(pag.197)
La parola ‘amore’ viene usata con parsimonia per circa centottanta pagine. Appena sussurrata. Poi d’improvviso, a poche pagine dalla fine, diventa un imperativo che si mischia al sesso, all’accettazione. Diventa un elemento dominante. Riempimento e rovina. Causa ed effetto. Mentre la morte, ovunque, resiste, perdura ma in queste ultime pagine pare addirittura meno graffiante, leggermente smussata.
________
________
da Il Mattino del 18/04/2008
Teseo e l’ultima notte di quiete
di Francesco De Core
Se i nomi hanno un senso sulla faccia delle persone, allora Teseo – il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di Consoli, La curva della notte (Rizzoli, pagg. 216, euro 17) – alla fine dei suoi giorni accartocciati nel vuoto uccide il minotauro. Non fuori, ma dentro di sé. Un mostro spietato, sleale, mosso da «un freddo disprezzo, uno svuotamento doloroso». Ecco: «La geografia della mia anima era una malattia che non si poteva guarire». Questa la moneta che riserva al mondo, Teseo. Qualcosa che lo divora, lo inghiotte nel ventre aspro di un destino senza redenzione. E per Teseo – che abita un sud avido di buio, luci al neon, relitti da spiaggia – il destino è un’auto lungo un rettilineo che non finisce mai, è un cuore che scoppia a tradimento come una bomba, è la morte che lascia sul suo petto inerme i segni da scarpone chiodato dei soldati. Teseo perde la vita a brandelli, ispirato e cosciente. Gli ultimi morsi spesi nel furore della condanna, inattesa ma forse sperata. Gioca al rivoluzionario, da giovane, per diluire la fretta di vivere; poi lavora da ferroviere, nel resto di una terra che è meridione, dove «i treni scendono, lenti e rumorosi, nella punta di sabbia dove finisce la nazione, e dove il governo ha piantato una grande bandiera tricolore che il vento ha dilaniato con i suoi morsi»; infine diventa proprietario di un locale, il Byron, sempre più assente dalle azioni quotidiane e distante nei pensieri. È uomo che osserva il mare e gli uomini, Teseo, in un disordine che è di valigia chiusa in fretta. Ama oltre la rabbia e oltre il ricordo. Sembra non avere più nulla da chiedere, perché poi ha poco da offrire. Quando al Byron arriva Rocco, l’amico di gioventù, musicista affermato. E soprattutto l’uomo che amò sua madre di un amore ai suoi occhi innaturale. Blasfemo. Assurdamente tragico. Rocco cede alla colpa antica e all’odio mascherato nell’altrui sguardo, beve con foga, va dritto verso la morte nella carcassa di un’auto che si riduce a poltiglia. Il senso di colpa affonda unghie e denti nella carne molle di Teseo e si compie così la stagione del cupio dissolvi: entra in scena Iole, la conturbante moglie di Rocco, e con lei loschi figuri che squarciano le nebbie del protagonista. Il sesso si fa di tenebra, brucia, va oltre il disincanto di matrimoni finiti per consunzione: risponde a un’ossessione, a un’implosione dell’anima, è sempre più carne e sempre meno amore. Il sud è di pece, ridotto a osso, cartavetrata, rumore di fondo – il sud che Di Consoli sceglie come quinta delle sue storie, riportandoci a certi racconti di Lago negro – un meridione che per Teseo è colorato di «caffè bollente, camion colmi d’asfalto, gelaterie e chiese barocche». Teseo è come un cane sciolto nella terra di nessuno dell’esistenza, popola di incubi i suoi giorni straziati dal distacco e da una passione senza speranza, viene infine abbandonato dal corpo, stremato da un colpo a tradimento prima che la strada curva arrivi a gettare terra sull’ultimo respiro e luce sul viso contratto. Un viso pallido di morte e stupore e nervi slegati dal sangue ormai fermo. Nessuno ha diritto alla salvezza per come ha vissuto dando in pasto ad altri la propria vita, sembra dirci Di Consoli. Gli impulsi più foschi si incastrano nella cornice di una scrittura tesa come corda di violino, dura, secca eppure seduttiva, scandita da immagini piene e taglienti. Alla sua seconda prova con il romanzo, dopo Il padre degli animali, lo scrittore lucano sembra così confermarsi a suo agio nel maneggiare sentimenti terminali, bravo com’è a renderli di pietra con un ritmo intenso e una lingua mai retorica.
Commenti recenti