mercoledì, 7 marzo 2007
FRIDA KAHLO • FLANNERY O’CONNOR: DUE DONNE DOC (di Miriam Ravasio)
Siamo in prossimità dell’8 marzo e io, vi dico la verità, non so bene come comportarmi. Conosco donne che gradiscono moltissimo ricevere gli auguri (e se non lo fai ci restano male), altre che – se solo accenni a farlo – ti aggrediscono brutalmente sostenendo che il tributare una giornata alle donne è prerogativa tipicamente maschilista.
Ne vogliamo discutere?
Scrivete sulla festa della donna. Scrivete di donne. Di grandi donne. Delle loro opere. Delle loro vite.
Ricordiamole qui. Vi va?
Ieri ho pubblicato un post dedicato a un volume edito da Rizzoli intitolato: “Le donne che leggono sono pericolose”. È un titolo forte, caustico. Ma vero. Diciamo la verità. Nei secoli scorsi le donne sono state tenute (appositamente?) un po’ ai margini della cultura. Discutiamo anche di questo, se volete. Intanto ringrazio Miriam Ravasio per avermi inviato un articolo molto bello su due donne indubbiamente grandi: Frida Kahlo e Flannery O’Connor.
Ve lo propongo qui di seguito.
(Massimo Maugeri)
Flannery O’Connor
Non conoscevo Flannery O‘Connor, fino a poco tempo fa ne ignoravo l’esistenza. Conoscevo però, e più che altro per affinità ortopediche, Frida Kahlo. Due donne forti, Frida (1907- 1957) e Flannery (1925-1964), due signore fragili, quasi contemporanee, stesso continente, una messicana e l’altra della Georgia.
Diverse e simili, entrambe hanno vissuto in un corpo malato, conoscevano la convivenza con il dolore, la gestione quotidiana delle forze, entrambe avevano con il dolore un rapporto materno. Scrivevano, disegnavano, mettevano da parte le idee per i momenti di quiete, quando il dolore s’addormenta, fa il sonnellino, e come le mamme stavano ben attente a non svegliarlo bruscamente, a non innervosirlo. I racconti della signora Flannery sono come i retablo di Frida: cose piccole, che si possono pensare a pezzi, che si possono programmare, per contenere l’emozione che eccita e risveglia il male. Disegni e racconti, intensi, belli e sconvolgenti. Una allevava i pavoni e gioiva per le loro splendide ruote, l’altra con le piume colorate degli uccelli tropicali si acconciava in modo strabiliante.
Si dice che avessero una risata scrosciante, tragica, paradossale, entrambe amavano rappresentarsi ma il loro pubblico era diverso: una recitava per Dio, l’altra per l’Uomo.
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Frida Kahlo
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Di Frida ho letto la biografia scritta da Hyden Herrera, uscita nel 1991 e il Diario, autoritratto intimo, presentato da Carlos Fuentes, 1995; conoscevo il male, ne intuivo la portata, il suo rapporto con l’arte e con l’amore, e anche qui ne intuivo la sofferenza: Estoy sola!
Letture terribili, che affrontavo con circospezione e mi facevano soffrire. “Una bomba coi nastrini”, scriveva di lei André Breton, nastrini, che anche dopo la morte hanno continuato ad ingabbiare la sua anima, come il più rigido dei busti. Il suo dolore esibito come un fuoco d’artificio mi faceva male: soffrivo sinceramente per lei, per come si era svolta la sua vita, per l’incomprensione della sua grazia, per la sua solitudine. Mi atterriva lo scempio provocatorio di sé, il suo mascherato lamento, perpetrato poi un po’ da tutti, anche ora. Pata de palo, gamba di legno, era il soprannome che si era data e Dolore era il nome del suo fedelissimo cane.
Ehm…
Tutt’altro ho provato per Flannery O’Connor: “Non vedo l’ora che questa faccenda della televisione sia finita. Ho sempre davanti agli occhi l’immagine del mio cipiglio glaciale trasmesso in tutta la nazione a milioni di bambini che attendono impazienti l’arrivo di Batman”. Ed è subito forte il suo senso di responsabilità e d’appartenenza.
Ho letto solo i racconti e Sola a presidiare la fortezza; i romanzi, per una condivisione lenta del suo lavoro e della sua fatica, li leggerò più avanti e senza fretta.
“Un bisogno disperato degli altri, che rimane inappagato, può farti prendere un indirizzo creativo, sempre che non ti manchino gli altri requisiti”. Ed entrambe ne erano dotate. Narratrici del dolore, che per chi dipinge è forma visibile e sensibile, mentre per chi scrive è conoscenza.
Come aggiornamento sullo stato del suo male la signora Flannery sintetizza, “sono sempre più una costruzione ad archi rampanti”, poi riprendendo questa immagine, a proposito dei mali morali, spiega: “Ormai non si contano gli informi animali che arrancano alla volta di Betlemme per venire alla luce: io non ho fatto che rintracciare l’itinerario di alcuni, e quando li descrivono come racconti dell’orrore, mi diverte sempre vedere che il recensore coglie sempre l’orrore sbagliato”.
Unos cuantos piquetitos (Qualche piccola coltellata) è un piccolo quadro ad olio (1935, cm 29 x 35) che ritrae la pietà per un fatto di cronaca cruento e assurdo, come quelli che conosciamo, a cui siamo abituati.
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La pittura è materia, e quel piccolo e tremendissimo quadro è un atto che continua a ripetersi, tutte le volte che lo guardiamo, come se Frida avesse anticipato i tempi, materializzando la nostra epoca attuale che non ha più vergogna dell’orrore.
“Devo scrivere per scoprire cosa sto facendo, un po’ come la vecchietta, non so mai bene cosa penso finché non vedo cosa dico; dopodiché devo dirlo e ridirlo”. E in una lettera ad “A” aggiunge: “penso che soltanto la chiesa saprà rendere sopportabile il terribile mondo al quale stiamo approdando” e intervenendo in un dibattito su cosa manchi oggi alla letteratura, risponde decisa: il sacro.
La sua religiosità è determinazione, convinzione assoluta su cui lavorare, un’ideale per cui battersi, per cui scrivere e che trova anche una sua forte espressione simbolica nella buffa animazione con cui elargisce consigli ad una cresimanda, o nella sottomessa e dolce immersione a Lourdes.
Da un cespuglio di piume e di fiamme, emerge il volto rassegnato di Frida, reclinato verso sinistra, le sopracciglia folte intensificano lo sguardo, alle sue spalle due ali azzurre segnate di nero. Su tutto, una scritta rossa: Te vas? No. Sotto con un pennello nero: Alas rotas.
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Miriam Ravasio
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