Fernando Savater è uno dei più noti intellettuali spagnoli di oggi.
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Fernando Savater
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Giorni fa ha pubblicato su El Pais un articolo dove sostiene che il successo editoriale non fa i libri buoni, riferendosi – peraltro – anche ad alcuni dei classici considerati “intoccabili”.
Su La Stampa dell’8 marzo è stata proposta una traduzione di quell’articolo. Io ne riporto, come al solito, uno stralcio con l’obiettivo di avviare un dibattito. Potete leggere l’articolo completo cliccando qui.
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In quell’interminabile zibaldone di pettegolezzi, barzellette, volgarità con lampi di genio che è il Borges raccontato dai diari di Adolfo Bioy Casares, il grand’uomo, un certo 9 luglio, dice al suo paziente cronista: «A questo libro (Sei problemi per don Isidro Parodi) manca una cosa per essere considerato molto buono: gli manca il successo. Io non so se, senza successo, un’opera può essere molto buona». Il giudizio poteva, certo, essere ironico o paradossale – come don Isidro – visto che con Borges non si sa mai. Ma propone un questione interessante. In effetti il criterio più puntuale che noi tutti utilizziamo per determinare se un’opera letteraria sia davvero buona, grande, classica è il successo.
L’Odissea, la Divina Commedia, i Saggi di Montaigne, Amleto, Don Chisciotte, Delitto e castigo o Cent’anni di solitudine hanno ottenuto riconoscimenti formidabili nel campo della letteratura perché hanno avuto un innegabile e solido successo che ha attraversato le generazioni. Non importa che a qualcuno di noi, personalmente, queste opere sembrino poco appassionanti o noiose da morire: ormai sono al di là della nostra possibilità di critica. (…)
Aveva ragione Chesterton quando definiva un autore classico «un re che si può abbandonare, ma che non si può più spodestare». È il peso della porpora del successo, né più né meno.
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Smettete di gridare, sento le vostre proteste: Shakespeare o Cervantes hanno avuto – e hanno – successo perché sono esempi d’eccellenza, non vengono considerati eccellenti perché hanno avuto successo. Lei sta cambiando l’ordine dei fattori per falsificare il risultato. D’accordo, ammetto che in alcune circostanze è davvero così, ma possiamo affermare che lo sia in tutte? La grandezza non può, occasionalmente, essere qualcosa che assomiglia all’eco del successo (i critici e gli «intenditori» che, nel corso degli anni, si sostengono a vicenda) al punto che nessuno abbia più il coraggio di urlare che il re è nudo o non venga ascoltato se le sue urla vanno controcorrente? È da scartare del tutto la possibilità che ci siano romanzi, poemi o drammi migliori di quelli più celebrati, ma che sembrano inferiori proprio perché non sono stati tanto magnificati? C’è un modo per misurare, in maniera oggettiva, il valore di un’opera letteraria se non valutando la sua provata capacità di convincere, in maniera durevole, la maggioranza dei lettori o degli opinion leader della letteratura? E questa maggioranza può sbagliare, qualche volta?
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A me Il Codice da Vinci pare effimero. E se, invece, una persona capace di viaggiare nel tempo mi dicesse che tra 200 anni continuerà a essere considerato un’opera fondamentale proprio come molti lo giudicano oggi? Non mi resterà che adeguarmi? Stendhal ha detto che la letteratura ha qualcosa da spartire con la lotteria: ci sono biglietti premiati e altri no. Allora? Non so, per non sbagliare io torno a Dickens. E mi consolo pensando che l’importante è che non venga mai meno, in un modo o nell’altro, il piacere della lettura.
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E ora… la parola passa a voi!
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