domenica, 25 marzo 2007
IL BOSCO DELLA BELLA ADDORMENTATA di Patrizia AZ
Ho chiesto a Carlotta Vissani di ARPAnet: “Se mi dovessi consigliare un libro, un solo libro, da voi edito… che titolo mi faresti?”
Ha risposto senza esitazioni: “Il bosco della bella addormentata di Patrizia AZ. Si tratta del romanzo che ha vinto la nostra iniziativa editoriale 20*06*2006”.
Carlotta è stata gentilissima, perché dopo pochi giorni ho trovato il libro in questione nella cassetta della posta. Ora si trova sul mio comodino, in attesa di lettura.
La Vissani mi ha scritto che: “Si tratta di uno spaccato di storia italiana che va dall’inizio degli anni Settanta sino a tutti i Novanta. Un viaggio catartico, di scoperta, di perdita e rinnovata acquisizione di coscienza il cui teatro principale è Bologna, e le cui quinte non secondarie sono New York, Miami, Barcellona, Amsterdam, Parigi e le isole Maldive. È una narrazione forte che s’intreccia tra presente, passato e futuro e racconta un’esperienza di morte e rinascita lunga trent’anni, vissuta tra spaccio, droga, AIDS, precarietà lavorativa e sentimentale, ed un immenso desiderio di amore e di accettazione, quasi sempre tradito e disatteso”.
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Ho chiesto alla casa editrice di inviarmi qualche brano. Brani significativi. Io ve li propongo qui di seguito, così potrete giudicare da voi.
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« I grandi allevavano ramarri e i piccoli dovevano raccogliere insetti da consegnare al pasto quotidiano di tale simbolo di potere: l’animale più grosso. Ogni tanto mettevano due o tre di questi insieme e non so come finisse. Ogni tanto scoppiavano delle risse pazzesche anche fra gli umani. Io scappavo e mi tiravo dietro un fratello pauroso e curioso, e più in là, come tutti i piccoli, ci fermavamo ad osservare, spaventati ed affascinati. Ascoltavamo le sfide sussurrate e le ingiurie urlate in dialetti e lingue a noi sconosciute, mentre per tutti, dal siciliano allo slavo passando per i nostri occhi, valeva il linguaggio del comportamento, dell’aggressività guaglionamente palesata o di quella contenuta in freddi sguardi. Valeva il punteggio dei denti, del sangue, degli occhi pesti e se un ritiro c’era, era sempre collettivo. Così dopo un po’ mi era abbastanza indifferente quel dispendio di energie, lo trovavo ridicolo e mi scansavo solo per paura di finirci in mezzo, soprattutto se la miccia si accendeva nel laboratorio dove, al tornio e con argilla scovata da noi sui colli, fabbricavamo sbilenchi vasi da cuocere poi nei fornetti. Poiché il far vasi era considerata un’attività per noi piccoletti, che in quella gerarchia di potere valevamo meno di zero, se in laboratorio c’erano molti ragazzi quello era già un segnale sospetto e presagiva atmosfere cariche di un’elettricità che di lì a poco si sarebbe scaricata. Ricordo Fabrizio, i cui occhi, nel bel mezzo di una lite, scintillavano di empatia per l’audacia di uno slavo. Tutti avevamo visto il coltello alla sua cintura, solo intravisto poi, grazie ad un gesto elegante ed eloquente che la diceva lunga sulla sua tranquillità.
“Sono qui, vieni a prendermi” sembrava dire all’aria interrotta che noi trattenevamo nei polmoni. Un coltello… .Non ne avevo mai visto uno lì dentro. »
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« Si entra, si depositano portafoglio, chiavi ed impicci vari ad un banco e poi ci si avvia verso una stanza dove due agenti carcerari donne ti fanno spogliare, per controllare che tu non abbia nulla addosso da passare ai detenuti. Tenevo la roba nel reggiseno fino al momento in cui mi mettevo in fila per la perquisizione personale, poi me la infilavo nel sedere, nella fenditura tra le natiche. Avevo venticinque anni e i glutei sodi, in grado di trattenere il mio segreto fino alla fine della spoliazione. Terminata la perquisizione personale, giungevamo nelle sale dei colloqui coi detenuti, fra clangore di cancelli e lunghi corridoi. Prima di arrivare lì avevo recuperato la roba dall’intimo nascondiglio e me l’ero messa in bocca.
In fondo era un pacchettino grande come una noce, avvolto nella plastica e sigillato con la fiamma
dell’accendino per renderlo impermeabile; lo passavo a Luca col primo bacio e lui, per tutta la durata del colloquio, mi parlava poco, tenendo il regalo sotto la lingua. »
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« Non ha il volto quella signora, è un ovale nero fra quei capelli biondi. Ma è lei, ne sono sicura, è lei.
E’ mia madre.
Incredibile. E’ stata con me ed io non lo ricordavo.
Il cambio di prospettiva mi obbligò a capire e a rileggere i miei anni in funzione di quella scoperta.
Quella che segue è un’intervista rilasciata dall’autrice.
Come è nato il bosco della bella addormentata, da quale scintilla emotiva?
Il libro era all’origine una lunga lettera incazzata. Ero arrabbiata con l’uomo che mi aveva rifiutata perché poco all’altezza della situazione, ero arrabbiata col mondo che si divideva in buoni e cattivi senza controllare i termini della divisione, il quoziente e l’eventuale resto, ero arrabbiata con coloro che mi avevano sottratto un’esistenza, perché è sempre rubata la vita ad un bimbo se nessuno lo sa crescere, se qualcuno lo abbandona, se in tanti lo percuotono. Poi quelle pagine arrabbiate sono diventate il piacere di un racconto, e da lì a scrivere il resto è stato facile e divertente: il bello di un’autobiografia. È tutto lì, nei ricordi, si tratta solo di avere voglia di narrare.
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Quando ha terminato la stesura non ha pensato che una pubblicazione cartacea avrebbe reso pubblica la parte più intima della sua vita… e quindi l’avrebbe esposta al giudizio, forse anche negativo, del pubblico? Come vive l’idea che gli altri possono avere di lei?
Sinceramente non mi curo di quello che gli altri pensano. Non ho ucciso, non ho stuprato, non ho umiliato nessuno, ho solo parlato di me, spinta da un bisogno più grande della dignità del contenersi. Volevo solo ribadire l’ingiustizia di certe esistenze, non avevo particolari messaggi, ma se bisogna trovarne uno per forza allora spero che il mio libro serva solo ad amare di più i propri figli, gli altri che incrociamo, amare di più questa nostra vita che a volte ci passa a fianco, sotto forma di giorni inutili, di bimbi piagnoni, di colleghi insopportabili, di casualità non abbastanza approfondite.
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Quale è stato il momento preciso in cui ha capito che era rimasta intrappolata in quel bosco che è diventato poi la sua prigione?
Ho capito di essere stata intrappolata nel bosco solo quando ne ero fuori e dalla radura ho scorto le intricatissime radici che mi avevano trattenuta. Ma sono certa che si esca da un bosco per entrare in un altro, meno complicato, più terreno forse, ma mai calmo e pianeggiante come l’anima si illude di esplorare. Non lo vogliamo il bosco, eppure ci siamo sempre dentro, tra vicende storiche, legami familiari, responsabilità individuali di ogni tipo. Domanda: chi di noi vive davvero in un campo di grano che ad ottobre si semina ed a giugno si miete, sempre e comunque, qualunque cosa accada?
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C’è stato un periodo in cui lei continuava a prestare servizio come dipendente comunale ma allo stesso tempo era entrata nella dipendenza era costretta a portare le maniche lunghe per coprire i lividi che le martoriavano le braccia… come ha fatto a non crollare definitivamente e come è riuscita a mantenere un impiego?
Mi sono tenuta stretto il mio impiego perché m’hanno allevato generazioni di vecchie contadine, per le quali il lavoro era tutto ed i soldi facili, proprio perché facili, sarebbero andati e venuti. Avevo i milioni in tasca, quando andavo in ufficio.
Giravo con l’auto blu e mangiavo solo in ristoranti famosi. Ma il mio lavoro era il mio lavoro. Così mi era stato insegnato, con serietà e disciplina.
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Il tema del viaggio: che cosa ricorda maggiormente delle sue esperienze di viaggio?… che cosa le hanno insegnato? Viaggiare era un modo per scappare da una realtà che temeva potesse intrappolarla ancora di più?
Di ogni viaggio ricordo solo la gente, non i monumenti, non gli alberghi, non il servizio bar, ma le anime che vagano su questo globo, così simili nei loro affanni, così uguali nelle loro speranze. Davvero, non c’è terra che mi abbia colpita più di questa consapevolezza: l’essere umano. L’appartenere ad una specie. La varietà delle situazioni mi ha solo ribadito la precarietà della nostra esistenza. Oggi sei su, domani sei giù, dovunque tu possa trovarti nel mondo.
Il bosco della bella addormentata di Patrizia AZ
Arpanet, 2006
pag. 238, euro 10
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